Gino Filippi, disperso nella Grande Guerra
Con non poca emozione scelgo di pubblicare oggi, nella ricorrenza dell’assassinio dell’arciduca Francesco Ferdinando, erede al trono asburgico – evento che ha gettato l’Europa nel marasma del primo conflitto mondiale – il ritratto di Gino Filippi, zio della mia nonna paterna disperso nella Grande Guerra.
Si tratta di un grande ritratto in seppia, le cui dimensioni qui sono state notevolmente ridotte per consentirne una più agevole riproduzione, davanti al quale mi era capitato di scambiare diverse riflessioni qualche anno fa insieme alla nonna, prima che morisse nel 2009. Questo ragazzo affascinante e generoso era infatti il fratello di sua madre Elba Filippi, nata a Marciana Marina, comune elbano con cui la famiglia, pur dopo il precoce trasferimento a Pisa, ha mantenuto un legame duraturo. Serbo ancora le cartoline della donna scritte nel corso delle sue trasferte con inchiostro rapido e leggero, messaggi quasi scaraventati sulla terraferma, che a mio parere tradiscono non poco del distaccato orgoglio di chi vanta l’abbraccio assoluto del mare nei propri natali.
Mia nonna ha sempre chiamato affettuosamente Gino “lo zio”. Dalla parola traspariva una la fede confidenziale che si esprime nella devozione per gli antenati, pur non avendolo lei mai conosciuto. Gino, infatti, fu reclutato come mitragliere e partì per il fronte nel ’18: apparteneva al 42° fanteria (il numero del reggimento di appartenenza lo si può leggere sul cappello) ed era un ragazzo del ’99. Talvolta questi soldati mi hanno accompagnata nelle mattine in cui a piedi raggiungevo il liceo: sopravvissuti alla guerra, gli ultimi sono morti quasi centenni. Così in un manifesto capitava di leggere, tra parentesi sotto il nome, “ragazzo del ’99”. Allora un misto di vaghi ricordi scolastici e familiari risaliva in me, lasciandomi nient’altro che un’idea piuttosto confusa di eventi percepiti ormai come lontanissimi, ma dai quali si levava uno strano rumore di fondo, la persistente ossessione della memoria storica che in qualche modo reclamava un suo spazio.
Sono sicura che la nonna sarebbe stata felice della mia decisione di condividere il ritratto dello zio con il progetto di digitalizzazione promosso da Europeana. Questa operazione, alla quale pensavo già da tempo, è potuta andare in porto un paio di mesi fa, grazie al Museo della Grafica di Palazzo Lanfranchi a Pisa (luogo anche questo di memorie familiari, avendo mio padre trascorso l’infanzia in una delle case storiche del vicino vicolo Lanfranchi). Il laboratorio e l’ottimo personale che vi ha operato in rappresentanza di Europeana, mostrando peraltro la massima attenzione verso materiali e ricordi a questi legati, mi hanno permesso di salvare e donare un pezzo importante della mia storia familiare.
Desidero infine soffermarmi sulla realizzazione del ritratto, un dettaglio di non poco conto che ho avuto modo di notare solo recentemente. Per motivi che qui sarebbe noioso elencare, un paio di anni fa o forse tre, ho avuto necessità di studiare alcune testimonianze relative alle conseguenze fisiche e psicologiche sulla popolazione del bombardamento di Pisa del 31 agosto ’43. Oltre ad alcuni interessantissimi dossier che raccolgono le voci dei sopravvissuti, mi venne proposto di dare un’occhiata all’archivio fotografico Cerri-Cenni. Questo fondo, custodito presso la Biblioteca Comunale di Pisa e che si può consultare solo in sede, dietro un permesso richiesto alla sezione locale – almeno questa era la procedura quando me ne occupai – sposta le lancette dell’orologio sulla città devastata. Si tratta infatti di prese realizzate nei mesi successivi alla catastrofe – ricordiamo che nella drammatica circostanza si incendiò il tetto del Camposanto monumentale in Duomo, con danni irreparabili all’interno del monumento e la perdita quasi totale degli affreschi di Buffalmacco, opere d’arte assolute, tra le più grandi di tutti i tempi nella storia della nostra pittura. Perché questa apparente divagazione? In quell’occasione mi è rimasto impresso il nome dello studio fotografico pisano Cerri, che per quasi mezzo secolo ha operato in città, legando tante memorie individuali ai drammi della guerra.
Ebbene se si guarda in fondo a destra nel ritratto di Gino, si legge distintamente il nome del fotografo G. Cerri, cui faceva capo l’importante atelier. La famiglia dunque volle che il proprio ragazzo, estremamente demoralizzato dalla chiamata alle armi, questo il racconto che mi è stato trasmesso sui concitati momenti della partenza per il fronte, venisse celebrato attraverso una fotografia il meno stereotipata possibile. Il ritratto di guerra ossia la foto del soldato spedita a casa dal fronte si inaugurò a Sedan, da lì in poi affermandosi come vero e proprio fenomeno di costume. In questo caso, scegliendo uno studio privato si volle cercare forse di scacciare il pensiero della guerra, di strappare questo bel ragazzo in uniforme a una dimensione che gli imponeva il sacrificio della sua giovinezza e, come purtroppo è accaduto, della vita, anche magari a livello inconscio col proposito di ricordarcelo tutti così, in uno sforzo di normalità, nell’ultimo istante domestico che gli rimaneva tra i suoi e la sua città, prima di andarsene.
(Di Claudia Ciardi)
Da Poesie disperse
di Giuseppe Ungaretti
Bisbigli di singhiozzi
Sagrado il 27 novembre 1916
Mi tornano
transitando
per i canneti titubanti
lungo la strada
scorticata
sul dorso della solitudine
le parole
delle anime perse
e finiscono di smorzarsi
in quelle ondate
di masso
alleggerito dal buio
che accovacciato
all’orlo del cielo
viscido
come una maiolica
incide
una bocca affilata
di baratro.
Poesia
Sagrado il 28 novembre 1916
I giorni e le notti
suonano
in questi miei nervi
di arpa
vivo di questa gioia
malata di universo
e soffro
di non saperla
accendere
nelle mie parole.
Tepida vaga mattina
Bulciano il 22 agosto 1917
Abbarbagliati
risvegli
sfiorenti
in vetrato
cupolio
Alba
Versa il 15 febbraio 1917
Zampilli
di matasse radiose
spioventi
in masse sinuose
di perle
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In questo blog:
Naufragio di guerra #0
Naufragio di guerra #1
La grande illusione
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Digital meets Culture. Il lavoro svolto da Promoter