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6 maggio 2019

Il piegar de’ panni s’immerge nella luce


Per i cinquecento anni di Leonardo non poteva mancare una grande mostra a Firenze su quello che senza sbaglio può essere definito il più importante carismatico ispiratore non solo del genio vinciano ma di quasi tre generazioni di artisti che si alternarono nella sua bottega, seguendo poi ciascuno la traccia del proprio talento e spargendone l’eredità in buona parte dell’Italia centro meridionale, tra Toscana, Umbria, Lazio e Abruzzo.
La personalità di Andrea del Verrocchio sbocciò in quella tumultuosa stagione dell’artigianato fiorentino che da decenni vedeva la perizia dei suoi interpreti sfidare limiti e convenzioni, in una compresenza di stili dove gotico e rinascimento disseminano sguardi chiaroscurali, alleanze alchemiche, insospettabili sincretismi. Stili speculari e allo stesso tempo concentrici, trama e ordito su cui s’innescano collisioni, zone d’ombra elevate a fulgide levità, ipotesi di squarci visionari. Avviato neanche ventenne all’arte orafa, nella quale si distinse subito per la precisione tecnica e la finezza del cesello, lo scrupolo e il virtuosismo messi a punto nei lavori di toreutica non lo abbandonarono mai, dalla scultura alla pittura. Il tratto limpido e delicato che disegna vesti e ornamenti tanto da infondere alla materia un senso di leggerezza inedito, la complessità che si contiene interamente nell’armonia delle forme evocate, nella minuzia di lievissimi dettagli, ne fanno un vero e proprio iniziatore, presto svincolato dai due più influenti maestri di allora, Donatello e Domenico da Settignano. Un capostipite d’impronta fiamminga a Firenze, l’unico a tener testa alla scuola nordica opponendo una maniera volta a quel mondo ma anche assolutamente innovativa e peculiare. 

Non sorprende che un’intera sezione della rassegna sia dedicata a quel “piegar de’ panni”, esercizio plastico in grado di dar vita a potenti assoli, come mostrato dai disegni del Verrocchio e di Leonardo, e del quale fu caposcuola Fra Filippo Lippi, il primo a studiare gli effetti della luce su brani isolati di panneggio. In ciò ispirati dal De pictura di Leon Battista Alberti che invitava all’attenta osservazione delle statue per comprendere i cambi di luce. 

Dopo un veloce apprendistato presso gli orafi fiorentini, dunque, Andrea del Verrocchio iniziò a imporsi all’attenzione della propria città ma, in via altrettanto folgorante, pure fuori del suo territorio. Entrato nell’orbita delle committenze medicee, il che implicava un legame diretto coi cantieri dell’Opera del Duomo, la sua fama crebbe rapidamente, consentendogli l’apertura di una bottega in proprio nella quale molti giovani artisti scoprirono e affinarono le loro doti. A entrare nella sua cerchia, oltre al già menzionato Leonardo, e solo per citare i nomi più eclatanti, troviamo il Perugino, Domenico Ghirlandaio, forse perfino Sandro Botticelli, che se non fu veramente suo allievo, ne subì di sicuro l’influsso mentre stava emancipandosi dall’insegnamento di Filippo Lippi.
Questo molto ci dice sulla qualità della mostra allestita a Palazzo Strozzi, uno scrigno delle meraviglie in cui trova spazio quell’arcipelago prodigioso e immensamente sfaccettato che è l’arte italiana quattrocentesca. Sono qui raccolte oltre cento opere che diedero sostanza spirituale al corpo dell’umanesimo. Da qui è passata la storia politica delle signorie e del papato, in queste tele, ceramiche, terrecotte, nei bozzetti, nei busti sono racchiuse le aspirazioni di un’epoca. Intelligenze raffinate, genialità, estro, capacità di unire i talenti per imprese collettive che rasentano l’incredulità, come nel prodigio dell’altare d’argento, nato dalle energie creative, oltre che di Verrocchio stesso, di progettisti del calibro di Ghiberti e Pollaiolo. 
Andrea del Verrocchio fu artista versatile, il cui merito è stato sminuito talvolta da certa critica troppo incentrata sui suoi allievi in quanto esecutori materiali dei suoi stessi progetti. Peraltro tale aspetto, quando appurato, nulla toglie alle sue qualità di fondatore e ispiratore, anzi a buon diritto le conferma. Indicativi gli incarichi ricevuti fuori da Firenze che lo portarono in alcuni dei centri più vitali e ambiti per gli artisti del tempo, a Pistoia, addirittura nelle vesti di “frescante”, a Roma e Venezia. La ricchissima esposizione aperta al pubblico fino a luglio è dunque un appuntamento cruciale per approfondire i tanti scambi e influssi sollecitati da uomini aperti e curiosi, propensi in ogni fase della loro vita a valorizzare le possibilità dell’ingegno, uomini che indiscutibilmente contribuirono alla grandezza di un’epoca.


(Di Claudia Ciardi)














* Catalogo: Verrocchio, il maestro di Leonardo, Marsilio, 2019

18 aprile 2019

Juhani Pallasmaa - L'immagine incarnata


Architetto finlandese, autore di alcuni saggi di successo su arte, antropologia, psicologia e, per l’appunto, architettura, conferenziere stimato dal pubblico, Juhani Pallasmaa ha indagato in diversi scritti cosa vuol dire essere oggi costruttori e comunicatori, esplorando la necessità di risvegliare quel senso latente di poesia in grado di restituire contenuto alle cose, ravvivando le connessioni storiche e culturali su cui poggia la nostra immaginazione. È questa capacità la prima pietra del grande edificio collettivo entro il quale si celebra l’arte, dove ritualmente prende forma la volontà di autorappresentazione dei popoli, il corpo che trasuda la sostanza organica di sogni e memorie. Perché esattamente tale è l’impronta lasciata dalle nostre vite, una parte creativa, intangibile, in apparenza acefala, invertebrata, svincolata dall’ossatura del mondo, un’altra invece inscritta nel tempo quotidiano, nella contingenza del reale. Ma a ben vedere son due fronti affatto opposti, semmai interrelati nel profondo, di cui l’essere umano si nutre in continuo.
Lungi dal rappresentarsi come qualcosa di disincarnato, immaginazione e immaginari sono infatti espressioni concrete, multisensoriali, composite in quanto originate da una stratificazione di esperienze, da una polifonia di segni e sensibilità;  recano in sé il portato del mondo. Eppure, quel che oggi svuota di significato larga parte delle cosiddette opere d’arte e, dunque, molti progetti di architettura è proprio l’assenza di ponti gettati dall’uomo verso la sua più autentica storia sentimentale. Manca sempre più spesso un’anima pulsante al centro del sillabare o disegnare un’idea, un’ipotesi, uno spazio. Quando si enuncia questa parte spirituale, allora tutto riaffiora all’unisono nel corpo di un’opera e di chi ne fa esperienza. Il prodotto artistico manifesta qui l’integrità che le appartiene, connotandosi come una creatura viva, radicata nel tempo, viscerale ma anche altrettanto ineffabile. Tuttavia, l’epoca che attraversiamo, tende a bandire l’immaginazione, snaturandola, negandola addirittura. Paradossalmente, e neppure tanto,  l’eccesso di immagini da cui siamo ovunque sommersi, perfino assediati in certi luoghi o circostanze, falsifica e distoglie dal vero potere che le realtà visive in condizioni diverse eserciterebbero sulle nostre esistenze. Troppe immagini per nessun immaginario. Ecco quale cieca profezia va prosciugando sul nascere gli spunti creativi che vorrebbero concorrere a una profonda, sensata e ampiamente condivisa immedesimazione.
Davanti allo svuotarsi di senso di ciò che più avrebbe il compito di restituircelo, scaturendo in noi una riflessione e quella generosa catarsi che sola libera le energie positive del vivere, l’essere umano resta attonito, disorientato. Guarda il flusso di immagini che lo investe, ma sembra non vederlo, pare averne solo una minima percezione che però sfugge a un più solido processo significativo. Per Pallasmaa è possibile e auspicabile risignificare i nostri immaginari, unica via per tornare a un umanesimo delle idee, dei caratteri e delle arti. Tale è la condizione necessaria per raggiungere di nuovo la bellezza, i valori, ciò che dà peso alla storia. Senza una cultura rilevante non c’è infatti alcuna storia che sappia riempire le commessure di un immaginario e tramandarlo. Senza immaginazione l’uomo nega una delle sue attitudini primarie e perde un suo tratto essenziale, che equivale a uno dei fondamenti del sopravvivere.   
Tornare alla grande arte e architettura, significa saper ritrovare la strada per la vera e grande poesia. Aver smarrito le formule di questa evocazione espone l’umanità al rischio dell’anonimato, a un lento oblio sentimentale dove non c’è altro spazio se non per le angustie di ogni giorno e il livellamento delle coscienze. Uno stato di torpore diffuso in cui la creatività si troverebbe a disagio fino a venir meno. Se si vuol conservare la scintilla, è della massima importanza che il sentire non divenga preda d’ingorde sirene che nessun favore gli renderebbero, tranne annegarlo.          

(Di Claudia Ciardi)       



Edizione consultata:

Juhani Pallasmaa, L'immagine incarnata. Immaginazione e immaginario nell'architettura, Safarà Editore, 2014


19 aprile 2018

Non tradite le parole




L’infinito di Giacomo Leopardi in greco



È una riflessione che ho in animo da tempo. L’articolo di Edoardo Boncinelli uscito su «La lettura» dell’8 aprile 2018 ha contribuito a ricordarmene l’urgenza. Un ragionamento sulla necessità di non sprecare le parole, di non tradirle, e sulle conseguenze antropologiche derivanti dal quotidiano esercizio al sovvertimento, alla destituzione dei loro confini segnati, ingenerando quella confusa irresolutezza tra ciò che significano e ciò che tendono ad adombrare, troppo spesso sobillato per ottunderle ed estinguerle quasi.
Lo studio delle lingue antiche ha fatto sì che sviluppassi fin dall’adolescenza anticorpi abbastanza efficaci verso certe banalizzazioni linguistiche. È pur vero, però, che il bombardamento di banalità cui siamo sottoposti, scempi verbali e non solo, giacché il linguaggio è veicolo e sismografo di quel che una società ha scelto di divenire, insomma questo coacervo superficialissimo e dissonante, filtra ovunque, anche laddove pensiamo di aver costruito argini sicuri. Mi son chiesta spesso: se io che mi son forzata a studi del genere e ho ascoltato quel che avevano da dirmi le cosiddette lingue “morte” – ma solo nel senso di non esser più parlate da un paio di millenni, eppure vive ancor più della lingua che parliamo adesso – se io stessa fatico a suscitare nelle parole un più autentico spirito, legante del linguaggio, come possono altri cui manca anche un tale confronto? Una lingua morta oggi ha più facilità di riconciliarci con un uso verbale coerente e onesto, di quanto non vi riesca la comunicazione di tutti i giorni.
La risposta che mi son data sulle mie stesse inadeguatezze a fronte degli studi classici, è piuttosto incalzante; anche questi studi risentono, fenomeno inevitabile, dell’epoca in cui son condotti, che da una parte è respingente, se non ostile, alla loro sopravvivenza, processando tutto secondo le categorie dell’inutilità e dell’utilità. Dall’altra, orientata com’è al generale abbassamento del livello culturale, insidia anche chi con encomiabile resilienza queste materie continua a divulgarle. 
No, non son proprio più i tempi degli «studi leggiadri», di Bessarione e dei grandi maestri bizantini venuti in Europa dopo il crollo dell’impero d’oriente, di quella mirabile, incredibile commistione di antico e moderno che prima diede forma al volgare, portato al trionfo dai grandi del Trecento, quindi accompagnandosi alla piena riscoperta del greco religiosamente destinato alla crescita della letteratura, che tra Cinquecento e Ottocento contribuì a scolpire una visione del mondo. Nel bene e nel male non si tratta ormai più di quella cultura certamente elitaria, anzi elitarissima, a sua volta fin troppo settaria, ma che ha anche prodotto nella nostra lingua capolavori eccelsi.
Ai nostri giorni è perfino nata – orrore – la letteratura commerciale dell’antico, definita talentuosa e innovativa da alcuni tra i più prestigiosi organi di stampa occidentali e tradotta addirittura nei templi stessi dell’antico. Come si vede il morbo è in estensione. Perché oggi tutto deve sforzarsi di essere comunicativo. Nei tempi dello sdoganamento di internet sorgono strane figure che si dicono animate da sana e disinteressata divulgazione, in realtà investite, oltre il limite di guardia, da un insano accanimento verso le pratiche comunicative. Nascono i censimenti dei poeti – e quanti bei nomi mancano all’indice – e le poesie attente alla comunicazione, a come dovranno diffondersi e incontrare il gusto del lettore e farsi notare; con l’imbarazzante risultato, non occorre neanche dirlo, di comunicare molto poco. Un Eugenio Montale, un Dino Campana, un Alfonso Gatto, non si son preoccupati di esser comunicabili al di là dei loro versi, eppure son ben lontani dal veder esaurita nella loro opera la potenza di una significazione. E se penso a un personaggio ingombrante e assai più rumoroso come Gabriele D’Annunzio, che molto ha voluto comunicare di sé e dei modi del suo esercizio creativo, non posso comunque fare a meno di considerare l’infinito raccoglimento che è alla base del Notturno e l’intimismo colto dell’Alcyone: entrati di diritto nella letteratura italiana. Possa piacere o no il personaggio, ma nelle sue esternazioni, anche le più ridondanti, vi era una volontà comunicativa ispirata da una visione, che ha anche saputo ritrarsi, quand’era il caso. Nulla a che fare con il rumore di fondo di tanti odierni cosiddetti comunicatori dell’essere illetterati. 
Ho raccolto, saranno passati non più di tre o quattro anni, alcune espressioni che mi è capitato di sentir ripetere con insopportabile frequenza, esempi a mio parere di quello scadimento della lingua, e quindi dell’etica del parlante, che dicevo all’inizio. Le elenco qui brevemente a suffragio del ragionamento che motiva questo scritto.
L’abuso dell’aggettivo epocale. Nelle belle pagine del saggio di Paolo Chiarini sull’espressionismo tedesco suonava storicamente motivato e animato, se vogliamo, da una sua grazia letteraria. Da dopo aver letto questo libro, sarà stata una pura coincidenza, anzi di certo lo è stata, “epocale” divenne quasi tutto. Notai che l’aggettivo era usato con una disinvoltura agghiacciante che ottundeva qualsiasi concetto: anche la passeggiata del cane del vicino aveva in qualche racconto un che di epocale. Il risultato fu, ed è ancora, che mi son quasi vergognata di averlo utilizzato per la recensione di Chiarini e forse per un paio d’altri articoli.
Come tralasciare quindi il sempreverde scontro di civiltà, che torna puntuale nel dibattito oriente-occidente. E un’espressione del genere, non occorre dirlo, non aggiunge nulla al dibattito. Segue a ruota l’ossessione per il populismo, chiave di lettura sempre pronta all’uso e spauracchio di ogni analisi politica. Nella vacuità imperversante delle analisi bisognava inventarsi un riempitivo.
Prima o poi arriva chi si è rimboccato le maniche. Un modo di dire proprio insipido, in senso etimologico. Si è soliti sentirla pronunciare nelle difficoltà che non hanno visto concretarsi alcun aiuto. Dunque, chi fa da sé si rimbocca le maniche, oppure bisogna convincersi che, siccome di aiuto non se ne parla, anche quando sarebbe dovuto, “è necessario rimboccarsi le maniche”. Alter ego dell’italico arrangiarsi; la crisi economica ha inchiodato queste espressioni alla loro misera incapacità senza via d’uscita. Nei tempi attuali, che tu ti rimbocchi le maniche o tu ti arrangi, è sempre abbastanza dura. Ripetuto tante volte, come avviene nel marasma linguistico dell’ora e adesso, diventa sintomatico di un’impotenza collettiva scoraggiante.
Procedo con una memoria personale, un colloquio con un imprenditore orafo e la sua servizievole segretaria, donna di consolidata incompetenza e senza alcuna attitudine per lo stare al pubblico – a questo punto arriva l’altro tipico pensiero maschile, che sussume molte aggiuntive banalità e pregiudizi divulgati dalla nostra cultura “bella donna?”. No, non era una bella donna. Al termine del nostro confronto – cercavo uno sponsor per un’iniziativa culturale – è giunta la conclusione che nulla intendeva concludere: «ma io voglio vedere i risultati!». Questa affermazione ho avuto modo di ascoltarla e soppesarla diverse volte, in contesti apparentemente lontani, e non ha smesso di trasmettermi la sua abbacinante inutilità quando non si ha nulla da argomentare.
Infine poche altre perle di saggezza. L’inflazionatissimo, soprattutto da parte femminile, “mettersi in gioco” – a un certo punto c’è sempre una donna che ha voglia di mettersi in gioco. E quindi? Provate ad ascoltare una qualsiasi trasmissione televisiva, arriverà senza farsi attendere troppo. Sono qui perché mi sono voluta mettere in gioco…E allora? Il fastidio di questa salottiera autodafé sta nel fatto che si tira dietro in automatico la domanda di chi la subisce: e a me che…? Abbiamo poi, in chiusura, il celeberrimo “purtroppo c’è crisi” – lo abbiamo sentito fino allo sfinimento in questi anni di risposte mancate a qualsiasi richiesta – l’isterico “d’altra parte si vive una volta sola”, il gelido e inquietante, per l’associazione che instaura con un’ipotetica pandemia, “è diventato virale”.
Ci sono poi, e anche qui non basterebbe scrivere un manuale, le pseudo dialettiche da social. Una discussione, se mirata all’attacco personale, si svolgerà sempre tirando dentro le stesse identiche argomentazioni – provate a scorrere un qualsiasi alterco tra due utenti: sarai mica permalosa (se fai notare che ti hanno scritto un’imbecillità), vai fuori argomento, denoti debolezza, hai un livello proprio…e poi scattano le offese, perché quello era il proposito (e la provocazione) iniziale, ovviamente.
Aperta questa parentesi sulle peggiorate condizioni della lingua, sui suoi innumerevoli tic, e i limiti culturali e psicologici di una parte consistente degli interlocutori coinvolti, desidero evidenziare un epilogo ulteriore di questo generale scadimento. È una conseguenza ben introdotta a mio avviso dal citato articolo di Boncinelli, quando ci fa presente che nel riferimento, ad esempio, alla parola natura non sappiamo più a che cosa vogliamo richiamarci, e tutto si riduce molto spesso a uno sconcertante guazzabuglio semantico.
La conseguenza, dicevo, altrettanto confusa e pericolosa è la facilità con cui si ricorre nel ragionare agli anestetici. Mi spiego meglio: se alla parola guerra non riesco ad attribuire il senso che la guerra ha effettivamente, ogni discorso contro o a favore è suscettibile di una reazione neutra. Come posso schierarmi se in quello che si afferma non vi è contenuto, contesto, storia, polemica, insomma un vissuto? Mi sono molto arrabbiata leggendo ultimamente certe discussioni sugli aiuti ai terremotati. Secondo alcuni opinionisti parlare di certi problemi è sciacallaggio politico. Al che sono intervenuti alcuni residenti nel cratere sismico, giustamente risentiti – chi più di loro ha diritto di parlare? – sostenendo che la discussione, perfino lo scontro, a livello di istituzioni è vitale e non significa strumentalizzazione. Quel che uccide, direi in generale, è proprio questo anestetico a buon mercato che vuole smussare le opinioni, abbassare i toni ed esser gentile, ma nelle risultanze ha il volto efferato dell’ignoranza e dell’indifferenza. Dire una parola e tradirla, dare una parola e non mantenerla. Sintomo di paralisi culturale, etica ed economica. E di tanta scrittura e letteratura che non sono proprio, neppure lontanamente, né l’una né l’altra.   


(Di Claudia Ciardi)

8 giugno 2016

Referendum sociali


Sono felice di rendere disponibile questo spazio per divulgare l’intervento che mi è stato girato nelle ultime ore dagli attivisti impegnati nella raccolta firme dei referendum sociali
In apparente divergenza rispetto a ciò di cui sono solita occuparmi, credo che mai come adesso urga un dibattito serio, non strumentale, su argomenti di portata tanto vasta, dalle immediate ricadute sulle vite di ognuno. 
Credo che l’impegno nella tutela ambientale sia uno dei grandi temi attorno a cui ricostruire un nuovo confronto democratico, autenticamente partecipativo. Durante la campagna referendaria contro le trivellazioni e per lo smantellamento delle piattaforme petrolifere giunte alla fine del proprio ciclo vitale, ho ritenuto di dover dare voce a chi si occupa di tutela del territorio. Liquidare l’ambientalismo come un qualcosa di astratto da mettere in ridicolo, significa mancare di lungimiranza politica. In una fase in cui i popoli sperimentano una precarietà diffusa, mentre la percezione del benessere arretra ipotecata com’è da un graduale peggioramento delle condizioni materiali, la solidarietà dei comitati sorti sul territorio costituisce un’ampia quanto variegata frontiera entro cui indirizzare dissenso e disgregazione verso esiti positivi. Si tratta di un capitale umano di grande valore, che non può e non deve essere disperso nella bieca disputa orchestrata dalla partitocrazia.
Compito di un letterato, o intellettuale o studioso che dir si voglia, non è trastullarsi nelle sue compiaciute e tronfie conquiste totalmente disincarnate dagli eventi – elitarismo e autoreferenzialità sono le madri egoiste dei nostri malanni. L’esercizio di un’arte che si leghi ai toni effimeri di un’amministrazione o di un vento di partito, tanto da buttar lì qualcosa per riempire un cartellone di quartiere, troverà certo intorno a sé una presa assai scarsa. Non se ne abbia a male il poeta se predicherà parole che nessuno potrà raccogliere. Questo voler essere accettato a tutti i costi, alla fine annoierà anche i suoi. Cosa importa del consenso esteriore, la forma affrettata del riconoscimento che ciascuno può confezionarsi seguendo certe grossolane istruzioni a buon mercato, al paragone di quello che la gente, che in buona parte sprovveduta non è, al contrario di come la si descrive, coltiva dentro se stessa, di quella propensione al rispetto più duraturo che la voce di qualcuno è in grado di conquistarsi nell’intimo di molti.
Anteporre all’egoismo dell’esibizione la chiarezza, alla natura transitoria del colore di un potere una visione che possa dirsi valida al di là di esso, è ciò che deve assumere chi nella diversità dei propri mezzi espressivi tenti di rendersi utile ai propri simili.
In tal senso, non si irrida l’umanista che prende parte ai fatti del suo tempo, leggendovi una stortura con la quale si contaminarebbe la sua fede da apologeta. Piuttosto se ne consideri la genuinità d’azione. Facilmente si distinguerà chi bara al gioco, chi affretta e svilisce il suo pensiero per cogliere opportunità momentanee, e chi invece nell’affondo della realtà, e perfino nell’errore, conserva intatta la forza delle proprie idee e l’umiltà che sempre le solleva dai limiti del quotidiano. 

(Di Claudia Ciardi)


Referendum sociali – Firma day

I referenti: Movimento Legge Rifiuti Zero per l’economia circolare, Comitato Sì Blocca Inceneritori!, Associazione Comuni Virtuosi, Marco Fantozzi, Patrizia Gentilini 

Apello ai movimenti e ai militanti

La raccolta firme per l’abrogazione dell’art. 35 dell’ex decreto Sblocca-Italia rischia di non poter raggiungere il quorum previsto di oltre 500mila firme necessarie alla sua validazione.

Non è per ora sufficiente l’impegno profuso dal nostro comitato promotore e quello di una parte militanti dei sindacati e movimenti per i  quesiti abrogativi della Buona Scuola, di Trivelle Zero e del Forum acqua bene comune con cui abbiamo dato vita ai Referendum Sociali.

La scelta della FLC-CGIL decisa dopo l’avvio della raccolta firme di non aderire  ai referendum sociali e quindi di
escludere dalla raccolta firme i due quesiti ambientali No Inceneritori e Trivelle Zero, salvo poche eccezioni regionali, ha prodotto un grave squilibrio di oltre centomila firme ma che è ancora sanabile.

Facciamo quindi appello ad una grande mobilitazione straordinaria generale per recuperare questo squilibrio a partire dal FIRMA DAY NAZIONALE dell’11 e 12 giugno e sino alla chiusura a fine giugno in cui chiediamo alla rete dei Comitati, alle Associazioni ambientaliste, ai Medici per l’ambiente, ai Movimenti politici ed ai Partiti che hanno contrastato lo Sblocca-Italia in parlamento di mobilitarsi insieme per salvare il quesito per l’abrogazione parziale dell’art. 35 della Legge 133/2014 ed organizzare una raccolta di firme specifica che impedisca la costruzione di 15 nuovi inceneritori al centro-sud, come impianti strategici nazionali sottratti alle pianificazioni regionali, e la riconversione dei quaranta inceneritori del nord come impianti non più legati ai soli bacini regionali.

La nostra salute non è in vendita!

Il coordinatore nazionale,
Massimo Piras


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Le interviste ai coordinatori di «Ecomagazine» e «Legambiente»





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