La casa di uno scultore del legno a Moena
Per questi trentacinque anni,
dedicato a tutti i miei lettori.
Di
equivoci nella vita ne capitano molti, errori se ne fanno anche di più. Ma
soste poche. Quelle rare tregue in cui il mondo ci dice qualcosa di sé sono
sempre troppo rapide e stentate. E quando vengono non le riconosciamo, tanto
siamo abituati a non dar peso a quel che ci passa per le mani senza
avvertimento, chiedendo in cambio solo qualche attimo di abbandono, un gesto di
riconciliazione al quale non badiamo quasi mai. Dipende da noi. Non aspettarsi
nulla è forse meglio.
Ultimamente quando passeggio mi succede di fissare lo sguardo a una lanterna,
un’opaca corolla che veglia il piano nobile di una villa tutta dipinta di
bianco. Se ne sta timida e quasi corrucciata nell’attesa che l’ultimo sole di
novembre le cada sul viso; e in quell’istante che precede la sera può
finalmente sbocciare. L’autunno culla le cose come un’altalena, a ogni slancio
le vesti si gonfiano sopra i ricordi, i sandali adescano l’infanzia. Nel giro di poche ore si annida un trapasso che è uno scolorarsi di tinte
umorali di anni, dove la memoria si fa strada in ritardo. Il bambino è preso al
capestro come una farfalla nella rete, la luce spalanca il cancello del
giardino, un ditale stregato filtra dai muri di confine nel cartoccio delle
ombre. E la lanterna aspetta di sapere, incerta se affidarsi all’ultimo caldo che
il sole le offre o alle nubi dove la burrasca ha radunato le sue messaggere. Naviga nei rosoni orientali del cielo, con la fronte corrugata
dietro scalmi di vetro e si lascia abbindolare. Tra poco verrà il buio, il
lampo investirà le rotte dei navigli. Un viandante potrebbe portarla con sé,
appesa al suo mantello e a una chitarra scortecciata, mentre in una piazza qualcuno
si soffermerà su quelle risvolte lise. Però lei forse non vuole. Somiglia a
certe donne che dentro al mondo ci si sono solo immaginate, e non si sa se
cambieranno idea.
Davanti al morire del giorno, gli orti sperano ancora che
un inizio estate faccia di nuovo capolino. Resta
fedele alla sua parete la lanterna, eppure si sente trascinata. Perde il
controllo, ora si atteggia a meridiana confusa. Forse si strugge per un porto
conosciuto dai versi di un poeta. Orme sulla prima neve, così pare
recitasse una canzone, morbide chiazze nel mare della notte sui moli desolati
di una città spazzata dal vento. Ballate di marinai, cartoline d’innamorati che
mai più si vedranno. L’ago del sole cadente cuce gli orli alle gonne,
lunghissime sono ora le ombre, vulnerabili e lente come una fine. Siedono gli
amanti nei parchi, ogni cosa è fuoco e come fuoco si alza e muore. Le giovani
camminano nel rosso del tramonto, hanno sui visi una smorfia di
piacere. Tra non molto chiuderanno nel fazzoletto rosso la loro adolescenza, un
pane lasciato a lievitare.
Un vagabondo disteso sulla sua sacca incorniciato dal solito
angolo, idolo tinto di malta, suonando vuol dare una benedizione. Il suo corpo riflette ogni giorno
l’inizio e il coricarsi del tempo, e l’unisono del suo ripetersi in stagioni, tutto
lo sfiora senza mai assolverlo. A migliaia i cantastorie si sono addormentati sul dorso della terra, dondolante schiena di cammello che attraversa la vita, e molto fu scritto nei loro spartiti. Ovunque hanno sostato, saggiando il carattere degli uomini. Se uno moriva in una bettola o in mezzo a un campo, un altro veniva a dargli sepoltura e un altro ancora ne faceva il racconto. Così va la gloria degli ultimi e tali sono le loro gesta. Di mano in mano passa la fiaccola della loro arte, come una corona in una dinastia di re. Venivano, non è molto, sulle piazze coi panni stracciati a prendersi l’applauso e lo scherno. Ogni anno l’autunno versava le foglie sul loro spettacolo. Ma ora se ne vedono sempre meno. Qualcuno ha donato i suoi poemi, magari pensando servissero a consolare altri. Sia lecito nella poesia di novembre vedere anche l’opera loro, e quella di caldarrostai, ambulanti e artigiani e giocolieri improvvisati, maestose figure che orgogliosamente voltano le spalle ai rintocchi della fortuna o forse più di tutti l’afferrano. Chi da piccolo ha tenuto in tasca le reliquie di simili santi, chi avrà conservato per sé questi lari graziosi, non smarrirà l’incanto che gli hanno gettato addosso. Ognuno si sente toccato dal ricordo, poveri resti d’uomini che agli uomini insegnavano altre vie e loro, pur rinunciandovi, erano felici di conoscerle. Questa e altre eresie s’ingolfano sui visi scarniti del fogliame rimasto in bilico sui rami. Arrossiscono i muri reggendo
quei pudichi fantasmi; spoglie d’alberi che nessuno verrà a visitare, queste inutili ossa che sono state. Ma se ne ricorda l’odore e il brusio il
bambino incerto che le calpestava, mosso ai primi giochi, vi affondava le
scarpe, e quello spezzarsi di ali lo stringeva al mondo senza che lui lo
sapesse. Spezzava un ramo, profanava un ossario e lì qualcosa nasceva, nell’andare
sui prati, per quelle ignote terre con indosso il suo favoloso manto di piccolo re.
Essere un tutt’uno col fiotto che esce dalla pelle di cose vive e non vive,
essere tutto e confondersi.
La
buccia dei frutti trasuda, separata dalla polpa eppure di
un’unica sostanza. Il piatto è rotondo, brilla sotto la lampada accesa e sembra
quasi non avere forma. Gli spigoli della tavola disegnano la stanza, intorno è
già scuro, per strada non si sente nessuno. Davanti
alla finestra nuota questa esile radura sulla superficie di un lago silenzioso, cola amaranto dalle nubi dentro le pupille dei tetti, scende un chiarore che
ancora resiste nell’azzurro di qualche ruga. Siede al suo posto il figlio con
un sorriso largo e la tovaglia manda un bagliore fatato. Tutto è all’inizio, si
avvicina in punta di piedi alla soglia del suo cuore che non ha difese e attende di essere accolto. Lui stringe una bacchetta con cui s’illude di andare lontano. Oltre il
celeste dei vetri, di là dalle rose autunnali che ne ricamano la fronte, avrà
in dono i suoi pomi rotondi, diversi da quelli che la madre gli ha messo nel
piatto. Imparerà l’amarezza dei nuovi frutti, li rifiuterà, ma altri verranno e
finirà con l’accettarli. Innanzi a quel vetro si sente vicino al mondo eppure
respinto. Ancora non lo sa con certezza, prova un’indicibile delusione nel
guardare, e non la spiega. Cerca di mischiarsi alle cose ma neanche questo gli
riesce. Comincia a dubitare se mai gli riuscirà di unire se stesso agli
altri. La madre gli mette nel piatto la luna, rifila gli anni come una
collana, impasta le sue tenere carni alle perle che ruba al mercato, vegliandolo. E la lanterna sempre ben salda sulla casa.
Il
bambino vince il fazzoletto a rubabandiera e conquista metri alla sua
ribellione. La corsa gli dà vigore. Avanza in mezzo alle foglie, l’autunno lo
ritrova cresciuto. La sua inesperienza non è più il fragile spago con cui
legava l’amore della madre. Adesso può tenere testa alle ombre del giardino,
l’azzurra maschera della finestra non riesce più a catturarlo; ha tracciato un
confine sicuro, lui crede, tra sé e il mondo. Non cadrà più nell’inganno di
andare incontro alla vita. Ha imparato a non restare deluso, è la sua
convinzione. Ma proprio da qui verrà la sua scontentezza. Nessuna tavola
luccicherà più, il piatto dorato dell’infanzia rimarrà vuoto sotto la lampada
che nessuno curerà più di accendere. Abbandonate saranno le stanze nell’opaco
splendore di un’aspettativa fugata.
L’intera
esistenza si aggira in questo sommesso limitare di cose. Gli argini prima o
dopo finiscono travolti, atterrati. Si rimescola il tempo nella carne, occulte
doline franano sui contrafforti che saldamente hanno spartito lo spazio. Un
laccio stringe i polsi ai ricordi, e il sangue sgorga pesante e già rappreso,
trafila da questo lembo di volontà troppo sottile che aspira a preservare.
Novembre tiene per le caviglie, gioca a tirare indietro, quasi camminassimo in mezzo alle onde. Dagli ultimi orti della città esala un fumo denso di sterpaglie. Le bacche si
aprono sulla via dandosi agli insetti. Non so cosa porti qui, ad aggirarsi per queste
bianche case dove non s’incontro nessuno. I cortili
vanno a morire nei campi insieme al sole. Tutto qui ha un riverbero di pace. Quanto più cedo a
questa tregua autunnale, anche solo per poco, in questo strano confine di
abitati e abbandono, più ancora ho l’impressione di udire una piccola morte
farsi strada dentro di me, un palpito di fibre scivolate dal trapezio del mondo. Così vicina non l’ho mai sentita. Ma è la mia sosta,
è calda come una madre, e all’infinito vorrei poterla assecondare.
(Di Claudia Ciardi, novembre 2014)