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4 novembre 2022

Le signore di Tanagra

 


Plasmate nell’argilla da mani anonime fra il IV e il III secolo a. C. queste statuine di una ventina di centimetri, di soggetto femminile, probabilmente offerte come ex voto – madri, korai, figure mitologiche – prendono il nome dal luogo in cui sono riaffiorate nel 1870. Anzi, la cittadina greca situata in Beozia dove i manufatti erano sepolti aveva nel frattempo deciso di chiamarsi Grimada. È stata la risonanza della scoperta a farla tornare all’antica denominazione. Il fortuito colpo di badile di un contadino ha dato avvio ad una delle più sorprendenti scoperte nel mondo dell’arte greca. Sono reperti che commuovono, di piccole dimensioni, ricavati da un materiale povero, un contraltare al fasto dei coevi marmi fidiaci, e che tuttavia riescono a sprigionare un magnetismo potente. Il loro fascino racchiuso in forme semplici, nella naturalezza di gesti e atteggiamenti che rimandano alla quotidianità del mondo che le ha create, sta proprio in questa straordinaria capacità evocativa. Riti e miti di un passato lontano, qui vissuto sulle rive del fiume Asopo, all’ombra del tempio di Artemide in Aulide, le cui estese rovine testimoniano un culto importante.
Alcuni l’hanno definita “argilla carnale” perché le scene di maternità e di amore fra dei e mortali, o i ritratti ispirati dalle consuetudini quotidiane, come nel caso della cosiddetta “fanciulla in blu”
non sono pochi i casi in cui sono ancora ben visibili le tracce di colore suggeriscono presenze vive, in carne ed ossa, a dispetto della fragilità dell’elemento cui questi corpi sono legati. Le divinità stesse, in questi piccoli umili capolavori, sono più che umane, sembrano uscite da un quadretto familiare. E poi, delicate ma longeve. Il loro rinvenimento è la dimostrazione che sono state capaci di sfidare il tempo, quanto e forse più delle opere realizzate in materiali scelti per resistere da committenze illustri.
Nel contesto di questa umile ma dignitosa normalità non è un caso che una delle rappresentazioni più frequenti sia quella del gioco dell’ephedrismos (ἐϕεδρισμός),
uno dei più popolari nell’antica Grecia, un gioco da cortile, noto ancora oggi come “asino lungo”, simile alla “rana balzante”. Veniva svolto così: i partecipanti posizionavano un sasso a una certa distanza, cercando di colpirlo con un oggetto sferico o con un altro sasso. Il giocatore che aveva colpito il bersaglio veniva dichiarato vincitore. A questo punto il perdente era costretto a portarlo sulle spalle fin dove si trovava il sasso. Per tutta la marcia chi aveva perso teneva le mani dietro la schiena mentre il vincitore gli copriva la vista. Qui si tratta di gare femminili, disputate fra bambine o ragazze, e la plasticità del movimento, il contatto tra i corpi, la spontaneità della corsa, quasi stesse avvenendo sotto i nostri occhi, danno luogo a un singolare, intenso naturalismo che si trasferisce con immediatezza a chi osserva.

La prima collezione di queste statuette trovò spazio al Louvre. La loro essenzialità archetipica colpì l’immaginazione della pittrice tedesca Paula Modersohn-Becker, allora in trasferta a Parigi. Il loro studio contribuì ad avvicinarla a una diversa idea dell’antico – già in parte rielaborata e assorbita anche dall’osservazione dei ritratti delle mummie rinvenute nel Fayum, datati circa al II sec. d. C., e di alcuni manufatti di arte giapponese. E infine anche attraverso l’architettura gotica. Sentì ancor più dentro di sé la necessità di pervenire a forme pulite, nitide, primitive. A testimonianza di quanto l’arte antica, in un periodo di fermento quale fu quello della pittura alla fine dell’Ottocento, grazie anche ad alcune fortunate scoperte che proprio in questo periodo si collocano, abbia ispirato nuovi linguaggi, aprendo la strada a inaspettati sincretismi.    

(Di Claudia Ciardi)

 

* In copertina: Statuetta di Tanagra - scena mitologica. Europa seduta sul toro (Zeus)

 


Afrodite accudisce Eros, IV sec. a. C.




Eros di Tanagra, III sec. a. C.



Afrodite Basileia con Eros sulla schiena

 

Rappresentazione di ephedrismos tra due ragazze, IV-III sec. a. C. (Museo di Corinto)

 


Afrodite di Tanagra - Firenze - Musei del Bargello

Immagine tratta dal catalogo dei beni culturali fotografici



Originale di uno dei ritratti del Fayum



Riproduzioni di due ritratti originali del Fayum dall'atelier di PMB

Catalogo Uwe M. Schneede
Paula Modersohn-Becker. Die Malerin, die
in die Moderne aufbrach
,
C. H. Beck, 2021



Si rimanda anche a:

These lovely little statues enchanted ancient Greece (articolo su National Geographic)

La scheda dell'Afrodite del Bargello

30 giugno 2022

Scrivere l'architettura

 



A partire dalla recensione uscita sull’ultimo fascicolo di «Atti e rassegna tecnica», la rivista della Società degli ingegneri e architetti di Torino, si torna a parlare del lavoro di studio condotto sui documenti inediti dell’archivio schelliniano. Questo cantiere pluriennale, sotto la direzione scientifica di Daniele Regis, che ha la sua base nella multidisciplinarità e nell’incontro fra saperi politecnici – seguendo la lezione di Roberto Gabetti, vale a dire la consuetudine a frequentare e praticare arti e idee limitrofe o meno, purché poste in un rapporto di mutuo scambio o stimolate a esser tali –  questo poliedrico centro che dal 2018 ha attratto ricercatori, artisti, menti aperte non ha affatto esaurito i suoi obiettivi.

Prova ne siano le diverse scritture che in questo inizio d’anno tornano a occuparsi di neogotico piemontese e dei suoi maggiori esponenti culturali, anche nel lunghissimo e altissimo filone della fotografia autoriale – si sta pubblicando un nuovo catalogo di Michele Pellegrino dove la lode al paesaggio, l’immersione panteistica nella natura rimandano per certi versi a questo stesso sentimento di malinconico congedo, di legame interrotto con una naturalezza mancata e mancante che è tra i grandi temi della riscoperta del gotico nel XIX secolo. E ne stiamo continuando a divulgare i contenuti in alcuni articoli di prossima uscita.

Intanto colgo l’occasione del ritorno al volume collettaneo edito da Sagep nel 2021, per riproporre il testo integrale della mia lezione pubblica tenuta lo scorso dicembre sui nuclei principali della mia ricerca. Un affascinante crocevia dove gli autori della letteratura antica dialogano con l’arte e l’architettura dell’Ottocento.


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Scrivere l’architettura. Schellino e la lezione degli antichi

 

Per rispondere alla domanda di Andrea Longhi, direttore della rivista «Atti e rassegna tecnica», che ringrazio per il tempo dedicato alla lettura del mio contributo, vorrei prima ripercorrere brevemente le tappe di questo mio studio.
Quando ho iniziato a occuparmi delle miscellanee schelliniane non potevo pensare che mi sarei trovata immersa in così tanti puntuali riferimenti alla letteratura antica. Ricordo lo stupore del momento in cui ho avuto sotto gli occhi l’elenco di autori greci e latini specialisti in trattati sull’arte dell’agricoltura. Vero e proprio catálogos (κατάλογος), nel senso etimologico greco, una lista paradigmatica di personaggi e fatti notevoli considerati rappresentativi per un tema d’interesse.
Al di là dell’aspetto contenutistico che evidentemente per Giovanni Battista Schellino era rilevante, data la sua formazione e i modi del suo stesso operare in un territorio che idealmente considerava una sorta di ager publicus nel senso dei latini e che come tale andava curato attraverso il proprio lavoro, c’è un risvolto morale non minoritario che anzi si intreccia profondamente alla visione progettuale dell’architetto doglianese.
Prendersi cura del territorio, ognuno col proprio sapere e mestiere, significa essere coscienti di un ruolo attivo nella società, della necessità di essere parte organica di un tutto, di offrire un contributo che valga per il qui e ora ma sia anche di pubblica utilità per il futuro. Tanto più che Schellino fu a lungo consigliere comunale a Dogliani, dunque vero e proprio civis impegnato a tempo pieno a servire e preservare la comunità come costruttore di edifici materiali e spirituali.
Man mano che mi addentravo nello studio delle miscellanee, raccolte che per struttura, caratteri e temi privilegiati ho posto in contiguità e perciò proposto di analizzare insieme, mi divenne evidente che la messe di citazioni letterarie, in larga parte orientate ai volgarizzamenti dei classici, non era un semplice e meccanico esercizio di copia lasciato al tempo libero. Poteva certo prendere le mosse dai momenti di pausa, di intimo raccoglimento di questo ingegnoso progettista, ma non era qualcosa di astratto, di avulso dalla realtà vissuta. Appariva invece chiaro che quelle frasi che una dopo l’altra riempivano con disciplina e continuità tanti fogli manoscritti, non erano tra loro svincolate ma si richiamavano all’insegna di valori, immaginazioni, ideali fortemente sentiti dal loro copista.
Quindi, venendo alla domanda formulata dal dottor Longhi, se i materiali poetici e narrativi raccolti e rielaborati da Schellino siano da interpretare o come chiavi di lettura funzionali al lavoro di costruttore oppure siano esclusivi attestati di una cultura letteraria estesa, se vogliamo un riverbero di quello sfaccettato eclettismo sapienziale di cui il nostro architetto è completamente imbevuto, rispondo che le due cose non si escludono fra loro. Longhi si riferisce in particolare a un passaggio del mio articolo che desidero qui riportare: «Le parole, per Schellino, sono forme di architettura in potenza, strumenti attraverso cui edificare, mattoni dell’immaginazione, segnacoli in grado di enunciare e rivelare la trama delle sue suggestioni».
Nel momento in cui qualcosa di ciò che legge colpisce la sua mente, la mano corre subito ad annotarla. I rapporti tra scrittura e ars operandi sono certo più evidenti laddove la citazione proviene da un manuale di tecnica o da uno dei tanti opuscoli divulgativi su arti e mestieri che nell’Ottocento trovarono larghissima diffusione. È il caso della frase attribuita a Celeste Clericetti, saggista interessato al gotico e in particolare ai lasciti della presenza longobarda in Italia, di cui ho ipotizzato una conoscenza piuttosto attenta da parte di Schellino. Ma pure nelle fonti più propriamente letterarie, interpretabili come elementi a cui la sensibilità schelliniana guarda con l’atteggiamento reverenziale del lettore curioso e appassionato, si colgono potenzialità valide all’integrazione in un progetto di architettura. Autentiche tessere di un mosaico selezionate sulla base di un disegno interiore, coerente per quanto poliedrico con l’opera edificata sul territorio.
E qui si aprirebbe anche uno stimolante dibattito sul rapporto tra arte e scrittura che personalmente mi coinvolge molto, al quale ho finora dedicato e sto dedicando diverse delle mie ricerche. Se vogliamo attingere ancora a un exemplum, che direi tra i più rappresentativi in tal senso, rimanderei al lavoro di ristrutturazione del Castello Allara Nigra a Novello, la cui committente era per l’appunto una letterata. Questo incarico svolto nell’arco di un decennio dal 1870 al 1880 circa, accompagnato da un rapporto di amicizia e reciproca intesa culturale, può considerarsi forse per quel che riguarda Schellino la massima espressione plastica del dialogo fra i due mondi creativi cui accennavo.
Dunque, architettura come scrittura di uno spazio, come polo di un immaginario che si nutre di altri immaginari, contaminandoli e venendone contaminata. Per Schellino, autodidatta, versatile, ingegnoso, la disciplina umana nel lavoro, nei rapporti col prossimo, nell’osservanza di una dirittura morale, era un carattere imprescindibile sia per la liberazione di energie positive utili allo sviluppo armonico della società sia per fronteggiare l’industrializzazione, veicolo di molteplici opportunità ma anche del rischio di uno sradicamento nei contesti d’impatto.
Vengo dunque alla seconda parte della domanda di Longhi, in una certa misura già risolta all’inizio di questa mia dissertazione. Le miscellanee, compilate presumibilmente in età avanzata, risentono non poco dello sguardo rivolto a uno squilibrio crescente nella società, e nelle campagne più che altrove. Le Langhe con le loro tradizioni antiche, legate ai tempi lunghi dei rituali agresti, lontane dalle principali vie di comunicazione che attraevano i grandi flussi di genti e di cose, rischiavano di esser tagliate fuori qualora avessero mancato l’incontro col carro del progresso ma anche, nella velocità e voracità dell’assorbimento, di perdere i propri riferimenti culturali.
Di nuovo il parallelo con gli scrittori del mondo antico impegnati a parlare della vita nei campi quale fondamento della virtus del buon cittadino si fa nitido. Come poteva Schellino non sentirsi compenetrato dalla vicinanza sentimentale a questo sistema di valori e ai loro messaggeri? A Roma le lotte politiche fra i triumviri aprirono un lungo periodo di incertezza, segnato da anni di guerra civile, anni che devastarono il territorio, impoverirono la popolazione e sancirono la fine della repubblica. Scrittori come Varrone e Virgilio intesero nelle loro opere mettere in guardia dalla disgregazione derivante da una cittadinanza divisa, da un potere che aveva perso di vista il bene collettivo, che aveva completamente smarrito il quadro morale necessario alla convivenza pacifica e proficua degli esseri umani. C’è evidentemente una condivisione simpatetica fra Schellino e la saggezza di queste antiche voci. Guide in un periodo storico che correva gli stessi pericoli, autori che rassicuravano e ammonivano sui cammini da intraprendere per un rinnovamento senza strappi, senza cadute, senza sconfessare la propria storia e identità.
Chiudo auspicando che dagli studi fin qui compiuti intorno alla personalità di Giovanni Battista Schellino possa crearsi un polo di ricerca e di scambi in tempi che speriamo vicini, più sereni e più adatti alle manifestazioni culturali libere, largamente partecipate, orientate a una collaborazione multidisciplinare ad ampio raggio. Per i numerosi spunti che i progetti schelliniani sono capaci di suggerire a chi vi si confronta, per l’alto valore che le sue costruzioni esprimono avendo contribuito in modo significativo alla conoscenza culturale del neogotico e delle Langhe, c’è da augurarsi che l’invito a costituire un centro studi di respiro nazionale e internazionale possa finalmente e degnamente essere raccolto. 

 
(Di Claudia Ciardi, dicembre 2021)


«Atti e rassegna tecnica» LXXV numero 3, dicembre 2021-giugno 2022, ospita una recensione del volume collettaneo su Schellino pubblicato da Sagep, pp. 108-109.

Qui il mio intervento disponibile anche come audio lezione

 

Per una panoramica del progetto si rimanda al seguente articolo:

Nel segno di Schellino e di Dante

 

 

 

 

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