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19 aprile 2018

Non tradite le parole




L’infinito di Giacomo Leopardi in greco



È una riflessione che ho in animo da tempo. L’articolo di Edoardo Boncinelli uscito su «La lettura» dell’8 aprile 2018 ha contribuito a ricordarmene l’urgenza. Un ragionamento sulla necessità di non sprecare le parole, di non tradirle, e sulle conseguenze antropologiche derivanti dal quotidiano esercizio al sovvertimento, alla destituzione dei loro confini segnati, ingenerando quella confusa irresolutezza tra ciò che significano e ciò che tendono ad adombrare, troppo spesso sobillato per ottunderle ed estinguerle quasi.
Lo studio delle lingue antiche ha fatto sì che sviluppassi fin dall’adolescenza anticorpi abbastanza efficaci verso certe banalizzazioni linguistiche. È pur vero, però, che il bombardamento di banalità cui siamo sottoposti, scempi verbali e non solo, giacché il linguaggio è veicolo e sismografo di quel che una società ha scelto di divenire, insomma questo coacervo superficialissimo e dissonante, filtra ovunque, anche laddove pensiamo di aver costruito argini sicuri. Mi son chiesta spesso: se io che mi son forzata a studi del genere e ho ascoltato quel che avevano da dirmi le cosiddette lingue “morte” – ma solo nel senso di non esser più parlate da un paio di millenni, eppure vive ancor più della lingua che parliamo adesso – se io stessa fatico a suscitare nelle parole un più autentico spirito, legante del linguaggio, come possono altri cui manca anche un tale confronto? Una lingua morta oggi ha più facilità di riconciliarci con un uso verbale coerente e onesto, di quanto non vi riesca la comunicazione di tutti i giorni.
La risposta che mi son data sulle mie stesse inadeguatezze a fronte degli studi classici, è piuttosto incalzante; anche questi studi risentono, fenomeno inevitabile, dell’epoca in cui son condotti, che da una parte è respingente, se non ostile, alla loro sopravvivenza, processando tutto secondo le categorie dell’inutilità e dell’utilità. Dall’altra, orientata com’è al generale abbassamento del livello culturale, insidia anche chi con encomiabile resilienza queste materie continua a divulgarle. 
No, non son proprio più i tempi degli «studi leggiadri», di Bessarione e dei grandi maestri bizantini venuti in Europa dopo il crollo dell’impero d’oriente, di quella mirabile, incredibile commistione di antico e moderno che prima diede forma al volgare, portato al trionfo dai grandi del Trecento, quindi accompagnandosi alla piena riscoperta del greco religiosamente destinato alla crescita della letteratura, che tra Cinquecento e Ottocento contribuì a scolpire una visione del mondo. Nel bene e nel male non si tratta ormai più di quella cultura certamente elitaria, anzi elitarissima, a sua volta fin troppo settaria, ma che ha anche prodotto nella nostra lingua capolavori eccelsi.
Ai nostri giorni è perfino nata – orrore – la letteratura commerciale dell’antico, definita talentuosa e innovativa da alcuni tra i più prestigiosi organi di stampa occidentali e tradotta addirittura nei templi stessi dell’antico. Come si vede il morbo è in estensione. Perché oggi tutto deve sforzarsi di essere comunicativo. Nei tempi dello sdoganamento di internet sorgono strane figure che si dicono animate da sana e disinteressata divulgazione, in realtà investite, oltre il limite di guardia, da un insano accanimento verso le pratiche comunicative. Nascono i censimenti dei poeti – e quanti bei nomi mancano all’indice – e le poesie attente alla comunicazione, a come dovranno diffondersi e incontrare il gusto del lettore e farsi notare; con l’imbarazzante risultato, non occorre neanche dirlo, di comunicare molto poco. Un Eugenio Montale, un Dino Campana, un Alfonso Gatto, non si son preoccupati di esser comunicabili al di là dei loro versi, eppure son ben lontani dal veder esaurita nella loro opera la potenza di una significazione. E se penso a un personaggio ingombrante e assai più rumoroso come Gabriele D’Annunzio, che molto ha voluto comunicare di sé e dei modi del suo esercizio creativo, non posso comunque fare a meno di considerare l’infinito raccoglimento che è alla base del Notturno e l’intimismo colto dell’Alcyone: entrati di diritto nella letteratura italiana. Possa piacere o no il personaggio, ma nelle sue esternazioni, anche le più ridondanti, vi era una volontà comunicativa ispirata da una visione, che ha anche saputo ritrarsi, quand’era il caso. Nulla a che fare con il rumore di fondo di tanti odierni cosiddetti comunicatori dell’essere illetterati. 
Ho raccolto, saranno passati non più di tre o quattro anni, alcune espressioni che mi è capitato di sentir ripetere con insopportabile frequenza, esempi a mio parere di quello scadimento della lingua, e quindi dell’etica del parlante, che dicevo all’inizio. Le elenco qui brevemente a suffragio del ragionamento che motiva questo scritto.
L’abuso dell’aggettivo epocale. Nelle belle pagine del saggio di Paolo Chiarini sull’espressionismo tedesco suonava storicamente motivato e animato, se vogliamo, da una sua grazia letteraria. Da dopo aver letto questo libro, sarà stata una pura coincidenza, anzi di certo lo è stata, “epocale” divenne quasi tutto. Notai che l’aggettivo era usato con una disinvoltura agghiacciante che ottundeva qualsiasi concetto: anche la passeggiata del cane del vicino aveva in qualche racconto un che di epocale. Il risultato fu, ed è ancora, che mi son quasi vergognata di averlo utilizzato per la recensione di Chiarini e forse per un paio d’altri articoli.
Come tralasciare quindi il sempreverde scontro di civiltà, che torna puntuale nel dibattito oriente-occidente. E un’espressione del genere, non occorre dirlo, non aggiunge nulla al dibattito. Segue a ruota l’ossessione per il populismo, chiave di lettura sempre pronta all’uso e spauracchio di ogni analisi politica. Nella vacuità imperversante delle analisi bisognava inventarsi un riempitivo.
Prima o poi arriva chi si è rimboccato le maniche. Un modo di dire proprio insipido, in senso etimologico. Si è soliti sentirla pronunciare nelle difficoltà che non hanno visto concretarsi alcun aiuto. Dunque, chi fa da sé si rimbocca le maniche, oppure bisogna convincersi che, siccome di aiuto non se ne parla, anche quando sarebbe dovuto, “è necessario rimboccarsi le maniche”. Alter ego dell’italico arrangiarsi; la crisi economica ha inchiodato queste espressioni alla loro misera incapacità senza via d’uscita. Nei tempi attuali, che tu ti rimbocchi le maniche o tu ti arrangi, è sempre abbastanza dura. Ripetuto tante volte, come avviene nel marasma linguistico dell’ora e adesso, diventa sintomatico di un’impotenza collettiva scoraggiante.
Procedo con una memoria personale, un colloquio con un imprenditore orafo e la sua servizievole segretaria, donna di consolidata incompetenza e senza alcuna attitudine per lo stare al pubblico – a questo punto arriva l’altro tipico pensiero maschile, che sussume molte aggiuntive banalità e pregiudizi divulgati dalla nostra cultura “bella donna?”. No, non era una bella donna. Al termine del nostro confronto – cercavo uno sponsor per un’iniziativa culturale – è giunta la conclusione che nulla intendeva concludere: «ma io voglio vedere i risultati!». Questa affermazione ho avuto modo di ascoltarla e soppesarla diverse volte, in contesti apparentemente lontani, e non ha smesso di trasmettermi la sua abbacinante inutilità quando non si ha nulla da argomentare.
Infine poche altre perle di saggezza. L’inflazionatissimo, soprattutto da parte femminile, “mettersi in gioco” – a un certo punto c’è sempre una donna che ha voglia di mettersi in gioco. E quindi? Provate ad ascoltare una qualsiasi trasmissione televisiva, arriverà senza farsi attendere troppo. Sono qui perché mi sono voluta mettere in gioco…E allora? Il fastidio di questa salottiera autodafé sta nel fatto che si tira dietro in automatico la domanda di chi la subisce: e a me che…? Abbiamo poi, in chiusura, il celeberrimo “purtroppo c’è crisi” – lo abbiamo sentito fino allo sfinimento in questi anni di risposte mancate a qualsiasi richiesta – l’isterico “d’altra parte si vive una volta sola”, il gelido e inquietante, per l’associazione che instaura con un’ipotetica pandemia, “è diventato virale”.
Ci sono poi, e anche qui non basterebbe scrivere un manuale, le pseudo dialettiche da social. Una discussione, se mirata all’attacco personale, si svolgerà sempre tirando dentro le stesse identiche argomentazioni – provate a scorrere un qualsiasi alterco tra due utenti: sarai mica permalosa (se fai notare che ti hanno scritto un’imbecillità), vai fuori argomento, denoti debolezza, hai un livello proprio…e poi scattano le offese, perché quello era il proposito (e la provocazione) iniziale, ovviamente.
Aperta questa parentesi sulle peggiorate condizioni della lingua, sui suoi innumerevoli tic, e i limiti culturali e psicologici di una parte consistente degli interlocutori coinvolti, desidero evidenziare un epilogo ulteriore di questo generale scadimento. È una conseguenza ben introdotta a mio avviso dal citato articolo di Boncinelli, quando ci fa presente che nel riferimento, ad esempio, alla parola natura non sappiamo più a che cosa vogliamo richiamarci, e tutto si riduce molto spesso a uno sconcertante guazzabuglio semantico.
La conseguenza, dicevo, altrettanto confusa e pericolosa è la facilità con cui si ricorre nel ragionare agli anestetici. Mi spiego meglio: se alla parola guerra non riesco ad attribuire il senso che la guerra ha effettivamente, ogni discorso contro o a favore è suscettibile di una reazione neutra. Come posso schierarmi se in quello che si afferma non vi è contenuto, contesto, storia, polemica, insomma un vissuto? Mi sono molto arrabbiata leggendo ultimamente certe discussioni sugli aiuti ai terremotati. Secondo alcuni opinionisti parlare di certi problemi è sciacallaggio politico. Al che sono intervenuti alcuni residenti nel cratere sismico, giustamente risentiti – chi più di loro ha diritto di parlare? – sostenendo che la discussione, perfino lo scontro, a livello di istituzioni è vitale e non significa strumentalizzazione. Quel che uccide, direi in generale, è proprio questo anestetico a buon mercato che vuole smussare le opinioni, abbassare i toni ed esser gentile, ma nelle risultanze ha il volto efferato dell’ignoranza e dell’indifferenza. Dire una parola e tradirla, dare una parola e non mantenerla. Sintomo di paralisi culturale, etica ed economica. E di tanta scrittura e letteratura che non sono proprio, neppure lontanamente, né l’una né l’altra.   


(Di Claudia Ciardi)

6 febbraio 2018

Bjorn Berge - Terre scomparse (1840-1970)




Bjorn Berge, architetto originario della Norvegia dov’è nato nel ’54, affianca alla sua attività di progettista impegnato nella ricerca di materiali ecologici al servizio dell’abitare, quella di divulgatore. Ha al suo attivo diverse pubblicazioni, anche se questo volume dedicato alle Terre scomparse è senz’altro la sua opera di maggior richiamo, almeno quella che lo ha portato alla piena notorietà. Pubblicato nel 2016 e tradotto in italiano nel corso del 2017 questo libro si apprezza sia per la peculiarità dell’argomento affrontato – una sorta di caccia al tesoro tra geografie dissolte – sia perché in grado di esercitare sul lettore molteplici suggestioni. Dai vecchi atlanti che ognuno di noi ha sfogliato nella sua infanzia, fantasticando sulle mappe di paesi lontani e mandando a mente il disegno delle bandiere nazionali, a certi almanacchi che cumulano fatti salienti e altre curiosità con la destrezza di chi sa catturare l’attenzione altrui. Direi che la versione italiana riesce a trasmettere al meglio ognuno di questi sapori, anche grazie al bel lavoro grafico che contribuisce all’aspetto da portolano un po’ vintage del libro.
Coniugando ricerca storica, antropologica e, per ovvia filìa col suo mestiere, precise ricognizioni architettoniche dei luoghi descritti, ma meglio sarebbe dire evocati in quanto non più esistenti sul piano politico, Berge ci conduce in un insolito viaggio intorno al mondo. In apparenza frammenti di paradisi perduti eppure fin troppo spesso incubi coloniali, materializzazione di ogni disagio, fra affaristi rapaci, autorità spregiudicate, colonie penali, sfruttamento della manodopera e progetti fallimentari, si materializza un carosello umano bizzarro e in non pochi casi assai deprimente.
È la grande carovana dell’eterno sogno di conquista, della ricchezza fantasticata in terre lontane abbellite di esotismo e di ogni benessere, l’allegoria dell’evasione, l’utopia di dar vita a regni affrancati da oppressione e altre forme d’ingerenze. Ma, diceva Tucidide, «gli uomini son quello che sono» per cui non sorprende che le cronache di Berge deviino molto spesso nel racconto delle clamorose cadute di coloro che in tali avventure si sono buttati.
Amministrazioni che restano abbarbicate su isole semideserte, guarnigioni sguarnite, operai decimati dalla malaria, e poi ancora gli intrecci tra spionaggio, sperimentazioni atomiche e batteriologiche, la sistematica rapina delle risorse minerarie di un territorio o la sua investitura quale avamposto per il contrabbando e altri traffici giocati sul sottilissimo filo di legalità e illegalità.  In una parola, vanno in scena i tanti volti della guerra, perché in queste vicende sono i conflitti ad alimentare ogni mossa dei suoi protagonisti. Laddove le trattative non funzionano più o qualcosa inizia ad andare storto nei piani di guadagno degli impresari di turno, la regressione è immediata. Armi, violenza, pulizia etnica sono atti ricorrenti in queste frontiere sperdute, e anzi il fatto che si tratti per lo più di insediamenti raggiungibili con difficoltà se non quasi nascosti agli occhi del resto del mondo ha avallato pratiche disinvolte e incoraggiato crimini inconfessabili.  
Uno scambio Germania-Inghilterra con i tedeschi che cedono Zanzibar e gli inglesi che lasciano ai prussiani Heligoland, D’Annunzio che vuole fare di Fiume una sorta di città del sole sorretta dai suoi miti di estetica, poesia, ed eroismo, un sultanato che in barba ai precetti islamici stampa francobolli in cui sono ritratte le ballerine di Degas, giovani nazionalisti che inviano vibranti lettere ai politici di turno raccogliendone puntualmente indifferenza e scherno, temibili criminali di guerra che ottengono vergognosi salvacondotti. È la grande Odissea della varia umanità, scritta su momentanee fantasticherie che finiscono quasi sempre per esaurirsi nelle peggiori bassezze o in aperte perversioni.
L’Italia è presente in ben quattro episodi, dal Regno delle due Sicilie, con cui si apre il volume, alla Reggenza del Carnaro (la citata impresa di Fiume), dalla dimenticata Saseno al Territorio libero di Trieste. Quattro chiavi di lettura che molto raccontano delle turbolenze attraversate dal continente europeo e delle altrettanto durevoli tensioni mediteranee.
Lo studio di Berge si arricchisce, e acquista originalità, anche in virtù della sua eccentrica collezione di francobolli provenienti dalle aree perdute di cui parla. Una storia nella storia, non necessariamente indirizzata agli appassionati di filatelia né a collezionisti incalliti, ma proposta quale archivio di memorie che per tale via rivendica un’esistenza plastica e forse in questo modo più credibile. 


(Di Claudia Ciardi) 






Edizione consultata:

Bjorn Berge, Terre scomparse (1840-1970),
traduzione di Alessandro Storti,
Ponte alle Grazie, 2017



16 luglio 2014

L'espressionismo secondo Viani


Lorenzo Viani, Nero d'avorio
A cura di Fabrizio Zollo,
«I quaderni di Via del Vento»
Via del Vento edizioni, 2014




Lorenzo Viani è uno dei grandi nomi dell’arte italiana del Novecento. Nato a Viareggio nel 1882, il padre, che in passato faceva il pastore, è all’epoca inserviente presso la villa di Don Carlos di Borbone. Nella modesta casa della darsena vecchia in cui i Viani abitano, il ragazzo cresce insofferente alla disciplina e abbandona la scuola prestissimo, quando è appena in terza elementare. Questo rifiuto più o meno aperto della società borghese e delle sue regole, gli resterà per tutta la vita, influendo chiaramente sul suo percorso artistico. Mentre ancora adolescente è apprendista barbiere, incontra alcune personalità di spicco del panorama culturale di allora, quali Leonida Bissolati, Plinio Nomellini, Giacomo Puccini e Gabriele D’Annunzio. Qualche anno dopo inizia a frequentare i corsi all’Istituto di Belle Arti di Lucca e alla Scuola di Nudo dell’Accademia di Firenze, questi ultimi tenuti da Giovanni Fattori. Tra il 1906 e il 1907, affitta un locale a Torre del Lago, dove avrà occasione di frequenti contatti con Puccini, quindi entra a far parte del cenacolo «Repubblica d’Apua», insieme al poeta genovese Ceccardo Roccatagliata Ceccardi, suo fondatore, a Enrico Pea e Giuseppe Ungaretti. È tuttavia del 1908 l’esperienza che gli cambia la vita: l’incontro con Parigi dove, seppur fugacemente – cosa della quale si pentirà in seguito, scrivendone nelle sue memorie – visita una retrospettiva dedicata a van Gogh. La consonanza che sente con queste opere è immediata. Viani infatti, fin dai suoi primi tentativi, è un espressionista e lo è in una maniera così totale e matura, che non si può restare sbalorditi, se si considera che non aveva nessun contatto col movimento tedesco, e che pure le figure cosiddette proto-espressioniste (Ensor, Munch, van Gogh, Gauguin) a eccezione del pittore fiammingo, non gli erano affatto note. In non pochi casi, e non diciamo un’eresia, i disegni di Viani al paragone con certi studi di Munch su soggetti simili, risultano persino superiori, meglio compiuti dal punto di vista della tecnica d’esecuzione. Ciò che fa di Viani una personalità del tutto peculiare nell’arte italiana del primo Novecento è esattamente la devozione totale alla sintassi espressionista, non solo in pittura ma anche nelle sue numerose e pregevoli opere letterarie. La lingua di Viani è senza orpelli, non si avvita nei compiacimenti teorici, va diretta a incidere la materia, esattamente come nelle sue realizzazioni grafiche si preoccupa di iscrivere i soggetti in linee “essenziali, conclusive”. A lungo collaboratore del «Corriere della Sera», la sua prosa, pur di matrice altrettanto espressionista quanto i suoi quadri, sviluppa esiti personalissimi, premiati dal successo di pubblico. Ma è soprattutto nelle tracciature a china o a matita, nella semplice e vivida alternanza del bianco e del nero, in cui sono inquadrate le sue sobrie e visionarie costruzioni, che si gustano a pieno l’originalità e il profondo lavoro di scavo alla radice del linguaggio dell’arte. Non è un caso che più volte, all’interno delle proprie riflessioni, dichiari un’ammirazione senza riserve per “i nostri primitivi”, intendendo con ciò i padri fondatori della pittura medievale e moderna (i bizantini, i pittori dei crocifissi lignei – ad es. i cosiddetti crocifissi blu dei maestri umbri – Duccio di Boninsegna, Buffalmacco, Giotto), tacciati di ingenuità da educatori grossolani quanto impreparati, e perciò oggetto di disprezzo.

Di questa asciuttezza e forza del segno, che viene proprio dalla lezione dei “primitivi”, sono prova anche i pensieri qui raccolti, ai quali l’artista affida tutta la sua sensibilità, tutto il suo bagaglio di vita, di uomo della strada divenuto viandante, che provava una singolare affinità con gli emarginati di ogni colore e latitudine, che ha fatto la fame a Parigi, occupato stanzoni freddi e privi di illuminazione, pur di ritagliare uno spazio unico alle proprie idee e provare a dar loro una forma. Se dopo la nomina a socio del Salon d’Automne a Parigi (1909), Viani fosse riuscito a stabilirsi nella metropoli, o almeno a spendervi nel tempo dei periodi gradualmente più lunghi, intrattenendo contatti più fitti con l’entourage avanguardista che allora vi si era installato, è probabile che il suo nome nella storia dell’arte apparirebbe più saldamente legato alla cronaca e, dunque, alle attenzioni degli specialisti. Purtroppo, certe scelte dipendono assai poco dalla volontà e sono invece spesso frutto del caso, di incontri, sodalizi, opportunità e molte altre imperscrutabili circostanze che possono come non possono presentarsi, facendo così la differenza, anche nel corso della carriera di un artista.

(Di Claudia Ciardi)


Da Pensieri sull’arte 

«Il dispregio e la benevola compassione di cui erano gratificati i nostri primitivi, che rimarranno la più alta e nobile espressione della pittura, ha fatto sì che abbiamo perso, per molto tempo, il concetto informatore, che ogni artista deve avere, per continuare rinnovando l’opera di coloro che ci sono stati maestri».

[…]

«Tutti gli spiriti grandi sono umili. L’arte è una cosa troppo terribile perché l’uomo possa alzare la fronte verso di lei con orgoglio e superbia.
Il soffio divino del suo spirito percorre il nostro cuore quando essa vuole. Gli orgogliosi i protervi non sono mai beneficiati dalle sue grazie».

[…]

«Certi quadri italiani antichi potrebbero servire come modelli per costruire una città. La solennità di certe croci è tale come quella di una torre di pietra: gli uomini, maree dense di alberi robusti, i loro panneggiamenti ampi e sobri, facciate di case spettacolari.
In tutto vi ispira una solennità di luce, forte come l’ultima luce del sole sulla primavera luminosa. “Dipingere poco e riflettere molto”».

[…]

«Dovendo il quadro rappresentare la solidità profonda delle cose, il pittore deve tenere in grande onore il “nero d’avorio” il più intenso, come l’elemento più concreto della tavolozza.
Non so concepire che in nero le travature del quadro. Gli altri colori sono la luce del sole che rallegra le impalcature di un edificio poderoso».

[…]

«Tutti i grandi pittori sono stati sobri nei colori e misurati. Tutti i grandi hanno pensato tanto, così hanno superato la consueta pittura, gioco di luce su solidità di forme. Essi, i grandi, si sono compenetrati nei legamenti essenziali della visione. Hanno scortecciato della luce le cose, per vedere di sotto, la concatenazione fondamentale degli elementi costitutivi del tutto; ci hanno rivelato delle costruzioni musicali, ci hanno rivelato che sotto il cobalto, il verde, il rosa, il celeste, c’è ferma e potente una cosa architettata e complicata. Solo ai grandi è concesso vedere il lavoro armonico e solido della natura. […] La natura ama i poeti e i generosi. Solo a loro si concede tutta, tutta, tutta».


Lorenzo Viani, Il folle

5 aprile 2012

Espressionismo nella poesia italiana



Espressionismo nella poesia italianaGabriele D’Annunzio, Maia o della Charogne sublime di Antonella Ortolani, in «Pagine», rivista di poesia internazionale, Zona editrice, Anno XXI numero 64, maggio-agosto, 2011, pp. 21-23



Chiunque ha osservato i bambini sa che enorme importanza abbia il rituale nella loro vita […]. Il poeta, si sa, è “il fanciullino”; ma su quest’aspetto del fanciullino credo che Wordsworth e Pascoli non si siano soffermati. D’Annunzio, mi pare, l’illustra bene Mario Praz.
Se il poeta è un fanciullo, del bambino non erediterà soltanto l’atteggiamento ricettivo, creativo e vergine nei confronti del mondo, ma anche le sue angosce, i suoi molti terrori che, come la psicanalisi ci addita, egli esorcizza in gesti e rituali ripetitivi, volti a crearsi difese e sicurezze. […] La casa – tutte le sue case, non solo il Vittoriale, ma anche la casa natale a Pescara, e la Capponcina – è pastiche, cianfrusaglia che Praz si rifiuta di definire Liberty (intendendo egli con questo termine una stilizzazione essenziale delle forme, un tentativo di uscire dal caos e non una proliferazione farraginosa di ornamenti) ma piuttosto un bric-à-brac che ha una funzione ben precisa: quella di rendere la realtà intorno a se emblematica. Il bric-à-brac non è solo per l’occhio. Dagli accostamenti delle cose, come quelli delle parole, il poeta si ripromette illuminazioni, epifanie. […]
Naturalmente, in questo linguaggio (e in questo mondo) “bloccato”, manca il Tempo ed è assente la Storia. Affascinante la descrizione che dell’ossimoro di questo universo dinamicamente cristallizzato ci dà Bigongiari: «la morfologia dannunziana è stregata in partenza da questa enorme, ricchissima, staticità del tutto che essa esperisce volta a volta nella astoricità, che è tale perché adinamica […] Questa sensibilità dolorosa […] è quella stessa cifra che altri indicheranno come memoria veggente, una zona d’ombra nella quale la realtà è restituita in un impasto di segrete apparizioni, nel ritmo della «parola abbandonata al ritmo frantumato della sua originaria purezza.» (Luti)
La qualità allusiva che tocca il suo vertice nell’appunto, nelle brevi annotazioni diaristiche; la capacità di penetrare nell’anima delle cose con l’immediatezza intensa delle sensazioni, dove il flusso idea-parola si compie in una sorta di delirio espressivo […]. Un cortocircuito del piano percettivo: la “zona” espressionistica della visione, dove l’occhio precipita al di qua e al di là della percezione, in un terreno in cui lo sguardo ha poco a che fare con i meccanismi della rètina, e penetra invece nei labirinti della psiche. […] Anche Ezio Raimondi nel rintracciare i segni d’un freudiano complesso ossessivo nel tema dell’animale – in particolare della rondine – connesso con un ricordo infantile di crudeltà e violazione, traccia il percorso di questo “cammino nell’ombra” compiuto dal poeta attraverso l’orchestrazione essenziale di immagini e sensazioni fisiche compenetrate: «la coscienza con i suoi specchi misteriosi scende nei labirinti dei propri sensi, nell’indistinto delle loro germinazioni comuni, a cogliervi il tremore carnale della solitudine. Nelle pagine paratattiche del Notturno Raimondi legge le fluorescenze tutte Jugendstil, ma già toccate da un baudelairiano “sentimento di una vita misteriosa ed enigmatica come la flora di un acquario o le gemme di un museo ‘egizio’ ”, e trova la parola sospesa “nelle ragnatele di un mondo in penombra dove il mostruoso non si discerne dal famigliare e il fiabesco nasconde qualcosa di orrido nella luce crudele di un cristallo”.» C’è tutto un aspetto, nell’arte Liberty, che sconfina in un ambito ammorbato  da suggestioni decadenti, fino a perdere il contatto con i suoi motivi originari per virare decisamente verso approdi espressionisti. […] Scrive Giorgio Cortenova: «tutto quel movimento e quell’intrecciarsi di linee non si discioglie mai in un dinamismo liberatorio, ma in una pulsionalità tendente ad intrecciarsi su se stessa, in una sorta di fibrillazione venata da oscuri presentimenti. Insomma, nel brioso danzare delle linee s’insinua l’allarme dell’anima, nel paesaggio vegetale affiora il mondo animale, in una sorta di latente “mostruosità” mai espressa fino in fondo e tuttavia mai occultata fino alla cancellazione. Il fatto è che […] linguaggio e natura non combaciano più, ed è di lampante evidenza che tra loro esiste solo un falso “accordo”, un piano di appoggio terremotato, in cui la natura vive solo in quanto “idea” e il pensiero naviga in mari senza approdo. […] La metafora Jugendstil si mescola alla dissonanza barocca: si fa smorfia, ghigno. La natura si deforma, beffarda, in antropomorfismi minacciosi.» […] Leggendo le pagine de le “Città terribili” di Maia, sono proprio le allucinate città degli espressionisti che ci vengono alla mente. Così l’alito di morte che percorre La strada della città dannunziana È lo stesso alito di morte che si aggira nella Città morta del poeta espressionista Edlef Köppen. […] Eppure il tragitto verso la coscienza dei compiti dell’arte non è tranquillo. Alla svolta del sentiero incontriamo l’orrore di una carogna. Una carogna sembra esser posta come guardiano sulla via dell’arte moderna. Una carogna di Baudelaire, ben conosciuta e amata da Cézanne («nei suoi ultimi anni Cézanne conosceva a memoria questa poesia – Une Charogne di Baudelaire – e la recitava parola per parola» scrive Rilke in una lettera alla moglie) è una poesia scritta da Baudelaire prima del 1845, dunque una delle prime composte per Les Fleurs du Mal. Alla svolta della strada la carogna è là, e si offre alla vista con le gambe oscenamente spalancate, a dissolversi in una colata putrida di larve nere, e in un ronzio di mosche che le danno una parvenza illustrata di movimento e di vita. […] Prima lo sguardo artistico doveva essersi spinto tanto oltre se stesso, da vedere l’esistente anche nell’orribile, anche in ciò che appare come ripugnante.
Rilke ci indica che l’artista deve spingere il suo sguardo a frugare fin dentro la materia ripugnante, fino a dire l’indicibile, a nominare l’innominabile, perché tutto l’esistente abbia forma: Gottfried Benn, nei suoi saggi, ci avvertirà che spesso il difforme e l’abnorme sono alla radice del “fiore azzurro”. Crediamo che la cifra dell’espressionismo di D’Annunzio sia qui, in questa oltranza della parola che osa spingersi dove è alto il rischio di affondare, dove il patto mimetico tra parola e cosa – che aveva retto ogni rappresentazione in occidente, da Platone in poi – sta per rompersi, affidando alla parola una responsabilità nuova e terribile: compito dell’artista non è più rappresentare il mondo, ma far essere il mondo nelle sue forme proiettando nel mondo stesso l’ombra, la mescolanza di luce e di buio che abita dentro il soggetto.





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