Un tempo le strade erano buone amiche e riuscivano pure a dispensare qualche gioia. Ai primi caldi si camminava volentieri tra i vicoli, sotto i muri che con naturalezza sfoggiavano il belletto degli anni. In quel groviglio di crepe e mattoni, da dove l’intonaco era spontaneamente saltato giù, ci si sentiva ospiti desiderati; uno sconforto, una confessione, un amore avrebbero trovato lì un solerte spirito della pietra, disposto quanto mai all’ascolto. Ogni davanzale, ogni scalino, la più insignificante breccia schiusa su una parete, perfino le tristi bocche di lupo, dietro i cui spazi ciechi si smarriva il selciato, accoglievano il cuore del passante e lo stringevano a sé con indulgenza.
Gli scantinati in cui guardavo erano parte dei regni della mia infanzia. Mi donavano le mie prime vertigini, e quando mi lasciavano, non raramente avevo nostalgia di provarle ancora. Capitava così un’altra passeggiata nella via meravigliosa, io stringevo leggermente il corpo a quello di mia madre e facevo domande incomprensibili sulle aperture che bucavano la strada, come altrettanti sentieri che si sarebbero potuti esplorare; l’eco di questa curiosità dura ancora dentro di me.
E mi ricordo anche certe bottegucce di artigiani che lavoravano vicino al fiume, silenziosi occupanti di fondi ai piedi dei palazzi storici, risparmiati alla fredda imponenza dei piani superiori. C’era un orologiaio col pizzetto caprino, una banderuola arruffata sulla scheggia del mento, la pelle scura e rugosa e una lente cerchiata di nero perennemente attaccata all’occhio. Quando arrivava qualcuno le sue mani subito si slanciavano verso il sacchetto che il cliente aveva con sé, mani piccole, bianche e scattanti che con soccorrevole determinazione estraevano l’oggetto bisognoso di cure. Si avvicinava il bottone metallico all’orecchio, dopo averlo ritualmente scosso tra due dita, e per un attimo restava in ascolto, come il medico ascolta il cuore di un paziente. Se il caso era ritenuto grave, allora si poteva vedere un fremito attraversare il corpo dell’anziano, poco prima di emettere la diagnosi. Se invece era di immediata soluzione, armeggiava per qualche momento con pinzette, forcine, soluzioni lubrificanti, spennellava, lucidava, caricava finché la cassa ticchettante faceva ritorno spensierata nella sua custodia. Ogni tanto in vetrina comparivano delle pendole e tutto il vano era improvvisamente soggiogato dal sinistro beccheggiare di quelle arche resuscitate.
Poco più avanti, il negozio di vernici teneva a bella mostra il catalogo sopra il bancone, la proprietaria lo sfogliava con professionale lentezza, facendone schioccare le pagine, mentre io m’incantavo a ogni rettangolo di colore che per qualche attimo fluttuava nell’aria. Sui barattoli era disegnato un cigno, la mia fantasia lo trasportava in placidi laghetti e giardini proibiti, ma non so perché mi faceva anche ricordare di un povero pavone con la coda spelacchiata, un animale che sotto il peso dei suoi incalcolabili anni si trascinava in un cortile a pochi metri dall’idillio fatato.
Amavo gli angusti quadrati offerti dall’incontro dei vicoli, amavo le storie che vi si raccoglievano come pellegrini intorno a un altare, aspettavo con avidità di sentire il rumore dei portoni spinti sui cardini, per inventare le mie storie. In città questi spazi li chiamano chiostre, ma gli adorati popolani che m’insegnarono la parola adesso non ci sono più; dalla mia infanzia queste sillabe mi si sono strette al collo come il più caro degli abbracci, e se ora mi visitasse una delle voci da cui ascoltavo quella lingua per me straordinaria la riconoscerei senza indugio fra centinaia. Negli angoli delle strade si aprivano antri, dove prendevano campo suppellettili, arnesi, imballaggi, stoffe, mondi prodigiosi legati alle improbabili esistenze che li possedevano. E quando da Battellino si tostava il caffè, l’aroma si spandeva in tutti i vicoli, restandoci per una buona mezz’ora; dalle mie finestre allora vedevo carovane e attendamenti e carichi di spezie, e la bottega diveniva un favoloso suq in mezzo alla città.
Ma più di chiunque altro, inconfessabilmente, tutti aspettavamo una donna vestita di lana nera, il corpo appesantito, le mani tozze, mani da lavorante; così conciata, nella lunga gonna, coi capelli mossi e corvini in dispetto all’età, avrebbe anche potuto essere una zingara o un’indovina. A ogni autunno la caldarrostaia piazzava il robusto paiolo sotto i loggiati, attizzava la brace e girava, girava, incrociando in quel gesto lo sguardo dei passanti che cuoceva là dentro come una luna di pasta messa a lievitare. Anno dopo anno a me sembrava che la vecchia mestasse insieme ai suoi frutti meravigliosi anche un po’ della mia vita, qualcosa di me scivolava via, si ribellava e subito svaniva, al pari delle braci sollevate in aria dai capricci del vento.
Le strade ora indossano panni diversi ma in realtà sono irrimediabilmente invecchiate. Se torno a visitarle quasi non le riconosco. Qui, come altrove, hanno lavorato di compasso e squadra, tagli e rifiniture che raggelano, il dialetto non suona più come una volta nelle bocche dei nuovi bottegai, pochi, ordinati abitatori di locali alla moda. Anche i vicoli sono vuoti. Appartengo all’ultima generazione di ragazzi che ha saputo giocare, ridere a crepapelle, battersi, correre tra queste pietre, quando ancora se ne stavano al loro posto rotte e magnifiche. Il nostro nascondino copriva tutto il quartiere, il fiato ci mancava, sudavamo, urlavamo, cantavamo sguaiati e di tanto in tanto una mamma avanzava a grandi falcate per riprendersi il figlio, e ci gridava l’irripetibile perché lo avevamo portato sulla cattiva strada. Tutti prima o poi abbiamo rimediato una brutta caduta, ma ci si rialzava sempre fieri e più alti di qualche spanna. E quel senso di assoluta paura e appagamento quando strisciavo a terra per intrufolarmi in un magazzino abbandonato, mi è stato fedele compagno in anni assai più seri e atrocemente uguali. Dopo metri e metri fatti gattonando al buio, col terrore di essere scoperti, sbucavamo nel cortile di un palazzo, allora le nostre mani sporche e doloranti si cercavano, tremavamo frastornati, ubriachi per l’impresa e restavamo così, in silenzio, a cavalcioni di un tempo eterno.
Gli scantinati in cui guardavo erano parte dei regni della mia infanzia. Mi donavano le mie prime vertigini, e quando mi lasciavano, non raramente avevo nostalgia di provarle ancora. Capitava così un’altra passeggiata nella via meravigliosa, io stringevo leggermente il corpo a quello di mia madre e facevo domande incomprensibili sulle aperture che bucavano la strada, come altrettanti sentieri che si sarebbero potuti esplorare; l’eco di questa curiosità dura ancora dentro di me.
E mi ricordo anche certe bottegucce di artigiani che lavoravano vicino al fiume, silenziosi occupanti di fondi ai piedi dei palazzi storici, risparmiati alla fredda imponenza dei piani superiori. C’era un orologiaio col pizzetto caprino, una banderuola arruffata sulla scheggia del mento, la pelle scura e rugosa e una lente cerchiata di nero perennemente attaccata all’occhio. Quando arrivava qualcuno le sue mani subito si slanciavano verso il sacchetto che il cliente aveva con sé, mani piccole, bianche e scattanti che con soccorrevole determinazione estraevano l’oggetto bisognoso di cure. Si avvicinava il bottone metallico all’orecchio, dopo averlo ritualmente scosso tra due dita, e per un attimo restava in ascolto, come il medico ascolta il cuore di un paziente. Se il caso era ritenuto grave, allora si poteva vedere un fremito attraversare il corpo dell’anziano, poco prima di emettere la diagnosi. Se invece era di immediata soluzione, armeggiava per qualche momento con pinzette, forcine, soluzioni lubrificanti, spennellava, lucidava, caricava finché la cassa ticchettante faceva ritorno spensierata nella sua custodia. Ogni tanto in vetrina comparivano delle pendole e tutto il vano era improvvisamente soggiogato dal sinistro beccheggiare di quelle arche resuscitate.
Poco più avanti, il negozio di vernici teneva a bella mostra il catalogo sopra il bancone, la proprietaria lo sfogliava con professionale lentezza, facendone schioccare le pagine, mentre io m’incantavo a ogni rettangolo di colore che per qualche attimo fluttuava nell’aria. Sui barattoli era disegnato un cigno, la mia fantasia lo trasportava in placidi laghetti e giardini proibiti, ma non so perché mi faceva anche ricordare di un povero pavone con la coda spelacchiata, un animale che sotto il peso dei suoi incalcolabili anni si trascinava in un cortile a pochi metri dall’idillio fatato.
Amavo gli angusti quadrati offerti dall’incontro dei vicoli, amavo le storie che vi si raccoglievano come pellegrini intorno a un altare, aspettavo con avidità di sentire il rumore dei portoni spinti sui cardini, per inventare le mie storie. In città questi spazi li chiamano chiostre, ma gli adorati popolani che m’insegnarono la parola adesso non ci sono più; dalla mia infanzia queste sillabe mi si sono strette al collo come il più caro degli abbracci, e se ora mi visitasse una delle voci da cui ascoltavo quella lingua per me straordinaria la riconoscerei senza indugio fra centinaia. Negli angoli delle strade si aprivano antri, dove prendevano campo suppellettili, arnesi, imballaggi, stoffe, mondi prodigiosi legati alle improbabili esistenze che li possedevano. E quando da Battellino si tostava il caffè, l’aroma si spandeva in tutti i vicoli, restandoci per una buona mezz’ora; dalle mie finestre allora vedevo carovane e attendamenti e carichi di spezie, e la bottega diveniva un favoloso suq in mezzo alla città.
Ma più di chiunque altro, inconfessabilmente, tutti aspettavamo una donna vestita di lana nera, il corpo appesantito, le mani tozze, mani da lavorante; così conciata, nella lunga gonna, coi capelli mossi e corvini in dispetto all’età, avrebbe anche potuto essere una zingara o un’indovina. A ogni autunno la caldarrostaia piazzava il robusto paiolo sotto i loggiati, attizzava la brace e girava, girava, incrociando in quel gesto lo sguardo dei passanti che cuoceva là dentro come una luna di pasta messa a lievitare. Anno dopo anno a me sembrava che la vecchia mestasse insieme ai suoi frutti meravigliosi anche un po’ della mia vita, qualcosa di me scivolava via, si ribellava e subito svaniva, al pari delle braci sollevate in aria dai capricci del vento.
Le strade ora indossano panni diversi ma in realtà sono irrimediabilmente invecchiate. Se torno a visitarle quasi non le riconosco. Qui, come altrove, hanno lavorato di compasso e squadra, tagli e rifiniture che raggelano, il dialetto non suona più come una volta nelle bocche dei nuovi bottegai, pochi, ordinati abitatori di locali alla moda. Anche i vicoli sono vuoti. Appartengo all’ultima generazione di ragazzi che ha saputo giocare, ridere a crepapelle, battersi, correre tra queste pietre, quando ancora se ne stavano al loro posto rotte e magnifiche. Il nostro nascondino copriva tutto il quartiere, il fiato ci mancava, sudavamo, urlavamo, cantavamo sguaiati e di tanto in tanto una mamma avanzava a grandi falcate per riprendersi il figlio, e ci gridava l’irripetibile perché lo avevamo portato sulla cattiva strada. Tutti prima o poi abbiamo rimediato una brutta caduta, ma ci si rialzava sempre fieri e più alti di qualche spanna. E quel senso di assoluta paura e appagamento quando strisciavo a terra per intrufolarmi in un magazzino abbandonato, mi è stato fedele compagno in anni assai più seri e atrocemente uguali. Dopo metri e metri fatti gattonando al buio, col terrore di essere scoperti, sbucavamo nel cortile di un palazzo, allora le nostre mani sporche e doloranti si cercavano, tremavamo frastornati, ubriachi per l’impresa e restavamo così, in silenzio, a cavalcioni di un tempo eterno.