Il
grande pittore olandese Rembrandt van Rijn, virtuoso del ritratto,
tra i più produttivi e celebrati artisti del Seicento europeo e di sempre, fu
uomo di cultura versatile e mente libera, qualità presto assimilate dall’alto livello di
istruzione che la sua famiglia volle impartirgli. Figlio di quel patriziato
cittadino intraprendente e ben provvisto di mezzi che operava a Leida
all’inizio del secolo, l’artista poté crescere senza limitazioni materiali e misurarsi
precocemente nei diversi campi del sapere. Il padre era proprietario di un
mulino sul Vecchio Reno, tanto che dal fiume derivò il suo cognome:
van Rijn significa infatti “del Reno”. Genius loci e una società in fermento sono
i due poli complementari da cui irradia la creatività di Rembrandt.
L’Olanda,
Amsterdam soprattutto, accolse migliaia di ebrei espulsi dalla Spagna nel 1492.
Figure della più varia levatura e dalle molte attitudini trovarono un luogo
dove poter mettere fine alla diaspora e sviluppare senza restrizioni le proprie
attività. Iniziava così l’epoca d’oro dei Paesi Bassi, in cui fiorirono i
commerci, s’infittirono le relazioni del ceto più dinamico e agiato della
nazione con il resto del mondo, prese vita un ricco mercato dell’arte.
Quando
nel 1631 il pittore si trasferì ad Amsterdam, era un ventenne richiesto da una
committenza di notabili e facoltosi collezionisti. Concluso il suo
apprendistato, già da tempo esercitava l’arte del ritratto, viaggiando spesso
tra Leida e la città sull’Amstel, dove tutto allora sembrava possibile. A
partire dal 1639 si stabilì in una casa nel Vlooienburg, il quartiere ebraico
dove risiedevano gli esuli spagnoli e portoghesi della comunità sefardita. Qui
rimase fino al 1656, poi per l’impossibilità di restituire l’ingente
somma di tredicimila gulden che gli era occorsa per comprarla e nella crescente
indigenza che lo colpì durante gli ultimi anni della sua vita, fu costretto
a vendere. Il lungo periodo trascorso in questa zona della città lo mise in
contatto con personaggi singolari e coltissimi del mondo semita, cosa che gli
fu d’ispirazione non solo nell’ambito prettamente figurativo, ma in modo ancor
più sostanziale per quella che era la sua continua sete di approfondire una cultura
altra. Tra i suoi vicini si annovera il famoso diplomatico, rabbino, cabalista e
dedito al messianesimo Menasseh-ben-Israel, di due anni più vecchio di lui. Legati da un importante
rapporto d’amicizia, si sa che Rembrandt lesse le sue opere, Speranza d’Israele pubblicata nel 1650,
cui seguì la Piedra gloriosa del
1655, storia del popolo ebraico per la quale il maestro olandese realizzò
quattro acqueforti ad accompagnamento del testo.
Menasseh
fu uomo impegnato sul versante politico per l’integrazione e riabilitazione
degli ebrei nelle società europee, figura controversa e non pacificamente apprezzata
all’interno della comunità stessa. Promosse la causa ebraica presso Cromwell
consegnandogli il pamphlet Humble Adress
to the Lord Protector, dove sono illustrati i vantaggi che sarebbero
derivati all’Inghilterra dalla riammissione degli ebrei. Vi era già stato un
precedente nel 1651 ma i colloqui si arrestarono di fronte allo scoppio della
guerra anglo-olandese (1652-’54). Al secondo tentativo Cromwell non rispose
esplicitamente ma in via informale concesse a un numero crescente di israeliti
libertà di movimento e d’insediamento a Londra. Sempre nel 1655, quando Menasseh andava cercando aperture oltremanica per i suoi, l’Inghilterra strappò
la Giamaica al dominio spagnolo, lucrosa produttrice di zucchero e base cruciale
per il mercato degli schiavi. A consigliare l’impresa giamaicana era stato il
sefardita Simon de Caserès, che sollecitò Cromwell anche a proposito della
conquista del Cile, mai tentata prima, attraverso un contingente ebraico.
Nel
medesimo decennio, sulle rive del mare del nord, l’arte di Rembrandt si nutrì
del confronto quotidiano con gli immigrati sefarditi e ashkenaziti, questi
ultimi scampati alle persecuzioni praticate in Polonia e Lituania, gli uomini
della tradizione dai neri caffettani e le lunghe barbe, gli arcaici e mistici
talmudisti, guardati talora con diffidenza dagli “hidalgos”, educati secondo i
costumi cristiani, vestiti alla moda, dediti agli affari.
Di
questa varia umanità, dunque, e dell’amicizia dei suoi esponenti di punta, non
solo Menasseh, ma anche il rabbino Saul Levi Mortera, i giovani allievi, e le
più eterogenee categorie di mestieranti e imprenditori, resta traccia in numerose
sue opere. Ci si è anche dedicati nel tempo a riconoscere in un volto o in un
altro qualcuna delle sue più assidue frequentazioni di quel mondo, celebrata
non solo nei lavori a tema biblico. Ad esempio è con ragionevole certezza che
si può vedere un ebreo erudito nel quadro Filosofo
in meditazione, del 1632. Il fatto di rappresentare queste stanze
attraversate da una luce filtrante, all’interno delle quali siede in angolo un
uomo di cultura che trasmette a chi osserva il suo grado di dedizione per lo
studio e la pratica del sapere, evidenziano in chi dipinge un temperamento
incline al misticismo, al desiderio di dare campo visivo all’essenza spirituale,
all’intangibile levità che essa reca in sé. E l’atmosfera che si respira in simili tele fa pensare al travaso di un’anima affine che in quella consuetudine da
tempo ha trovato rifugio.
Quanto
alle scene bibliche, nella cultura olandese seicentesca erano molto ricercate sia
per la prossimità religiosa dei committenti ai temi delle scritture, sia perché
l’allegoria morale, a mezzo della lunga eredità lasciata dal Medioevo, seguitava
a esercitare un immediato potere monitore e conturbante insieme, messaggio inappellabile
sulla via virtuosa e il pericolo fatale di smarrirsi. Dagli anni ’30 in poi
molte di queste scene entrarono nei dipinti di Rembrandt. È così con il Geremia
piangente, assiso nelle vicinanze delle rovine di Gerusalemme, quadro che
presuppone la lettura diretta o indiretta delle Antichità giudaiche di Giuseppe Flavio, e ancora nel festino di
Baltassar, dove campeggia un’iscrizione in ebraico probabilmente dettata dallo
stesso Menasseh o copiata da uno dei suoi manoscritti, e nel Mosè che fa mostra
delle tavole della legge, opera presente alla pinacoteca di Stato di Berlino
insieme ad altri “ritratti ebraici” del maestro olandese.
In
un recente studio di Steven Nadler – recente solo perché divulgato in Italia un
paio di anni fa dall’editrice Einaudi, ma si tratta in realtà di una ricerca
condotta più di dieci anni fa – vengono ricostruite esistenze e connessioni
sulla Jodenbreenstrat, la strada larga degli ebrei, al tempo di Rembrandt. Lo
storico e filosofo, tra i massimi esperti del Seicento olandese, non ha potuto
valersi della diffusione degli ultimi tre volumi del Corpus of Rembrandt Paintings per
mano di Ernst van de Wetering, avendo già finito di vergare il suo saggio,
quando questi iniziarono a palesarsi nel 2005. Una lacuna che non passa
inosservata nelle conclusioni del libro, pur restando un testo affascinante per
l’acribia con cui ci si cala nei ritmi e nelle vicende dei luoghi vissuti dai
protagonisti dell’epoca e di questa Amsterdam caleidoscopica, fulcro di tante avventure e ribattezzata non a caso “Nuova Gerusalemme”.
Tutt’altro
che marginale, l’interesse di Rembrandt per la cultura semita, esplorata nelle
sue diversità storiche e geografiche, è un tratto distintivo dell’intera sua
produzione tanto più che questi soggetti non furono materia da rappresentare con
distaccata professionalità, ma uomini e donne con cui condivise amicizie,
scambi culturali, momenti di vita, grazie ai quali giunse al riconoscimento
artistico e, soprattutto, coltivò una necessaria iniziazione alle cadenze della
sua sensibilità.
(Di Claudia Ciardi)
Bibliografia:
Steven Nadler, Gli ebrei di Rembrandt, Einaudi, 2017
Federico Dezzani, Terra contro mare. Dalla rivoluzione inglese a quella russa, Editore StreetLib - formato elettronico
Rembrandt - Classici dell'arte - Volume 9 - Rizzoli/Skira con il «Corriere della Sera»
Opere:
Geremia lamenta la distruzione di Gerusalemme, 1630
Filosofo in meditazione, 1632
Ritratto di Menasseh-ben-Israel, acquaforte, circa 1636
Il festino di Baltassar, circa 1636
Acquaforte per la Piedra gloriosa
Le quattro acqueforti per la Piedra gloriosa
Ritratto di rabbino, 1665
La sposa ebrea, 1666
La sposa ebrea - dettaglio