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16 luglio 2014

L'espressionismo secondo Viani


Lorenzo Viani, Nero d'avorio
A cura di Fabrizio Zollo,
«I quaderni di Via del Vento»
Via del Vento edizioni, 2014




Lorenzo Viani è uno dei grandi nomi dell’arte italiana del Novecento. Nato a Viareggio nel 1882, il padre, che in passato faceva il pastore, è all’epoca inserviente presso la villa di Don Carlos di Borbone. Nella modesta casa della darsena vecchia in cui i Viani abitano, il ragazzo cresce insofferente alla disciplina e abbandona la scuola prestissimo, quando è appena in terza elementare. Questo rifiuto più o meno aperto della società borghese e delle sue regole, gli resterà per tutta la vita, influendo chiaramente sul suo percorso artistico. Mentre ancora adolescente è apprendista barbiere, incontra alcune personalità di spicco del panorama culturale di allora, quali Leonida Bissolati, Plinio Nomellini, Giacomo Puccini e Gabriele D’Annunzio. Qualche anno dopo inizia a frequentare i corsi all’Istituto di Belle Arti di Lucca e alla Scuola di Nudo dell’Accademia di Firenze, questi ultimi tenuti da Giovanni Fattori. Tra il 1906 e il 1907, affitta un locale a Torre del Lago, dove avrà occasione di frequenti contatti con Puccini, quindi entra a far parte del cenacolo «Repubblica d’Apua», insieme al poeta genovese Ceccardo Roccatagliata Ceccardi, suo fondatore, a Enrico Pea e Giuseppe Ungaretti. È tuttavia del 1908 l’esperienza che gli cambia la vita: l’incontro con Parigi dove, seppur fugacemente – cosa della quale si pentirà in seguito, scrivendone nelle sue memorie – visita una retrospettiva dedicata a van Gogh. La consonanza che sente con queste opere è immediata. Viani infatti, fin dai suoi primi tentativi, è un espressionista e lo è in una maniera così totale e matura, che non si può restare sbalorditi, se si considera che non aveva nessun contatto col movimento tedesco, e che pure le figure cosiddette proto-espressioniste (Ensor, Munch, van Gogh, Gauguin) a eccezione del pittore fiammingo, non gli erano affatto note. In non pochi casi, e non diciamo un’eresia, i disegni di Viani al paragone con certi studi di Munch su soggetti simili, risultano persino superiori, meglio compiuti dal punto di vista della tecnica d’esecuzione. Ciò che fa di Viani una personalità del tutto peculiare nell’arte italiana del primo Novecento è esattamente la devozione totale alla sintassi espressionista, non solo in pittura ma anche nelle sue numerose e pregevoli opere letterarie. La lingua di Viani è senza orpelli, non si avvita nei compiacimenti teorici, va diretta a incidere la materia, esattamente come nelle sue realizzazioni grafiche si preoccupa di iscrivere i soggetti in linee “essenziali, conclusive”. A lungo collaboratore del «Corriere della Sera», la sua prosa, pur di matrice altrettanto espressionista quanto i suoi quadri, sviluppa esiti personalissimi, premiati dal successo di pubblico. Ma è soprattutto nelle tracciature a china o a matita, nella semplice e vivida alternanza del bianco e del nero, in cui sono inquadrate le sue sobrie e visionarie costruzioni, che si gustano a pieno l’originalità e il profondo lavoro di scavo alla radice del linguaggio dell’arte. Non è un caso che più volte, all’interno delle proprie riflessioni, dichiari un’ammirazione senza riserve per “i nostri primitivi”, intendendo con ciò i padri fondatori della pittura medievale e moderna (i bizantini, i pittori dei crocifissi lignei – ad es. i cosiddetti crocifissi blu dei maestri umbri – Duccio di Boninsegna, Buffalmacco, Giotto), tacciati di ingenuità da educatori grossolani quanto impreparati, e perciò oggetto di disprezzo.

Di questa asciuttezza e forza del segno, che viene proprio dalla lezione dei “primitivi”, sono prova anche i pensieri qui raccolti, ai quali l’artista affida tutta la sua sensibilità, tutto il suo bagaglio di vita, di uomo della strada divenuto viandante, che provava una singolare affinità con gli emarginati di ogni colore e latitudine, che ha fatto la fame a Parigi, occupato stanzoni freddi e privi di illuminazione, pur di ritagliare uno spazio unico alle proprie idee e provare a dar loro una forma. Se dopo la nomina a socio del Salon d’Automne a Parigi (1909), Viani fosse riuscito a stabilirsi nella metropoli, o almeno a spendervi nel tempo dei periodi gradualmente più lunghi, intrattenendo contatti più fitti con l’entourage avanguardista che allora vi si era installato, è probabile che il suo nome nella storia dell’arte apparirebbe più saldamente legato alla cronaca e, dunque, alle attenzioni degli specialisti. Purtroppo, certe scelte dipendono assai poco dalla volontà e sono invece spesso frutto del caso, di incontri, sodalizi, opportunità e molte altre imperscrutabili circostanze che possono come non possono presentarsi, facendo così la differenza, anche nel corso della carriera di un artista.

(Di Claudia Ciardi)


Da Pensieri sull’arte 

«Il dispregio e la benevola compassione di cui erano gratificati i nostri primitivi, che rimarranno la più alta e nobile espressione della pittura, ha fatto sì che abbiamo perso, per molto tempo, il concetto informatore, che ogni artista deve avere, per continuare rinnovando l’opera di coloro che ci sono stati maestri».

[…]

«Tutti gli spiriti grandi sono umili. L’arte è una cosa troppo terribile perché l’uomo possa alzare la fronte verso di lei con orgoglio e superbia.
Il soffio divino del suo spirito percorre il nostro cuore quando essa vuole. Gli orgogliosi i protervi non sono mai beneficiati dalle sue grazie».

[…]

«Certi quadri italiani antichi potrebbero servire come modelli per costruire una città. La solennità di certe croci è tale come quella di una torre di pietra: gli uomini, maree dense di alberi robusti, i loro panneggiamenti ampi e sobri, facciate di case spettacolari.
In tutto vi ispira una solennità di luce, forte come l’ultima luce del sole sulla primavera luminosa. “Dipingere poco e riflettere molto”».

[…]

«Dovendo il quadro rappresentare la solidità profonda delle cose, il pittore deve tenere in grande onore il “nero d’avorio” il più intenso, come l’elemento più concreto della tavolozza.
Non so concepire che in nero le travature del quadro. Gli altri colori sono la luce del sole che rallegra le impalcature di un edificio poderoso».

[…]

«Tutti i grandi pittori sono stati sobri nei colori e misurati. Tutti i grandi hanno pensato tanto, così hanno superato la consueta pittura, gioco di luce su solidità di forme. Essi, i grandi, si sono compenetrati nei legamenti essenziali della visione. Hanno scortecciato della luce le cose, per vedere di sotto, la concatenazione fondamentale degli elementi costitutivi del tutto; ci hanno rivelato delle costruzioni musicali, ci hanno rivelato che sotto il cobalto, il verde, il rosa, il celeste, c’è ferma e potente una cosa architettata e complicata. Solo ai grandi è concesso vedere il lavoro armonico e solido della natura. […] La natura ama i poeti e i generosi. Solo a loro si concede tutta, tutta, tutta».


Lorenzo Viani, Il folle

28 giugno 2014

Ritratto di guerra


Gino Filippi, disperso nella Grande Guerra 

Con non poca emozione scelgo di pubblicare oggi, nella ricorrenza dell’assassinio dell’arciduca Francesco Ferdinando, erede al trono asburgico – evento che ha gettato l’Europa nel marasma del primo conflitto mondiale – il ritratto di Gino Filippi, zio di mia nonna paterna disperso nella Grande Guerra. 
Si tratta di un grande ritratto in seppia, le cui dimensioni qui sono state notevolmente ridotte per consentirne una più agevole riproduzione, davanti al quale mi era capitato di scambiare diverse riflessioni qualche anno fa insieme alla nonna, prima che morisse nel 2009. Questo ragazzo affascinante e generoso era infatti il fratello di sua madre Elba Filippi, nata a Marciana Marina, comune elbano con cui la famiglia, pur dopo il precoce trasferimento a Pisa, ha mantenuto un legame duraturo. Serbo ancora le cartoline della donna scritte nel corso delle sue trasferte con inchiostro rapido e leggero, messaggi quasi scaraventati sulla terraferma, che a mio parere tradiscono non poco del distaccato orgoglio di chi vanta l’abbraccio assoluto del mare nei propri natali.     
Mia nonna ha sempre chiamato affettuosamente Gino “lo zio”. Dalla parola traspariva una fede confidenziale che si esprime nella devozione per gli antenati, pur non avendolo lei mai conosciuto. Gino, infatti, fu reclutato come mitragliere e partì per il fronte nel ’18: apparteneva al 42° fanteria (il numero del reggimento di appartenenza lo si può leggere sul cappello) ed era un ragazzo del ’99. Talvolta questi soldati mi hanno accompagnata nelle mattine in cui a piedi raggiungevo il liceo: sopravvissuti alla guerra, gli ultimi sono morti quasi centenni. Così in un manifesto capitava di leggere, tra parentesi sotto il nome, “ragazzo del ’99”. Allora un misto di vaghi ricordi scolastici e familiari risaliva in me, lasciandomi nient’altro che un’idea piuttosto confusa di eventi percepiti ormai come lontanissimi, ma dai quali si levava uno strano rumore di fondo, la persistente ossessione della memoria storica che in qualche modo reclamava un suo spazio.     
Sono sicura che la nonna sarebbe stata felice della mia decisione di condividere il ritratto dello zio con il progetto di digitalizzazione promosso da Europeana. Questa operazione, alla quale pensavo già da tempo, è potuta andare in porto un paio di mesi fa, grazie al Museo della Grafica di Palazzo Lanfranchi a Pisa (luogo anche questo di memorie familiari, avendo mio padre trascorso l’infanzia in una delle case storiche del vicino vicolo Lanfranchi). Il laboratorio e l’ottimo personale che vi ha operato in rappresentanza di Europeana, mostrando peraltro la massima attenzione verso materiali e ricordi a questi legati, mi hanno permesso di salvare e donare un pezzo importante della mia storia familiare.
Desidero infine soffermarmi sulla realizzazione del ritratto, un dettaglio di non poco conto che ho avuto modo di notare solo recentemente. Per motivi che qui sarebbe noioso elencare, un paio di anni fa o forse tre, ho avuto necessità di studiare alcune testimonianze relative alle conseguenze fisiche e psicologiche sulla popolazione del bombardamento di Pisa del 31 agosto ’43. Oltre ad alcuni interessantissimi dossier che raccolgono le voci dei sopravvissuti, mi venne proposto di dare un’occhiata all’archivio fotografico Cerri-Cenni. Questo fondo, custodito presso la Biblioteca Comunale di Pisa e che si può consultare solo in sede, dietro un permesso richiesto alla sezione locale – almeno questa era la procedura quando me ne occupai – sposta le lancette dell’orologio sulla città devastata. Si tratta infatti di prese realizzate nei mesi successivi alla catastrofe – ricordiamo che nella drammatica circostanza si incendiò il tetto del Camposanto monumentale, con danni irreparabili all’interno del monumento e la perdita quasi totale degli affreschi di Buffalmacco, opere d’arte assolute, tra le più grandi di tutti i tempi nella storia della nostra pittura. Perché questa apparente divagazione? In quell’occasione mi è rimasto impresso il nome dello studio fotografico pisano Cerri, che per quasi mezzo secolo ha operato in città, legando tante memorie individuali ai drammi della guerra. 
Ebbene se si guarda in fondo a destra nel ritratto di Gino, si legge distintamente il nome del fotografo G. Cerri, cui faceva capo l’importante atelier. La famiglia dunque volle che il proprio ragazzo, estremamente demoralizzato dalla chiamata alle armi, questo il racconto che mi è stato trasmesso sui concitati momenti della partenza per il fronte, venisse celebrato attraverso una fotografia il meno stereotipata possibile. Il ritratto di guerra ossia la foto del soldato spedita a casa dal fronte si inaugurò a Sedan, da lì in poi affermandosi come vero e proprio fenomeno di costume. In questo caso, scegliendo uno studio privato si volle cercare forse di scacciare il pensiero della guerra, di strappare questo bel ragazzo in uniforme a una dimensione che gli imponeva il sacrificio della sua giovinezza e, come purtroppo è accaduto, della vita, anche magari a livello inconscio col proposito di ricordarcelo tutti così, in uno sforzo di normalità, nell’ultimo istante domestico che gli rimaneva tra i suoi e la sua città, prima di andarsene.  

(Di Claudia Ciardi)


Da Poesie disperse
di Giuseppe Ungaretti

Bisbigli di singhiozzi
Sagrado il 27 novembre 1916

Mi tornano
transitando
per i canneti titubanti
lungo la strada
scorticata
sul dorso della solitudine
le parole
delle anime perse

e finiscono di smorzarsi
in quelle ondate
di masso
alleggerito dal buio
che accovacciato
all’orlo del cielo
viscido
come una maiolica
incide
una bocca affilata
di baratro.


Poesia
Sagrado il 28 novembre 1916

I giorni e le notti
suonano
in questi miei nervi
di arpa

vivo di questa gioia
malata di universo
e soffro
di non saperla
accendere
nelle mie parole.


Tepida vaga mattina
Bulciano il 22 agosto 1917


Abbarbagliati
risvegli
sfiorenti
in vetrato
cupolio


Alba
Versa il 15 febbraio 1917

Zampilli
di matasse radiose
spioventi
in masse sinuose
di perle


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In questo blog:

Naufragio di guerra #0

Naufragio di guerra #1

La grande illusione

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All our yesterdays. Le rassegne di Europeana. Da Palazzo Lanfranchi a tutte le altre iniziative.

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