Quando
Michele Pellegrino approda al paesaggio di Langa ha già circumnavigato il
territorio, intrecciandovi un solido racconto fotografico. Dopo lo scavo umano
della realtà paesana, gli appostamenti sulle strade e le piazze che attorniano le sue
costruzioni – altro modo di sviscerare il tema della fisionomia – dopo l’alchimia organica delle cime alpine, in
cerca di un imprendibile genius loci, si avvicina alla collina, prediligendo
gli spazi appartati e selvatici, le vie non battute, gli scorci da cui affiora
la cadenza di un tempo assoluto, fuori da ogni percettibile definizione.
Non è un caso che il 1993, che vede la pubblicazione del catalogo sull’Alta Langa, sia anche l’anno della sua personale sulle Alpi ospitata dal Museo della montagna di Torino. La lontananza delle vette, la vicinanza del mondo rurale, una polarità che la fotografia di Pellegrino inverte oppure mischia e sovrappone. Perché i due ambienti sfuggono e sfumano nella stessa misura gettandosi in un’inquietudine atemporale, ma vengono anche improvvisamente a parlarci in modo più semplice e familiare. Al fotografo il compito di rappresentarne le espressioni perturbanti, i mutevoli volti, l’eterno divenire del loro esserci negli innumerevoli solchi della vicenda terrena. In orizzonti sgombri, dove l’uomo è una presenza evocata soltanto, nel taglio di cieli rannuvolati e docili curve dei prati, sul greto dei torrenti, nei silenzi assorti dei filari ridisegnati dagli inverni.
Un
lavoro in cui non è in gioco una narrazione della provincia, dove non s’intende
isolare la nostalgia bucolica per qualcosa che si va perdendo. C’è anzi qui
tutta la ruvida esattezza della vita nei campi, una quotidianità mostrata per
quello che è, tracce di faticose giornate, colte nella geometria di una
palizzata, nelle circonferenze un po’ astratte dei covoni. Come già per il
ritratto di quella consuetudine aspra e grama, mostrata in punta di piedi
incrociando gli interni dei casali, camere e cucine di pochi arredi, in
entrambi gli sguardi preminente è il racconto di un territorio, un racconto ciclico,
universale. Simboli, macrocosmi e microcosmi concentrici, marginalità che
racchiudono essenze, archetipi, annodati alla sensibilità di chi li ha percorsi.
Una corrente che attraversa le architetture schelliniane – ispiratrici di
un’altra serie importante di Michele Pellegrino, gli Incanti ordinari –
quanto le più belle pagine letterarie di Cesare Pavese.
Intento
del fotografo è contribuire a far affiorare sul suo obiettivo certi tratti
distintivi, offrendoceli senza aver progettato nulla, staccati da tentazioni
estetiche, asciutti nella loro presenza scarna e compiuta. La vaga fisicità dei
terreni dissodati, quasi lande avvistate in sogno, e questa sorta di elemento liquido,
nei cieli e nei sentieri, che s’insinua dappertutto. «Che la presenza
dell’uomo» dice l’autore «possa essere avvertita nelle ombre lunghe delle
vigne, sulle colline assolate, tra i covoni di grano e magari a passeggio tra
le nuvole». Il progetto di Langa potrebbe essere in tal senso un esercizio di
arcaica divinazione.
(Di
Claudia Ciardi)
Dogliani
Saliceto
Roddino
Montezemolo
Castellino
Dal
catalogo:
Michele Pellegrino, Alta Langa, l'altra collina
prefazione di Nino Gualdoni
Edizioni Cassa di Risparmio di Cuneo, 1993
Edizioni Cassa di Risparmio di Cuneo, 1993
Angelo Ruga, Dicembre (1979). Olio su tela
* Pinacoteca civica di Savona - Fotografia di Claudia Ciardi ©
L’artista, nato a Torino nel 1930 e morto a Clavesana nel 1999, porta in quest’opera le suggestioni oniriche delle Langhe.
* Pinacoteca civica di Savona - Fotografia di Claudia Ciardi ©
L’artista, nato a Torino nel 1930 e morto a Clavesana nel 1999, porta in quest’opera le suggestioni oniriche delle Langhe.