9 giugno 2017

Calderón de la Barca - La vita è sogno




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Calderón de la Barca, personalità eclettica e geniale in quel mirabolante barocco spagnolo delle arti assediato da rovesci e disastri sociali di ogni ordine e grado, scrisse La vita è sogno con intento monitorio, forse vagamente ma molto vagamente rassicurante, nel 1635. Il dramma, destinato al nobile spettatore del Palazzo Reale di Madrid, riflette i tanti conflitti che sbandavano allora il paese. La mancanza di investimenti produttivi, i costi esorbitanti della monarchia e della politica di palazzo ingessata dai vetusti protocolli asburgici, avevano finito per creare una situazione d’allarme nei conti pubblici. Il mercato fibrillava, governato dalla volubilità di interessi extranazionali che nel giro d’un giorno crollavano senza appello, mentre le continue svalutazioni, attuate nel vano tentativo di risanare le finanze erodevano i capitali privati. In questo impoverimento generale, in cui il quadro politico si presentava senza spunti gettando semi a casaccio, contribuendo semmai al naufragio, nell’assoluta incapacità di innovare davvero le architetture più deboli e superate del sistema, s’inserisce la colta dialettica teatrale di de la Barca. E per chi legge ora il suo fraseggio a tratti svolazzante nella ricerca di continui doppi sensi, provocatorio nell’esternazione dei capovolgimenti di sorte e dei destini incrociati che ci scorrono sotto gli occhi, tutto questo modo di procedere insomma può risultare perfino stucchevole, addirittura pretenzioso.
Suo intento è la strenua difesa della cultura contro le pulsioni di natura non disciplinate da una giusta regola di vita che preveda l’accettazione dei propri simili e l’integrazione in mezzo a loro. La storia è quella di un giovane principe infelice, tale Sigismondo, che a causa di un cattivo oroscopo interpretato con eccesso di rigore dal padre, viene giudicato inadatto al futuro incarico di regnante e per questo rinchiuso nella torre dei prigionieri, dove cresce solo e selvatico. 
C’è da chiedersi se de la Barca creda fino in fondo alla sua lezione moralizzatrice. Leggendo tra le righe, quando con appassionata tenerezza descrive l’abbrutimento in cui per egoismo e malignità dei suoi Sigismondo è stato gettato, caratterialmente un Filottete o un Oreste moderno in una lettura parallela col teatro antico, l’impressione che se ne ricava è di una difesa in punta di penna. Insisto anzi nel dire che queste parti sono le più toccanti, quando il figlio si scaglia contro il padre accusandolo della sua brutalità ma al contempo lasciando che a parlare, al di là della sua irruenza, sia il tormento degli anni scivolati via tra dolore e miseria. In tal senso anche la graduale assimilazione di Sigismondo nella sfera della cultura a scapito dell’isolamento di natura, appare se vogliamo più problematica di quel che si può pensare all’inizio. Il giovane erede al trono alla fine consolida le sue virtù perché queste erano già in lui, la sua nobiltà d’animo preesisteva alla sua condizione di abietto. E si può dunque pensare che pure l’esser stato confinato fuori dalla società, l’esistenza in un assoluto di natura che ha precluso il legame con gli altri, non si sarebbe determinato come elemento auto deflagrante se non in quanto esacerbato dalla cattività.
Insomma la moralizzazione dello scrittore appare temperata da aspetti strutturali che l’evolvere della trama porta con sé. È certo che quel che gli preme sia comporre il conflitto messo in scena e ciò non può che avvenire con il riconoscimento ufficiale di Sigismondo, la sua partecipazione al costume cortigiano, che poi coincide con quello dei contemporanei dell’autore. Che per Calderón de la Barca il messaggio edificante non fosse però chiamato in alcun modo a oscurare il costrutto letterario, inteso come rifugio, come ultimo baluardo di resistenza alle intemperie del mondo lo dimostrano la scelta del motivo di fondo e del luogo. Tutto accade alla corte di una Polonia immaginaria di cui non scorgiamo quasi nulla tranne qualche angolo tra vette, dirupi vertiginosi, boschi impenetrabili, una torre per i condannati e una reggia fisicamente e simbolicamente speculare ad essa. In questa particolarissima cornice incline al sogno, il motore principale del racconto non poteva che essere la costante incertezza tra sonno e veglia che sembra assediare la vita umana. Tema orientale per eccellenza, dalla filosofia cinese a Le mille e una notte, de la Barca esaspera qui il senso di labilità che si accompagna ai gesti e alle umane sensazioni, trascinando il lettore sulle sabbie chiare di un mare immobile che nel migliore dei miraggi finisce per scomparire ma che magari è servito per qualche attimo a riposare.


(Di Claudia Ciardi)  



Edizione consigliata:
Calderón de la Barca, La vita è sogno, a cura di Cesare Acutis, traduzione di Antonio Gasparetti, Einaudi, 1980 (ristampe)       
   









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