Goya - Los Caprichos
Calderón
de la Barca, personalità eclettica e geniale in quel mirabolante barocco spagnolo
delle arti assediato da rovesci e disastri sociali di ogni ordine e grado,
scrisse La vita è sogno con intento
monitorio, forse vagamente ma molto vagamente rassicurante, nel 1635. Il
dramma, destinato al nobile spettatore del Palazzo Reale di Madrid, riflette i
tanti conflitti che sbandavano allora il paese. La mancanza di investimenti
produttivi, i costi esorbitanti della monarchia e della politica di palazzo
ingessata dai vetusti protocolli asburgici, avevano finito per creare una
situazione d’allarme nei conti pubblici. Il mercato fibrillava, governato dalla
volubilità di interessi extranazionali che nel giro d’un giorno crollavano
senza appello, mentre le continue svalutazioni, attuate nel vano tentativo di
risanare le finanze erodevano i capitali privati. In questo impoverimento
generale, in cui il quadro politico si presentava senza spunti gettando semi a
casaccio, contribuendo semmai al naufragio, nell’assoluta incapacità di
innovare davvero le architetture più deboli e superate del sistema, s’inserisce
la colta dialettica teatrale di de la Barca. E per chi legge ora il suo
fraseggio a tratti svolazzante nella ricerca di continui doppi sensi,
provocatorio nell’esternazione dei capovolgimenti di sorte e dei destini
incrociati che ci scorrono sotto gli occhi, tutto questo modo di procedere
insomma può risultare perfino stucchevole, addirittura pretenzioso.
Suo
intento è la strenua difesa della cultura contro le pulsioni di natura non
disciplinate da una giusta regola di vita che preveda l’accettazione dei propri
simili e l’integrazione in mezzo a loro. La storia è quella di un giovane
principe infelice, tale Sigismondo, che a causa di un cattivo oroscopo
interpretato con eccesso di rigore dal padre, viene giudicato inadatto al
futuro incarico di regnante e per questo rinchiuso nella torre dei prigionieri,
dove cresce solo e selvatico.
C’è
da chiedersi se de la Barca creda fino in fondo alla sua lezione
moralizzatrice. Leggendo tra le righe, quando con appassionata tenerezza
descrive l’abbrutimento in cui per egoismo e malignità dei suoi Sigismondo è
stato gettato, caratterialmente un Filottete o un Oreste moderno in una lettura
parallela col teatro antico, l’impressione che se ne ricava è di una difesa in
punta di penna. Insisto anzi nel dire che queste parti sono le più toccanti,
quando il figlio si scaglia contro il padre accusandolo della sua brutalità ma
al contempo lasciando che a parlare, al di là della sua irruenza, sia il
tormento degli anni scivolati via tra dolore e miseria. In tal senso anche la
graduale assimilazione di Sigismondo nella sfera della cultura a scapito
dell’isolamento di natura, appare se vogliamo più problematica di quel che si
può pensare all’inizio. Il giovane erede al trono alla fine consolida le sue
virtù perché queste erano già in lui, la sua nobiltà d’animo preesisteva alla
sua condizione di abietto. E si può dunque pensare che pure l’esser stato
confinato fuori dalla società, l’esistenza in un assoluto di natura che ha precluso il legame con gli altri, non si sarebbe determinato come elemento auto
deflagrante se non in quanto esacerbato dalla cattività.
Insomma
la moralizzazione dello scrittore appare temperata da aspetti strutturali che
l’evolvere della trama porta con sé. È certo che quel che gli preme sia comporre il conflitto messo in scena e ciò non può che
avvenire con il riconoscimento ufficiale di Sigismondo, la sua partecipazione al costume cortigiano, che poi coincide con quello dei contemporanei dell’autore. Che per Calderón de la Barca il
messaggio edificante non fosse però chiamato in alcun modo a oscurare il costrutto letterario, inteso come rifugio, come ultimo baluardo di resistenza alle
intemperie del mondo lo dimostrano la scelta del motivo di fondo e del luogo.
Tutto accade alla corte di una Polonia immaginaria di cui non scorgiamo quasi
nulla tranne qualche angolo tra vette, dirupi vertiginosi, boschi
impenetrabili, una torre per i condannati e una reggia fisicamente e
simbolicamente speculare ad essa. In questa particolarissima cornice incline al
sogno, il motore principale del racconto non poteva che essere la costante
incertezza tra sonno e veglia che sembra assediare la vita umana. Tema
orientale per eccellenza, dalla filosofia cinese a Le mille e una notte, de la Barca esaspera qui il senso di labilità
che si accompagna ai gesti e alle umane sensazioni, trascinando il lettore
sulle sabbie chiare di un mare immobile che nel migliore dei miraggi finisce
per scomparire ma che magari è servito per qualche attimo a riposare.
(Di
Claudia Ciardi)
Edizione consigliata:
Calderón de la Barca, La vita è sogno, a cura di Cesare Acutis, traduzione di Antonio Gasparetti, Einaudi, 1980 (ristampe)
Calderón de la Barca, La vita è sogno, a cura di Cesare Acutis, traduzione di Antonio Gasparetti, Einaudi, 1980 (ristampe)
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