I congressi sulla disoccupazione, del 1906 a Milano e del 1910 a Parigi, di estremo interesse, sono rivelatori di un grave problema, che sarebbe stato almeno in parte risolto solo dopo l’esperienza, anche in questo discriminante, della Grande Guerra. I convegni degli anni Dieci infatti rivelano una grave sproporzione fra le analisi, la massa di informazioni, la rete di relazioni messe in campo, già consistenti, e la fragilità delle ipotesi di soluzione almeno parziale dei problemi prodotti dalla disoccupazione in termini di reddito e di qualificazione del lavoro. […] Negli anni Venti, il cosiddetto “biennio rosso” italiano, gli episodi rivoluzionari in Germania, gli scioperi di massa in Francia ebbero la caratteristica comune di varcare la soglia della fabbrica e violarne la sacralità in quanto proprietà privata. Tali forme diverse di radicalizzazione erano accomunate dall’occupazione fisica del luoghi di lavoro durante gli scioperi. D’un colpo la questione dell’occupazione diventava una questione di distribuzione del lavoro esistente e di autocontrollo della prestazione. […]
La disoccupazione è emersa come problema autonomo e specifico insieme a molti altri che rispondono a codici, problemi e gruppi sociali diversi ma connessi: il controllo del corpo, del tempo, l’imposizione della rispettabilità attraverso l’introiezione del risparmio, della previdenza e dei diritti del mercato o il contrario, la libertà dei corpi dalla servitù dell’incidente e della malattia precoce, la disposizione libera del tempo di vita attraverso la riduzione contrattuale e legale degli orari, la libertà dall’ansia del risparmio inutile perché divorato dagli imprevisti, e sostituito dal versamento agli organismi del miglioramento e della resistenza.
La disoccupazione come problema autonomo, insomma, può emergere solo quando il diritto alla continuità del reddito e dell’attività lavorativa hanno cominciato ad affermarsi contrattualmente prima, e poi giuridicamente. Ma tutti questi elementi convergono in un percorso che possiamo così delineare. Lo Stato sociale nasce, come dimostra la precocità dell’esperienza tedesca, da esigenze di polizia amministrativa, ma cambia radicalmente – o meglio cambiano i modi in cui esso si manifesta – nella svolta del XX secolo quando per la prima volta – oggi sappiamo che questa svolta non è necessariamente né permanente né definitiva – la condizione di lavoratore si distingue da quella di povero. Certamente questa distinzione comporta l’accettazione di una qualche forma di produttivismo non priva di compromissioni, in alcune culture politiche, con aspetti del darwinismo sociale. Ma rappresenta anche l’ingresso delle speranze e dei progetti di molti lavoratori, di cui gli stessi riformatori “dall’alto” devono tenere conto.
Sources:
Maria Grazia Meriggi, La disoccupazione come problema sociale. Riformismo, conflitto e “democrazia industriale” in Europa prima e dopo la Grande Guerra, Franco Angeli, Milano, 2009
Sulla mobilitazione industriale in Italia e il suo effetto nei rapporti fra lavoratori, governo e imprenditori si veda:
Giovanna Procacci, Dalla rassegnazione alla rivolta: mentalità e comportamenti popolari nella Grande Guerra, Bulzoni, Roma, 1999
Luigi Tomassini, Stato e classe operaia in Italia durante la prima guerra mondiale, a cura di Giovanna Procacci, Franco Angeli, Milano, 1983
Francisco Goya - Viejos comiendo sopa. Óleo sobre muro trasladado a lienzo
******
Cominciando da una definizione
Già le società preindustriali conoscevano persone prive di un lavoro remunerato per un periodo determinato o indeterminato e perciò senza mezzi di sostentamento; erano la moltitudine dei poveri (Pauperismo), il cui destino era ritenuto legato alla volontà divina o imputabile all'incapacità del singolo. Nei loro confronti venivano prese le più svariate misure, che andavano dalla beneficenza ai lavori forzati. Attorno alla fine del XIX sec. le condizioni di vita nelle regioni industrializzate subirono importanti trasformazioni. Da un lato il diffondersi del lavoro salariato e l'urbanizzazione resero sempre più complicato il ricorso alla solidarietà fam. in situazioni di emergenza; dall'altro, il Movimento operaio, in forte crescita, sollevò la questione dello status quo denunciandone gli abusi. Ciò indusse la Politica sociale, soprattutto a partire dal decennio 1880-90, a differenziare le cause che conducevano alla Povertà; malattia, incidente, età e disoccupazione trovarono così il dovuto riconoscimento sociale. Il termine "disoccupazione", spesso accompagnato dagli aggettivi "reale" o "involontaria", si diffuse a partire dal periodo compreso tra il 1880 ca. e la prima guerra mondiale, quando diversi Paesi cercarono, con alterni risultati, di definirlo. Dalla fine del decennio 1870-80 i disoccupati, che in precedenza avevano rivendicato un aiuto collettivo solo in maniera occasionale, promossero dimostrazioni e raduni (ad esempio a Ginevra, Berna, Zurigo e Basilea) e riuscirono in questo modo a conferire al loro stato la dimensione di un problema sociale permanente. I comitati di soccorso, creati da cittadini filantropi con il sostegno crescente della mano pubblica, non furono però mai in grado di porre una distinzione netta fra i disoccupati in senso stretto e gli altri poveri. Secondo le autorità e le org. operaie, erano soprattutto gli aiuti agli alcolizzati e ad altri perdigiorno a danneggiare la reputazione dei disoccupati involontari. Solo l'adozione di criteri più precisi da parte dell'Assicurazione contro la disoccupazione, in via di diffusione, e le azioni di sostegno nel periodo tra le due guerre resero possibile una chiara distinzione. Ancora oggi, tuttavia, la disoccupazione costituisce un settore della politica sociale su cui convergono molte più contestazioni rispetto a categorie quali l'età, la malattia o l'incidente.
La disoccupazione si manifesta soprattutto in quattro forme. La disoccupazione strutturale risulta da profonde trasformazioni del sistema economico ed è caratterizzata da lavoratori che, colpiti dal declino di un settore, non trovano occupazione per molto tempo a causa di qualifiche professionali specifiche o per mancanza di alternative occupazionali nella regione, come ad esempio durante il periodo fra le due guerre nel settore del ricamo nei dintorni di San Gallo o nel 1970 nell'industria orologiera della Svizzera occidentale.
La disoccupazione congiunturale è provocata da recessioni o crisi economiche e giunge spesso massiccia e inaspettata. In Svizzera colpisce inizialmente l'economia di esportazione, poi i settori che le sono strettamente legati. Questa forma è quella che coinvolge di gran lunga il maggior numero di persone contemporaneamente; è perciò principalmente contro di essa che si rivolgono le disposizioni di politica sociale quali la creazione di occasioni di lavoro e le riforme delle assicurazioni o altro.
Un terzo tipo di disoccupazione è quella stagionale, che spec. in passato colpiva in inverno soprattutto il ramo delle costruzioni e del turismo, dipendenti dalle condizioni meteorologiche. Per questo motivo i comitati di soccorso che operavano a cavallo del XVIII e XIX sec. limitavano le loro attività ai mesi freddi. Con il trascorrere del tempo tuttavia questa forma di disoccupazione ha perso importanza a causa di nuove procedure e abitudini. Mentre nel periodo 1920-24 il tasso di disoccupazione del mese di febbraio superava del 64% quello di luglio, nell'ultimo decennio del XX sec. il divario si è sensibilmente ridotto. Dal tardo XIX sec. inoltre, la partenza degli Stagionali in inverno alleggerisce ulteriormente il mercato del lavoro.
La disoccupazione frizionale ricoprì un ruolo importante fino alla prima guerra mondiale. Fra due impieghi, gli artigiani itineranti trascorrevano spesso un periodo di inattività, mentre la stessa attività industriale era colpita da fluttuazioni considerevoli.
Dizionario storico della Svizzera
Historisches Lexikon der Schweiz
What was the unemployment rate in Germany after the 1st world war?
1919: 5%
1926: 10%
1932: 30%
Germany's Weimar Republic was hit hard by the depression, as American loans to help rebuild the German economy now stopped. Unemployment soared, especially in larger cities, and the political system veered toward extremism. The unemployment rate reached nearly 30% in 1932. Repayment of the war reparations due by Germany were suspended in 1932 following the Lausanne Conference of 1932. By that time Germany had repaid 1/8th of the reparations. Hitler's Nazi Party came to power in January 1933.
1919-1928: Under the Treaty of Versailles, Germany must give up territory (and population) and pay reparations. War debt, reparations, and reckless printing of money cause crippling hyperinflation in the postwar years, while unemployment remains high through the '20s. The onset of the Depression ends a slight recovery. Government spending increases to 25 percent of GDP between the wars, up from 15 percent.
1929-1932: Depression in the United States prompts creditors to call in their loans to Germany. Unemployment rises to nearly 30 percent in 1932. Budget cuts designed to convince the Allies Germany was suffering too much to pay reparations do lead to a moratorium, but also cause misery and discontent, which in turn fuels the Nazi rise to power.
1933-1938: With the Nazis in power, subsidies boost industries tied to arms and self-reliance. Unemployment is almost zero, but wages are low, and foreign reserves shrink to fund expansion. Unlike Japan, Germany does not limit consumer goods, and rearmament is not yet fully planned. In 1936 Hitler urges Germany to be ready for war by 1940 through a Four-Year Plan that sets production quotas."
Source and further information:
Germany experienced hyperinflation in 1923 and chronic high unemployment throughout the 1920's as a result of the inability of the governemtn to cope with the problems of Germany effectively. When the unemployment rate jumped in 1930 as a result of the onset of the Great Depression the support for the Weimar Republic drained away.
The carefully thought-out social and political legislation introduced during the revolution was generally unappreciated by the German working classes. The two goals sought by the government, democratization and social protection of the working class, were never achieved. This has been attributed to a lack of pre-war political experience on the part of the Social Democrats. The government had little success in confronting the twin economic crises following the war.
The permanent economic crisis was a result of lost pre-war industrial exports, the loss of supplies in raw materials and foodstuffs from Alsace-Lorraine, Polish districts and the colonies along with worsening debt balances and reparations payments. Military-industrial activity had almost ceased, although controlled demobilisation kept unemployment at around one million. The fact that the Allies continued to blockade Germany until after the Treaty of Versailles did not help matters, either.
From:
Answer Bag
The Great Depression in Germany
Germans were not so much reliant on exports as they were on American loans, which had been propping up the Weimar economy since 1924. No further loans were issued from late 1929, while American financiers began to call in existing loans. Despite its rapid growth, the German economy was not equipped for this retraction of cash and capital. Banks struggled to provide money and credit; in 1931 there were runs on German and Austrian banks and several of them folded. In 1930 the US, the largest purchaser of German industrial exports, put up tariff barriers to protect its own companies. German industrialists lost access to US markets and found credit almost impossible to obtain. Many industrial companies and factories either closed or shrank dramatically. By 1932 German industrial production was at 58 per cent of its 1928 levels. The effect of this decline was spiraling unemployment. By the end of 1929 around 1.5 million Germans were out of work; within a year this figure had more than doubled. By early 1933 unemployment in Germany had reached a staggering six million.
The effects this unemployment had on German society were devastating. While there were few shortages of food, millions found themselves without the means to obtain it. The children suffered worst, thousands dying from malnutrition and hunger-related diseases. Millions of industrial workers – who in 1928 had become the best-paid blue collar workers in Europe – spent a year or more in idleness. But the Great Depression affected all classes in Germany, not just the factory workers. Unemployment was high among white-collar workers and the professional classes. A Chicago news correspondent in Berlin reported that “60 per cent of each new university graduating class was out of work”.
[…]
The Weimar government failed to muster an effective response to the Depression. The usual response to any recession is a sharp increase in government spending to stimulate the economy – but Heinrich Bruning, who became chancellor in March 1930, seemed to fear inflation and a budget deficit more than unemployment. Rather than ramping up spending, Bruning decided to increase taxes to reduce the budget deficit; he then implemented wage cuts and spending reductions, an attempt to lower prices. Bruning’s policies were rejected by the Reichstag – but the chancellor was backed by president Hindenburg, who in mid-1930 issued his policies as emergency decrees. Bruning’s measures failed and probably contributed to increased unemployment and public suffering in 1931-32. They also revived government instability and bickering between parties in the Reichstag.
The real beneficiary of the Great Depression and Bruning’s disastrous policy response was Adolf Hitler. With public discontent soaring, membership of the NSDAP grew to record levels. In September 1930 the NSDAP increased its representation in the Reichstag almost tenfold, winning 107 seats. Two years later they won 230 seats, the most won by any single party during the entire Weimar period. Hitler found the failures and misery of the Great Depression to his liking, remarking: “Never in my life have I been so well disposed and inwardly contented as in these days. For hard reality has opened the eyes of millions of Germans.”
Source:
Alpha History
Certo, parliamo di una nazione “virtuosa” dal punto di vista amministrativo, che sa fare sistema in maniera più efficace dei suoi colleghi sud europei. Se il mercato del lavoro in Italia è al collasso, oltralpe si riesce ancora a respirare. Tuttavia, anche la Germania, come il vecchio continente in cui è inserita, risente gli effetti diretti e indiretti di una prolungata recessione che non accenna a mollare la presa. L’Europa e i suoi mercati sono da tempo febbricitanti e delle tanto annunciate misure per la crescita non si vede neanche l’ombra. Per quanto riguarda l’Italia a questo bisogna aggiungere un buon trentennio di immobilismo politico, una corruzione endemica, un’offerta formativa discutibile che negli ultimi anni ha perso più di un treno rispetto agli standard di preparazione delle generazioni più giovani negli altri paesi del continente ed extracontinentali. Ciò è più che sufficiente a giustificare il tormentone dell’ ‘italiano in fuga’ che ormai impazza in tutti i media; non c’è articolo o esperienza di viaggio che non cominci con questo adagio, un po’ scontato ormai, e pure spiacevole, perché dimostra la resa di un popolo che sfugge ai suoi problemi interni, raccontando a se stesso che ‘fuori’ è tutto molto meglio. Ma ci vedo anche un atteggiamento un po’ furbetto, abbastanza tipico in Italia, che si può sintetizzare così: “magari io ce la faccio; gli altri vedano loro”.
Quando si è fuori, si è stranieri, e ‘fuori’ non esiste nessun paese dei balocchi. L’Europa è quello che è, non cresce e non decide. Vivere in Germania non è facile. Il paese offre ancora risorse ed è capace di metterne in campo molto più che da noi (qui bisognerebbe aprire la voragine dei Diktate conditi di austerity che hanno aiutato le casse nordiche ma non voglio entrare nel merito della questione e comunque sono dell’idea che la Germania in parte ha ragione a esigere dai paesi mediterranei più correttezza e l’avvio delle riforme strutturali). Tuttavia, anche nel Nord si percepisce qua e là un lassismo preoccupante. L’impressione che ho avuto nella mia recente esperienza di viaggio pre-elettorale è più o meno questa: lasciamo che la barca segua la corrente; non abbiamo al momento problemi interni, ci preoccupano un pochino quelli che abbiamo attorno, ma faremo la voce grossa e tutto filerà liscio.
Quando sono salita in macchina del mio amico berlinese, che mi ha fatto da guida nei quartieri ovest della capitale, tra il villaggio della FU e le zone residenziali che orbitano attorno all’università, ho passato il tempo del viaggio letteralmente appiccicata al vetro. In strada era un continuo susseguirsi di cantieri: case orribili, una all’altra uguali fino allo sconforto, un tempo alloggi delle forze di occupazione, che adesso vengono ristrutturate nell'ambito di affrettati piani di privatizzazione. E tanti nuovi appartamenti, tirati su quasi con noncuranza. Chi ci lavora sembra farlo per tenersi occupato in qualcosa, per dimostrare a se stesso che la crisi non c’è, che le persone, nonostante quel che si dice, hanno fame di case perché, appunto, Berlino è una delle mete dell’europeo in fuga. Verrebbe da dire: qui tutto va bene. Si pensa a costruire, non c’è nessuna emergenza sociale all’orizzonte, tutto appare calmo e ovattato, inflazione è una parola espunta del dizionario, chi la pronuncia di sicuro non ci sta con la testa: in un supermercato tedesco si compra a prezzi che l’Italia ormai non ricorda più. Eppure i problemi che agitano il continente producono come un rumore di fondo che irrompe nella pace di questi vialetti e si unisce a quello ben più vicino dei martelli pneumatici in azione.
Una sera, davanti a un tè speziato, seduti a un tavolo all'aperto di Steglitz, quando il quartiere è finalmente calmo, l'aspetto dei casermoni appare leggermente più umano, i viali a scorrimento veloce sono meno trafficati, il mercato chiuso, leggiamo un po’ svogliati i giornali. Manca qualche settimana alle elezioni ma il dibattito è fiacco, quasi inesistente. A un tratto punzecchio il mio amico: «Voterete in massa la Merkel». Alza la testa, mi guarda un attimo per capire cosa volessi insinuare, e poi butta lì, senza scomporsi: «Non c’è alternativa».
Le lamentele berlinesi e germaniche sono abbastanza note (caratteristica condivisa con gli italiani, che tuttavia danno al lamento un aspetto più teatrale ed esibito) eppure stavolta, confrontandomi di tanto in tanto con i miei interlocutori, pendolari del treno, impiegati che la mattina percorrono di corsa le 'vie della City' a Friedrichstrasse, proprietari di chioschi in quartieri-dormitorio, ho percepito in città un calo di entusiasmo, nel complesso un senso di stanchezza del cittadino medio tedesco. E per quanto mi riguarda un’inquietudine della vita nella metropoli più che raddoppiata.
Quello che voglio dire è che la Germania di adesso mi ha abbastanza delusa. La frenesia ‘alimentare’ del cemento, l’idea di costruire a ogni costo, l’ipertrofia progettuale mi hanno restituito un'immagine vuota. Pare quasi che questo forzato attivismo sia investito del compito di celare la stasi che attanaglia molti settori vitali della società tedesca. Fatto salvo il fascino letterario e culturale della ‘mia’ Berlino che in me è tutto particolare e scorre su un binario parallelo, non ho trovato nessuna assonanza, nessuna vera empatia con la quotidianità che ho esplorato. Gli anni della recessione picchiano duro anche qui, anche se di rimbalzo, e si avverte una lenta disfatta, pericolosa perché incolore e inodore ma se uno ha l’occhio allenato, e soprattutto, al di là del bene e del male, ama questo luogo, non può non coglierla.
Di accidia si può anche morire. In politica le conseguenze possono essere disastrose. E per l’intera classe politica europea, questo è un rischio concreto. Negli ultimi cinque anni dalla Germania mi sarei aspettata più coraggio e molta meno propensione alla contabilità. Far quadrare i conti è nobile cosa e necessaria ma c’è bisogno ancor più di una leadership forte, in grado di ispirare e segnare una rotta nell’interesse comunitario. Questo paese dovrebbe sfruttare i margini di vantaggio che ha non per arroccarsi (e arrochirsi) ma per assumere il ruolo di cinghia di trasmissione di tutte quelle energie che il vecchio continente può mettere in campo per provare a riaccendere i motori.
(Di Claudia Ciardi)
See also:
The German Unemployed: Experiences and Consequences of Mass Unemployment from the Weimar Republic to the Third Reich
Richard J. Evans, Dick Geary
Hieronymus Bosch (detail)
Segnaliamo il reportage di «Internazionale» n. 1017 sul mercato del lavoro in Germania. L’articolo è uscito poco prima delle elezioni tedesche tenutesi nel settembre 2013. In parallelo faccio notare la copertina di «Der Spiegel», sulla politica ‘poco mossa’ della Merkel; il numero è anche interessante perché, come si vede dal titolo evidenziato in rosso in alto a sinistra, contiene l’inchiesta sui big data raccolti dall’NSA, che ha fatto scoppiare nelle settimane successive lo scandalo sullo spionaggio mondiale.Tra flessibilità che si traduce in un precariato sempre più selvaggio e soluzioni di dubbia efficacia targate “mini-job”, i dati ufficiali sull’occupazione in Germania, aiutati da certa propaganda giornalistica confezionata nei paesi mediterranei, nascondono molte realtà problematiche di cui si può avere un’idea più profonda solo passando un po’ di tempo nel paese della Cancelliera.
Certo, parliamo di una nazione “virtuosa” dal punto di vista amministrativo, che sa fare sistema in maniera più efficace dei suoi colleghi sud europei. Se il mercato del lavoro in Italia è al collasso, oltralpe si riesce ancora a respirare. Tuttavia, anche la Germania, come il vecchio continente in cui è inserita, risente gli effetti diretti e indiretti di una prolungata recessione che non accenna a mollare la presa. L’Europa e i suoi mercati sono da tempo febbricitanti e delle tanto annunciate misure per la crescita non si vede neanche l’ombra. Per quanto riguarda l’Italia a questo bisogna aggiungere un buon trentennio di immobilismo politico, una corruzione endemica, un’offerta formativa discutibile che negli ultimi anni ha perso più di un treno rispetto agli standard di preparazione delle generazioni più giovani negli altri paesi del continente ed extracontinentali. Ciò è più che sufficiente a giustificare il tormentone dell’ ‘italiano in fuga’ che ormai impazza in tutti i media; non c’è articolo o esperienza di viaggio che non cominci con questo adagio, un po’ scontato ormai, e pure spiacevole, perché dimostra la resa di un popolo che sfugge ai suoi problemi interni, raccontando a se stesso che ‘fuori’ è tutto molto meglio. Ma ci vedo anche un atteggiamento un po’ furbetto, abbastanza tipico in Italia, che si può sintetizzare così: “magari io ce la faccio; gli altri vedano loro”.
Quando si è fuori, si è stranieri, e ‘fuori’ non esiste nessun paese dei balocchi. L’Europa è quello che è, non cresce e non decide. Vivere in Germania non è facile. Il paese offre ancora risorse ed è capace di metterne in campo molto più che da noi (qui bisognerebbe aprire la voragine dei Diktate conditi di austerity che hanno aiutato le casse nordiche ma non voglio entrare nel merito della questione e comunque sono dell’idea che la Germania in parte ha ragione a esigere dai paesi mediterranei più correttezza e l’avvio delle riforme strutturali). Tuttavia, anche nel Nord si percepisce qua e là un lassismo preoccupante. L’impressione che ho avuto nella mia recente esperienza di viaggio pre-elettorale è più o meno questa: lasciamo che la barca segua la corrente; non abbiamo al momento problemi interni, ci preoccupano un pochino quelli che abbiamo attorno, ma faremo la voce grossa e tutto filerà liscio.
Quando sono salita in macchina del mio amico berlinese, che mi ha fatto da guida nei quartieri ovest della capitale, tra il villaggio della FU e le zone residenziali che orbitano attorno all’università, ho passato il tempo del viaggio letteralmente appiccicata al vetro. In strada era un continuo susseguirsi di cantieri: case orribili, una all’altra uguali fino allo sconforto, un tempo alloggi delle forze di occupazione, che adesso vengono ristrutturate nell'ambito di affrettati piani di privatizzazione. E tanti nuovi appartamenti, tirati su quasi con noncuranza. Chi ci lavora sembra farlo per tenersi occupato in qualcosa, per dimostrare a se stesso che la crisi non c’è, che le persone, nonostante quel che si dice, hanno fame di case perché, appunto, Berlino è una delle mete dell’europeo in fuga. Verrebbe da dire: qui tutto va bene. Si pensa a costruire, non c’è nessuna emergenza sociale all’orizzonte, tutto appare calmo e ovattato, inflazione è una parola espunta del dizionario, chi la pronuncia di sicuro non ci sta con la testa: in un supermercato tedesco si compra a prezzi che l’Italia ormai non ricorda più. Eppure i problemi che agitano il continente producono come un rumore di fondo che irrompe nella pace di questi vialetti e si unisce a quello ben più vicino dei martelli pneumatici in azione.
Una sera, davanti a un tè speziato, seduti a un tavolo all'aperto di Steglitz, quando il quartiere è finalmente calmo, l'aspetto dei casermoni appare leggermente più umano, i viali a scorrimento veloce sono meno trafficati, il mercato chiuso, leggiamo un po’ svogliati i giornali. Manca qualche settimana alle elezioni ma il dibattito è fiacco, quasi inesistente. A un tratto punzecchio il mio amico: «Voterete in massa la Merkel». Alza la testa, mi guarda un attimo per capire cosa volessi insinuare, e poi butta lì, senza scomporsi: «Non c’è alternativa».
Le lamentele berlinesi e germaniche sono abbastanza note (caratteristica condivisa con gli italiani, che tuttavia danno al lamento un aspetto più teatrale ed esibito) eppure stavolta, confrontandomi di tanto in tanto con i miei interlocutori, pendolari del treno, impiegati che la mattina percorrono di corsa le 'vie della City' a Friedrichstrasse, proprietari di chioschi in quartieri-dormitorio, ho percepito in città un calo di entusiasmo, nel complesso un senso di stanchezza del cittadino medio tedesco. E per quanto mi riguarda un’inquietudine della vita nella metropoli più che raddoppiata.
Quello che voglio dire è che la Germania di adesso mi ha abbastanza delusa. La frenesia ‘alimentare’ del cemento, l’idea di costruire a ogni costo, l’ipertrofia progettuale mi hanno restituito un'immagine vuota. Pare quasi che questo forzato attivismo sia investito del compito di celare la stasi che attanaglia molti settori vitali della società tedesca. Fatto salvo il fascino letterario e culturale della ‘mia’ Berlino che in me è tutto particolare e scorre su un binario parallelo, non ho trovato nessuna assonanza, nessuna vera empatia con la quotidianità che ho esplorato. Gli anni della recessione picchiano duro anche qui, anche se di rimbalzo, e si avverte una lenta disfatta, pericolosa perché incolore e inodore ma se uno ha l’occhio allenato, e soprattutto, al di là del bene e del male, ama questo luogo, non può non coglierla.
Di accidia si può anche morire. In politica le conseguenze possono essere disastrose. E per l’intera classe politica europea, questo è un rischio concreto. Negli ultimi cinque anni dalla Germania mi sarei aspettata più coraggio e molta meno propensione alla contabilità. Far quadrare i conti è nobile cosa e necessaria ma c’è bisogno ancor più di una leadership forte, in grado di ispirare e segnare una rotta nell’interesse comunitario. Questo paese dovrebbe sfruttare i margini di vantaggio che ha non per arroccarsi (e arrochirsi) ma per assumere il ruolo di cinghia di trasmissione di tutte quelle energie che il vecchio continente può mettere in campo per provare a riaccendere i motori.
(Di Claudia Ciardi)
Hieronymus Bosch (detail)
Links:
DRadio-Nachrichten (9. November)
In questo blog: Novemberrevolution
November Group/ Novembergruppe (Germany, 1918)
Erika Mann: la donna del 9 novembre (un bel post dedicato da Berlin&Out a una figura artistica straordinaria)
Arbeitslosigkeit im Weimarer Republik/ La disoccupazione cambiò la storia
Revolte in Krisenzeiten von Stefan Sauer (Berliner Zeitung/ Juni 2013)
https://carusopascoski.wordpress.com/2013/11/07/georg-heym-i-silenti/
Nessun commento:
Posta un commento