Titolo: Torneranno i prati
Regia: Ermanno Olmi
Interpreti: Claudio Santamaria, Alessandro Sperduti, Francesco Formichetti, Andrea Di Maria, Camillo Grassi, Niccolò Senni, Domenico Benetti
Genere: drammatico
Durata: 85 min.
Anno: 2014
Vigilia di Caporetto. Un avamposto in quota sul fronte nord-est. Dopo i disastrosi scontri del 1917, quel che resta dei contingenti giace sfiancato, sepolto sotto metri di neve. La trincea è un inferno sotterraneo, che la montagna si sforza di occultare. Assediata dai rigori dell’inverno, la guerra sembra non esistere più. Gli uomini sono occupati a sgombrare i passi ai portatori. Si sente solo il rumore cadenzato e metallico delle pale, e tra le valli il cupo brontolio dell’artiglieria, prima lontana, poi più vicina e invadente, a ricordare che sull’altopiano di Asiago si lotta ancora.
È un film in punta di piedi, quest’ultimo girato da Ermanno Olmi. Laddove la guerra è clamore e spesso, nel cinema, ridondante spettacolarità, il regista sceglie un tono pacato, musicalmente si direbbe un pianissimo che anima sia le voci dei protagonisti, voci di fantasmi, di sopravvissuti, sia le immagini. La stessa colonna sonora di Paolo Fresu si limita a scortare l’indicibile quotidianità in cui tutti sono prigionieri, senza strappi senza enfasi. Fabio Olmi, figlio del maestro, compie un lavoro impeccabile sul piano fotografico, giocando il dentro-fuori in una quasi monocromia tra ocra e grigio, servendosi di colori desaturati che proprio nella loro sfocatura pongono in risalto la prostrazione degli uomini e la cornice alienante in cui le loro vite sono incastrate. Le montagne immense e spettrali non hanno nulla di rassicurante. Il canto del soldato napoletano che scalda i cuori dei commilitoni, e anche dei “vicini” di trincea austriaci, è appena un sussulto nato per caso dalla bellezza fiabesca del plenilunio. Ma come vanno le cose nelle fiabe, pure su questa breve tregua son più le ombre a gravare dei sentimenti positivi.
Ci si attacca a quel poco che ancora, seppure flebilmente, lega al mondo: la corrispondenza – e c’è chi non riceve neppure quella perché ormai nessun familiare si ricorda di lui – un topo che gira in mezzo alle brande in cerca di molliche di pane, una volpe a caccia sul crinale, un larice sfogliato, apparizione estrema di una resistenza che pare compartecipe della sorte dei soldati.
Perfino la neve, per quanto sia un elemento così pervasivo sulla scena, ha un carattere sfuggente e in quel suo non essere mai del tutto bianca assume una connotazione infida, dove la morte sta acquattata in attesa di sorprendere le sue vittime. Tale straniamento accresce a dismisura l’inutilità dello stare lì e il senso di impotenza; la trincea è un buco claustrofobico, specchio delle ansie di chi la occupa, sempre sul punto di collassare. Nell’attesa snervante che tutto sia compiuto, senza che però se ne abbia un’idea precisa, l’avversario più temibile è il crollo emotivo. Quello che obbliga l’ufficiale a rinunciare ai gradi, consegnando il comando a un giovanissimo tenente. Il suo incarico è organizzare la difesa finché il comando provveda a inviare un sostituto adeguato. In un’ora la sua vita cambierà per sempre. Si troverà coinvolto nel martellamento dell’artiglieria nemica, avrà esperienza diretta di quanto la morte colpisca con cinica e sconvolgente rapidità e di come tutto ciò nella percezione di chi rimane in piedi finisca per divenire una sorta di abitudinaria perversione.
La guerra obbliga a convivere con un abbrutimento bestiale di sé, perché è lei stessa «una brutta bestia che gira il mondo e non si ferma mai», come si legge nella chiosa del pastore Toni Lunardi, alla fine del film.
La metamorfosi è dunque avvenuta, la neve sulla trincea si è fatta nera. Prima esisteva solo un’ipotesi del dramma, adesso la desolazione ha riempito tutti gli spazi. Già Monicelli aveva reso l'idea di ciò che poteva essere il bombardamento di una posizione. Ma il suo racconto si giocava sulla distanza. Sordi e Gassman, in missione per un carico di filo spinato, osservavano da una posizione arretrata quel che accadeva qualche metro sopra le loro teste. La mattina dopo si ritrovavano a camminare sui resti della loro trincea, scoprendo l’orrore della distruzione. Qui invece la furia della battaglia è narrata da dentro, dall’impetuoso cadere degli oggetti, dal tremore degli uomini, paralizzati o scaraventati per aria, dall’assordante sequenza dei colpi, cose che travolgono in blocco la sintassi della trama, imponendosi ancor più per l’esplicito contrasto col tono che le precede.
Sulla traccia di Federico De Roberto, che dapprima fu favorevole alla guerra e poi si liberò della retorica statalista, pubblicando nell’immediato dopoguerra dei racconti estremamente incisivi, Olmi crea una sequenza densissima, all’insegna del rigore storico e dell’attinenza alle fonti, fedele alle atmosfere già disvelate in Il mestiere delle armi.
Restando sul versante letterario, oltre a La paura di De Roberto, vi è un bagno sulle rive surreali di Il deserto dei Tartari. Questa immersione nelle coordinate di Buzzati conferisce la cadenza alla guerra di Olmi. Tanto scavo psicologico, la trincea-labirinto si replica ossessivamente nei pensieri dei protagonisti, assediandoli più della guerra reale. Puro logoramento dei nervi dove anche la malattia con cui il film si apre, un’influenza che viene dai Balcani – «tutti i mali vengono dai Balcani» dice l’ufficiale mentre fa rapporto al Maggiore – è una febbre che toglie energie ma dà l’impressione di seminare dietro di sé, e soprattutto dentro chi ne è colpito, qualcosa di ben più atroce. Si intuisce che gli uomini, quelli che metteranno il capo fuori dalla catastrofe, non saranno mai più risanati.
(Di Claudia Ciardi)
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