1 ottobre 2015

La scuola carrarese dell'Ermitage




Ancora pochi giorni per vedere i marmi dell’Ermitage esposti a Palazzo Cucchiari a Carrara, sedici sculture che da San Pietroburgo, dopo circa tre secoli, tornano nel luogo che tenne a battesimo la creatività di questi artisti. Nel Settecento infatti la cosiddetta scuola carrarese acquisì una larghissima fama, interessando soprattutto collezionisti tedeschi e russi. Presenti alla mostra sono non a caso diversi busti commissionati dai regnanti prussiani e da alti esponenti della nobiltà d’oltralpe. Visitando questo allestimento, si torna davvero indietro nel tempo, nel senso del tempo storico vissuto dalla cittadina toscana all’apice della propria gloria, quando cioè le sue maestranze ne innalzarono il nome nel contesto internazionale. Il percorso suggerisce molto bene come l’avvicendarsi di secoli di duro lavoro, e di vita altrettanto dura, dentro e all’ombra delle cave apuane, abbia saputo far germogliare lentamente, nelle generazioni, l’urgenza del creare. Millimetrica secolare limatura di sensibilità, arte del levare passata da artigiani scalpellini ai loro allievi e così via, negli anni, fino a consolidare una tradizione in grado di attrarre personalità anche dall’esterno, prestigiose committenze, e infine i compratori russi. E in che cosa avrebbe potuto manifestarsi se non nella statuaria, paziente esercizio attorno alla materia, tentativo di ricavare forme dall’informe, di infondere alla pietra un respiro vivente? 
Questo evento scaturisce da un’importante collaborazione con gli enti culturali russi, in primo luogo il Museo dell’Ermitage, rappresentato da Sergej Androsov, responsabile della curatela carrarese. Festeggia inoltre la riapertura al pubblico, dopo gli attenti lavori di restauro, delle sale di Palazzo Cucchiari, raffinata dimora ottocentesca opera di Leandro Caselli, disegnatore della Carrara moderna. Ulteriore celebrazione del luogo che proprio nello scorcio urbanistico che va da qui alla Chiesa di San Francesco, con la sua impervia e solare scalinata da tempio orientale, alla vicina scuola di scultura la cui architettura gioca con inserti moreschi, esalta la durevole ricerca d’arte e bellezza rappresentata in mostra. 
Un posto d’onore nella collezione la occupa senz’altro l’Orfeo di Antonio Canova. In gioventù, lo scultore di Possagno, lesse i classici latini, Ovidio e Virgilio, traendone appunti per una sua personale interpretazione della storia di Orfeo ed Euridice. Frutto di questo studio sono le due statue realizzate tra il 1773 e il 1776, attualmente custodite al Museo Correr di Venezia. L’Orfeo esposto a Carrara è un doppio, sul quale in passato si è acceso un dibattito di attribuzione risolto infine a favore dell’artista veneto, che attirò l’interesse dei russi, finendo nello sterminato fondo dell’Ermitage dove tuttora si trova. Il fatto che Canova abbia realizzato due versioni dell’Orfeo simboleggia l’attaccamento dell’artista a questo soggetto. Si tratta di una statua di medie dimensioni raffigurante l’attimo in cui il cantore, che tutto muoveva a commozione, comprende il tragico e irrimediabile errore che ha commesso voltandosi. L’artista ha assimilato profondamente i versi virgiliani «cum subita incautum dementia cepit amantem», tratti dal IV libro delle Georgiche, quell’improvvisa e improvvida follia che afferra l’uomo, ormai sul punto di uscire dall’Averno, e che lo spinge a voltarsi verso l’amata. Orfeo è fotografato così, in quella fatale torsione che lo rende tragicamente consapevole della sua irrimediabile perdita per aver infranto il patto con le divinità ultraterrene. Quei Mani più potenti di Ade, signore dell’aldilà, che non conoscono perdono e che lo stesso Foscolo cita in epigrafe dei suoi Sepolcri, altro poeta dialogante con la morte, che invoca il giuramento degli antichi perché ne sorreggano la parola. I versi virgiliani, alcuni riportati non a caso anche nel basamento dell’opera, tracciano la labilità dell’esistenza mortale in opposizione all’implacabile disegno divino, il quale riflette un disegno di natura.
Che Canova si sia appassionato a questo mito è assai comprensibile. Prima di tutto c’è il filone dell’epica sepolcrale che attraversa la cultura settecentesca, creando mode ma anche influenzando a un livello assai più profondo il gusto artistico. Poi c’è la grande allegoria che è racchiusa in questa storia. Orfeo è poeta; la discesa all’inferno, la separazione dalla donna che ama sono le prove cui l’artista è chiamato in vita. L’arte tende a essere sfuggente, si raggiunge nelle avversità e soprattutto nell’avversità del mondo, richiede da parte di chi la coltiva una volontà ferma. Vacillare anche solo un istante, implica disperdere i propri sforzi. 
Il giovane Canova si affaccia sulla scena dell’arte dimostrando di aver recepito questa lezione e di averla ben chiara davanti a sé. L’allestimento carrarese rende in maniera ammirevole l’atmosfera che aleggia attorno a questo Orfeo, posizionato in fondo a un corridoio lasciato quasi al buio, rimando voluto agli inferi. Nell’avvicinarsi alla statua il visitatore ripete il cammino di Euridice e allo stesso tempo sente su di sé la disperazione dell’uomo, che investe con forza chi fissa quel volto dai tratti convulsi. 
Il migliore omaggio a un ospite illustre di Carrara, dove soggiornò mentre provvedeva a reperire i marmi per il mausoleo Ganganelli, lì commissionando i blocchi, e dove fu eletto socio onorario dell’Accademia di Belle Arti.

(Di Claudia Ciardi)


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