14 dicembre 2014

Intervista al Gruppo 183


Il Gruppo 183 prosegue la riflessione sul dissesto idrogeologico lanciata da questo blog lo scorso 30 novembre, che ha visto il coinvolgimento del professor Paolo Arduini dell’Università di Pisa. Gruppo 183 è un’associazione senza fini di lucro con sede a Roma, costituita nel 1995 dall’iniziativa di ambientalisti, parlamentari e rappresentanti di Regioni, governi locali, dirigenti sindacali e d'impresa, che hanno messo a disposizione le proprie competenze per sviluppare proposte e interventi sulla gestione delle acque e del suolo, e in materia di rischio alluvioni. Prende il nome dalla legge di riforma ambientale e istituzionale per la difesa del suolo e la tutela delle acque (L. 183/1989, poi abrogata dal D.Lgs. 152/2006) e fa parte delle 17 istituzioni italiane segnalate dall'United Nations Convention to Combat Desertification per l’impegno nella lotta alla desertificazione. Per ulteriori notizie esorto a visitare il sito dell’associazione, Gruppo183.org, dove troverete schede dettagliate sui principali progetti realizzati o in corso d’opera. Tra le ultime iniziative segnaliamo l’adesione alla Coalizione per la prevenzione del rischio idrogeologico, nata a seguito della recente tragedia che ha colpito Genova (ottobre 2014). 
Desidero ringraziare il coordinatore nazionale Michele Zazzi, che con disponibilità e competenza ha reso possibile la stesura di questo contributo, valendosi dell’ottima collaborazione degli attivisti che da anni lo affiancano. Affinché la lettura risulti più agevole, essendo le risposte alquanto articolate, evito di trascrivere le domande, le stesse che sono state rivolte a Arduini nella precedente intervista, sintetizzandone il contenuto in calce alle diverse sezioni del testo.




[Considerazioni sulla tutela dell’ambiente per ridurre il dissesto]
La manutenzione e la cura del territorio assumono oggi un ruolo strategico, soprattutto se tradotte in presidio territoriale svolto dalle comunità locali, responsabili e garanti di un'azione utile per una politica di prevenzione dal rischio idrogeologico del territorio antropizzato. È indispensabile favorire interventi di manutenzione per garantire la funzionalità degli ecosistemi, attraverso azioni periodiche e diffuse perché a seguito dei cambiamenti climatici la manutenzione assumerà sempre più il ruolo d'intervento strutturale. 
Una valutazione obiettiva sul livello di coscienza dei cittadini sulla questione ambientale, e in particolare sulla tutela del territorio, non può essere univoca ma differenziata a seconda che la si guardi quando si esprima positivamente nelle sue varie e articolate manifestazioni pubbliche o negativamente nei suoi comportamenti individuali. 
Inoltre, le drammatiche perdite umane e materiali provocate negli ultimi anni nel Paese hanno fatto sì che la difesa del territorio dalle alluvioni e dalle frane diventasse forzatamente una delle emergenze principali nell'opinione pubblica. 
Nel secondo caso bisogna confessare che se solo si andasse a guardare il consumo di suolo per impermeabilizzazioni registrato in Italia, allora il giudizio necessariamente deve cambiare. Prova ne è il trend del consumo di suolo che vede una costante progressione negli anni. L'ISPRA certifica che la percentuale di suolo impermeabile (urbanizzato) sulla superficie nazionale passa dal 2,9% negli anni Cinquanta, al 5,4% nel 1989, al 7,3% nel 2012. Il 30% del consumo è dovuto alla costruzione di edifici e capannoni ed è noto quanto questa proliferazione di nuove costruzioni non si sia fermata in moltissimi comuni neppure di fronte a rigidi vincoli urbanistici o idrogeologici. 
Nelle condizioni date, per favorire la diffusione di valori ambientali e dell’attenzione alla difesa del territorio nell'opinione pubblica, bisognerà valorizzare esperienze preesistenti e sfruttare le nuove disposizioni introdotte in materia dalle norme europee. 
Tra le esperienze significative occorre citare tra le prime le azioni e le opere condotte dai consorzi di bonifica. Una larga parte del territorio italiano esposto a rischio idrogeologico (sostanzialmente le pianure interessate dai fenomeni di esondazione dei corsi d'acqua, di ristagno idrico e di alluvione) è tutelata da opere di difesa idraulica, consistenti prevalentemente in canali di drenaggio, idrovore, vasche di laminazione e di intercettazione del trasporto solido. La loro manutenzione è affidata, sulla base di una normativa che risale al 1904, ai consorzi di bonifica partecipati da tutti i proprietari di immobili che ricevono beneficio dalle suddette opere di difesa idraulica. Questa manutenzione, almeno in linea di principio, è a costo zero per i bilanci pubblici, dal momento che viene sostenuta dalla contribuzione dei proprietari consorziati. Ciò non toglie che nei confronti dei consorzi si debba operare una grande azione di trasformazione e riordino per recuperare grandi margini di inadempienze e renderli sempre più 
efficienti. 
La partecipazione del pubblico ai processi decisionali in materia di acque è prevista e incentivata a livello comunitario dalla Direttiva 2000/60/CE (art. 14) e a livello nazionale dal Decreto legislativo 152/06. Questa norma, come d'altronde molte altre della Direttiva, è stata ignorata dalle nostre autorità. Per la sua implementazione necessiterebbe di strategie di governance. A tal proposito strumenti efficaci di programmazione negoziata con gli stakeholders potrebbero essere i "contratti di fiume", già diffusi in molte nazioni europee, che stanno trovando anche in Italia un crescente interesse. Attraverso i contratti di fiume a livello di bacino o sottobacino è possibile supportare la pianificazione e programmazione all'interno dei distretti idrografici e integrare i piani e le norme sulla gestione e tutela delle acque con quelli per la difesa del suolo. Tali strumenti sono stati riconosciuti nel Collegato ambientale; ora vanno supportati a livello nazionale, oltre che distrettuale e regionale integrandoli e sostenendoli attraverso misure legislative e finanziarie che ne supportino le fasi di avvio, ne controllino e uniformino a livello nazionale la qualità dei processi. 
Una azione efficace di difesa del suolo da inondazioni e frane richiede ed esige una azione puntuale e capillare di manutenzione ordinaria dei versanti e del sistema idrografico affidata alla popolazione locale di collina e di montagna. In questa prospettiva non si può prescindere dall'attività degli agricoltori. Nelle politiche di Sviluppo Rurale alcuni dei presupposti di base per poter ottenere positivi risultati nella gestione del territorio e nella mitigazione del rischio idrogeologico sono: la definizione di pratiche agricole che diano effettivi benefici e sulle quali concentrare le misure dei programmi di sviluppo rurale; la formazione ed informazione degli agricoltori; l'affidamento da parte delle amministrazioni locali di piccoli lavori di ingegneria naturalistica. 

[A proposito della maggiore frequenza degli eventi alluvionali]
In merito al «continuo susseguirsi delle alluvioni»  (*citazione dal secondo quesito) che abbiamo vissuto nelle scorse settimane, va preliminarmente considerato che, in realtà, anche nei decenni trascorsi si sono frequentemente verificate tragiche sequenze di eventi alluvionali in località differenti, anche con drammatiche repliche, nei medesimi corpi idrici, in montagna, nei territori in pianura, o lungo le  coste.
È il caso, ad esempio, del Triveneto dove, proprio in conseguenza del ripetersi di alluvioni, che per diversi anni avevano colpito quel Distretto idrografico, nel 1907 una legge parlamentare costituì il Magistrato alle Acque per le province venete e di Mantova, dipendente dal Ministero dei Lavori Pubblici, con sede a Venezia, con il compito del buon governo delle acque pubbliche e del regime dei porti. La natura dell’Istituto era soprattutto tecnica, strutturata gerarchicamente, e si avvaleva di una rete distribuita di uffici statali del Genio Civile, generali e speciali, del Servizio idrografico e delle Opere marittime.  
Per oltre un secolo quell’istituto dimostrò una particolare efficienza e prestigio tecnico, tanto da essere di esempio per analoghe strutture speciali successivamente istituite in altri ambiti particolari del Paese (il Magistrato per il Po, nel 1953, l’Ufficio speciale per il Tevere e l’Agro Romano, l’Ufficio speciale del Reno, ecc.). La Commissione de Marchi, nel 1970, propose di estendere a tutto il Paese la costituzione di una decina di Magistrati alle Acque. Ma la proposta non ebbe seguito, soprattutto per il sopravvenuto decentramento di molte funzioni dalla Stato alle Regioni, tra cui quella della difesa del suolo, avvenuto a partire da quegli anni. 
Trascorso un ventennio di dibattiti e ripensamenti, finalmente nel 1989 il nostro Paese si dotò di un’importantissima riforma legislativa – la legge n.183 sulla difesa del suolo – che ha introdotto il concetto cardine del piano di bacino idrografico, ponendo così le basi per un nuovo percorso per le politiche dell’assetto idrogeologico ed il governo delle acque.
Con il trascorrere degli anni però, la legge si dimostrò via via inefficace e i suoi ambizioni obiettivi in generale non erano raggiunti. L’elenco degli eventi alluvionali accaduti stanno purtroppo a dimostrarlo.   
I piani di bacino si sono dimostrati strumenti troppo lunghi e articolati, con tempi di approvazione dell’ordine del decennio, e comunque strumenti di scarsa utilità ai fini della mitigazione del rischio idrogeologico e del governo delle acque. Le azioni indicate dai piani, faticosamente approvati, in genere non sono state attuate, non solo e non tanto per mancanza di finanziamenti, ma soprattutto per l’insorgere di altre complesse cause, quali l’opposizione delle popolazioni interessate dagli interventi strutturali previsti (casse di espansione, dighe, …), le sentenze conseguenti ad alcuni ricorsi amministrativi, la rimessa in discussione delle soluzioni indicate dai piani stessi, ecc. Non ultima la mancata approvazione, da parte della Conferenza delle Regioni, dei previsti programmi triennali degli interventi, fondamentali strumenti attuativi dei piani, da inviarsi al Ministero del Tesoro per il successivo inserimento nelle leggi finanziarie.
Un punto nodale dell’inefficacia dei piani di bacino ha riguardato la loro separazione dalla pianificazione urbanistica. Le prescrizioni dei piani troppo debolmente hanno inciso sulla pianificazione territoriale, di diretta competenza delle Regioni.
Più recentemente sono state numerose le norme che hanno modificato la legge 183, nel vano sforzo di un suo miglioramento. In particolare, a partire dal 2006, le “riforme” legislative (tra cui il Testo Unico dell’Ambiente D.Lgs. 152/2006) hanno avuto l’ambizione, spesso mal riposta, di confermare gli aspetti positivi della legge “madre” integrandoli con il recepimento delle Direttive comunitarie sulle acque e sulle alluvioni (Direttive 2000/60/CE e 2007/60/CE). Nei fatti le nuove norme, con l’istituzione del Distretti Idrografici, a tutt’oggi non ancora costituiti, hanno complicato notevolmente il quadro della governance, rendendo ancora più difficile la difesa del suolo nel nostro Paese. Il “successo” dei piani di bacino è andato via via ulteriormente riducendosi, sempre più dimenticati dalla politica, dai media, e dalla cittadinanza, che ne ha criticato soprattutto le scelte poco partecipate, mentre sono proliferate le politiche idriche e di difesa idrogeologica “fuori campo”.
Nel frattempo, negli ultimi decenni, il territorio è profondamente cambiato, a cominciare dai versanti montani, scendendo in pianura, fino ai litorali marini. Il “consumo” di suolo, l’abbandono della montagna, la cementificazione delle reti idrauliche e la mancanza della loro manutenzione, le incontrollate escavazioni di ghiaia dagli alvei, il sovra sfruttamento delle falde acquifere e la subsidenza, sono solo alcuni degli aspetti, ormai largamente conosciuti, di quanto è accaduto, cui si deve aggiungere il contestuale cambiamento climatico, che ha portato una diversa piovosità, l’innalzamento del livello marino, l’intrusione salina nelle falde acquifere, ecc. L’insieme di questi fattori ha aumentato inesorabilmente il rischio idrogeologico ed il rischio dello stato ecologico di tutti i corpi idrici del nostro Paese, sia in termini di probabilità di accadimento degli eventi, sia per quanto riguarda gli effetti che questi provocano per la vita e la salute umana, l’ambiente, il patrimonio culturale, l’attività economica e le infrastrutture. 
Di fronte all’incapacità di mettere “in piedi” un sistema valido di difesa del suolo, si è consolidata la capacità del “navigare a vista”, privilegiando il sistema della Protezione civile, svincolato dalle autorità di bacino e facente capo soprattutto alle amministrazioni regionali e decentrate, fondato sulle attività della previsione, della prevenzione e degli interventi urgenti per il ritorno alla normalità dopo il verificarsi di eventi emergenziali (alluvioni, siccità, ecc.). E purtroppo la logica dell’emergenza è diventata sistema, non si è cioè limitata alle sole situazioni calamitose.
Infatti, da alcuni anni, i diversi governi del Paese si sono dimenticati dei percorsi previsti dal quadro normativo ordinario della difesa del suolo (fondato sui piani di bacino) ed hanno invece adottato altri schemi gestionali, fondati sulla nomina di commissari governativi straordinari (i presidenti delle regioni) e degli Accordi di programma Ministero-regioni, finalizzati all’attuazione di interventi urgenti e prioritari individuati e quantificati dalle stesse regioni. 
A tale riguardo recentemente il Governo ha istituito la Struttura di Missione contro il dissesto idrogeologico che ha confermato tale percorso anomalo, e proprio in questi giorni ha proposto un piano straordinario per il periodo 2014-2020 per interventi per la sicurezza nelle città e aree metropolitane per oltre un miliardo di euro. Tutto ciò senza spiegarne la compatibilità con i piani di gestione del rischio di alluvioni, previsti dalla Direttiva 2007/60/CE, per il periodo 2015-2021 che le autorità di bacino presenteranno entro quest’anno.
Nemmeno il Parlamento finora è riuscito ad imporre una svolta a questi singolari percorsi anomali, pervenendo ad una riforma legislativa da troppi anni attesa

[Considerazioni a margine della cultura del cemento]
Per fronteggiare subito la cementificazione, bisognerebbe almeno approvare il disegno di legge n. 948 proposto dall'ex Ministro delle Politiche Agricole Mario Catania, che, quantomeno, si prefiggeva l'obiettivo di contenere il consumo di suolo e incoraggiava la ricerca di soluzioni innovative capaci di guardare positivamente alle sfide future. Dovremmo quindi avviare una grande stagione di rigenerazione urbana, cioè un cambiamento del ciclo edilizio e una riqualificazione energetica e antisismica del patrimonio edilizio esistente. Gli strumenti di governance, le intelligenze e le tecnologie per un New Deal dell'ambiente, del paesaggio e dei beni culturali in Italia sarebbero allora possibili. Centri di ricerche e università, associazioni, movimenti e singole intelligenze e, non per ultime, le parti più avanzate della pubblica amministrazione potrebbero diventare i protagonisti di questo riscatto. Sembra, però, mancare – e questa è l'aspetto negativo – una forte volontà politica. 
Secondo l'Ispra, negli ultimi tre anni abbiamo coperto di cemento 720 chilometri quadrati di suolo. Nemmeno la crisi economica quindi ha fermato questa cementificazione, che devasta l'Italia senza neanche risolvere l'"emergenza casa" che riguarda ben 650 mila famiglie che per reddito e condizioni avrebbero diritto ad un alloggio di edilizia popolare. 
A rendere più complesso il discorso occorre ricordare che in queste materie si incrociano competenze di Stato e regioni, alcune esclusive, alcune concorrenti e altre invece trasferite alle regioni, come quelle in materia di urbanistica. Ma sommariamente anche gli enti locali non sono esenti da colpe, anzi i comuni e le regioni hanno spesso adottato "piani casa regionali" e piani regolatori generali discutibili che hanno favorito la cementificazione dell'ex Bel paese. 
Come abbiamo visto in questi giorni l'incrocio tra consumo di suolo, dissesto idrogeologico e cambiamenti del clima è un mix esplosivo, che richiede interventi di messa in sicurezza urgenti ma anche, e soprattutto, un'idea di programmazione e coordinamento delle funzioni e delle competenze che sembra scomparsa dall'orizzonte ideale delle attività dello Stato centrale. 
Sembra però che con la conversione in legge del Decreto "Sblocca Italia" le scelte del governo Renzi siano state altre. I sostenitori dello "Sblocca Italia" usano spesso parole come modernità e progresso ma il modello è quello vecchissimo del boom edilizio degli anni '60. A questo proposito Salvatore Settis parla di una "modernità invecchiata", quasi un ossimoro per descrivere una forma di arretratezza culturale non percepita dalle classi dirigenti che si ostinano a proporre soluzioni non percorribili dal punto di vista sociale, economico e ambientale. Agricoltura, città, biodiversità, bacini idrici dovrebbero stare insieme in un disegno che garantisca gli interessi della collettività e non divenire terreno di rapina per vecchi e nuovi speculatori. 
Volendo entrare nel merito, si può affermare che diverse previsioni del Decreto Sblocca-Italia potrebbero diminuire la capacità di controllo delle amministrazioni nel governo dell’interesse collettivo. Con il capo IV, “Misure per la semplificazione burocratica”, rafforza l’influenza del sistema finanziario sulle grandi opere e sulle città. Nel Capo V, l’articolo 17 prevede un “permesso di costruire convenzionato”, in cui occorrerà prestare attenzione ai modi secondo i quali avverrà il negoziato tra costruttore e amministrazioni. Inoltre, le opere di urbanizzazione, diventano eseguibili per “stralci”, con tutte le difficoltà relative a un processo amministrativo che diventa più complicato e probabilmente sfilacciato nel tempo. L’articolo 25 “semplifica” (cioè di fatto rimuove, dice Settis) ogni autorizzazione per “interventi minori privi di rilevanza paesaggistica”, governati ormai dal silenzio-assenso, sicuramente facilitando le prassi di trasformazione del territorio.
L’articolo 26 stabilisce che i comuni possano presentare un proprio progetto per cambiare destinazione agli immobili non utilizzati appartenenti al demanio dello Stato. Questa variante urbanistica consente all’Agenzia del Demanio di vendere, dare in concessione o cedere il diritto di superficie di quell’immobile o complesso immobiliare. I Comuni potrebbero, quindi, essere incentivati a svendere il patrimonio pubblico. Con l’articolo 31, infine, si permette ai proprietari di alberghi, di ottenere il cambio di destinazione urbanistica automatico anche per le strutture ricadenti in zona agricola. Anche in questo caso con un grave rischio per le delicate strutture territoriali nelle quali saranno inserite funzioni non necessariamente compatibili con il contesto.
Concludiamo la risposta con una domanda provocatoria. Come è possibile contrastare il dissesto idrogeologico e i cambiamenti climatici se neppure il Governo sembra sostenere con convinzione politiche di forte contrasto ai processi di nuova cementificazione e consente, con eccessiva disinvoltura, l'estrazione dei combustibili fossili sul nostro territorio? 

[Sui danni economici prodotti dal dissesto, che superano largamente il costo della messa in sicurezza del territorio, e sulle controversie legate alle  grandi opere
La risposta a quesiti di questo genere non è semplice. Ci pare di poter distinguere due aspetti prevalenti.  Il primo attiene alla difficoltà di portare a compimento interventi di natura preventiva rispetto a probabili eventi calamitosi di cui si conoscono con certezza le cause. Il dibattito che si è attivato in queste settimane in conseguenza dell'ennesimo disastro provocato dalle esondazioni nella città di Genova testimonia in maniera abbastanza chiara la situazione in essere. Complicazioni inerenti all'assegnazione dell'appalto delle opere pubbliche, difficoltà nella messa in atto dei lavori, aleatorietà dei tempi e delle responsabilità nella conduzione del processo attuativo, costituiscono fatti tristemente noti per i quali non si è finora riusciti a trovare una soluzione radicale in tempi sufficientemente brevi. La recente istituzione e attivazione della Struttura di missione contro il dissesto idrogeologico e per lo sviluppo delle infrastrutture idriche presso la Presidenza del  Consiglio, nelle mille indeterminazioni, ha almeno il merito del tentativo di razionalizzazione a livello centrale della miriade di iniziative in corso sul territorio nazionale, perlomeno sul piano della gestione della spesa e degli investimenti approvati, in molte occasioni, da lungo tempo. Corollario a questa situazione è un aspetto ancor più problematico da risolvere e che attiene ai modi secondo i quali selezionare i nuovi interventi per la messa in sicurezza del territorio alla luce delle segnalazioni "storiche" dei piani per l'assetto idrogeologico, elaborati e approvati nello scorso decennio, e alle nuove domande che nascono nell'attualità. Gli interventi previsti nei piani assommavano a circa quaranta miliardi di euro a cui occorre aggiungerne con ogni probabilità altri venti. Si tratta evidentemente di cifre imponenti, che potranno essere rese disponibili secondo un impegno temporale, nella migliore delle ipotesi, non inferiore ai vent'anni. Diventa, quindi, fondamentale la selezione delle priorità secondo una prospettiva nazionale o almeno dei distretti idrografici istituiti ai sensi delle direttive europee. Questa attività di selezione è compito specifico della pianificazione di bacino idrografico e, nello specifico, dei piani di gestione del rischio alluvioni dei distretti che le autorità di bacino nazionali, in collaborazione con le regioni interessate, stanno provvedendo a elaborare. La sfida sembra prospettarsi in questi termini: quanto riusciranno ad essere autorevoli e convincenti tali piani e come riusciranno a raccogliere il più ampio consenso ai fini della selezione delle priorità di intervento negli anni a venire? Come reagiranno le comunità locali di fronte al lungo periodo transitorio necessario per vedere finalmente i risultati tangibili degli interventi prospettati? Quanto le amministrazioni di vario ordine e grado saranno in grado di accompagnare gli interventi di messa in sicurezza del territorio con parallele e importantissime attività, cosiddette non strutturali, di limitazione preventiva delle condizioni di rischio nonché di allertamento ed educazione alla convivenza con il rischio stesso? 
Il secondo punto riguarda la programmazione dei grandi investimenti infrastrutturali del nostro Paese e per certi versi è tema un poco distante dagli interessi specifici del Gruppo 183. È fuor di dubbio che le grandi opere solletichino le aspettative dei decisori politici, dei grandi investitori e anche delle comunità locali interessate, oltre a rivestire un valore simbolico per un'intera comunità nazionale sovente mortificata dall'incapacità storica di portare avanti grandi programmi pubblici di natura strategica. Spesso derivano da accordi internazionali non semplici da risolvere. Altrettanto di frequente hanno già visto ingenti finanziamenti della fase progettuale se non di attività già espletate. Proprio per la loro natura e gli interessi coinvolti hanno dato luogo a dibattiti assai controversi, nei quali i saperi esperti non sono risultati dirimenti. 
La questione può allora essere affrontata da un altro punto di vista. Come mai non si è riusciti ad affiancare alla proposta dei grandi progetti e delle grandi opere una altrettanto "grande" e molto più meritoria opera di manutenzione generalizzata del nostro territorio. Perché ci si è dimenticati così in fretta della necessità di un presidio territoriale dell'attività antropica sul territorio montano e rurale? È fuor di dubbio che, tradizionalmente, azioni amministrative in tal senso non abbiano costituito lo scenario preferito dai decisori, proprio per la difficoltà intrinseca delle scelte da farsi e per la mancanza di un sicuro "ritorno" di natura politica delle posizioni assunte. 
Più difficile da comprendere è la sostanziale incapacità di risposta della società civile nel suo complesso, fatti salvi i soliti noti nel mondo delle associazioni, della ricerca e delle amministrazioni settoriali che istituzionalmente si occupano di questi temi. Senza voler sconfinare in questioni antropologiche probabilmente improprie, si possono ricordare un certo fatalismo nei confronti degli eventi naturali, la difficoltà nel trovare una rappresentanza politica adeguata rispetto a questi temi, addirittura una certa complicità derivante dal vantaggio economico di alcune, pur scellerate, scelte di localizzazione di insediamenti e attività. 
Sembra comunque che la rilevanza e la quantità dei problemi messi in gioco dal dissesto di natura idrogeologica non siano mai riuscite a raggiungere quella "massa critica" necessaria per coinvolgere in maniera diffusa i decisori e le comunità insediate, nonostante, il terribile stillicidio della perdita di vite umane. Addebitando le cause dei fenomeni, in maniera a volte davvero vergognosa, alle mutate condizioni di natura, come se l'insipienza nella gestione pubblica del territorio e la connivenza dei tanti soggetti interessati al proprio particolare non fossero quasi sempre l'elemento scatenante dei danni e dei lutti. Probabilmente la vera condizione di eccezionalità nel dispiegarsi degli eventi. 

[La gestione dell’emergenza sul territorio]
La sensazione è che, nonostante i limiti noti e le derive dell’ultimo periodo in cui vi era a capo Guido Bertolaso, la Protezione civile italiana abbia quasi sempre dimostrato una significativa competenza tecnica per la prima emergenza, soprattutto per i grandi eventi calamitosi successivi al terremoto dell’Irpinia. Più discutibili le scelte effettuate per la risposta di medio periodo, comunque molto condizionate dalle decisioni politiche. Inoltre, anche la Protezione civile nazionale, come lamentato a più riprese, sembra aver subito negli ultimi tempi il mancato sostegno da parte degli organi di governo, diminuendo in maniera assai significativa la sua rilevanza e la efficacia.
Molto più articolata è la situazione della Protezione civile a scala locale, dove la capacità di risposta e le competenze presenti sono molto differenziate nel territorio nazionale. Ed è su scala locale che diventa necessario essere in grado di dare una risposta adeguata alle conseguenze provocate dai fenomeni di natura idrogeologica. 
È, quindi, molto difficile suggerire azioni con carattere di generalità. Sicuramente occorre ribadire ancora una volta che l’unico modo per riuscire a rendere meno critica l’azione immediatamente post-evento è mettere in campo un rigoroso programma di azioni di natura preventiva atte ad ottenere la maggiore consapevolezza possibile delle popolazioni insediate. Indubbiamente, in molti casi, è necessaria la realizzazione di opere per la diminuzione del rischio presente. Ma a fianco di questi interventi devono essere promosse regole per il corretto uso del territorio e il giusto comportamento durante gli eventi, compresa la corretta valutazione dell’allerta. Risulta, inoltre, necessario prevedere una migliore forma di coordinamento e responsabilità della catena decisionale a carattere locale, tra soggetti istituzionali – le amministrazioni interessate – e il composito mondo delle associazioni volontarie, in modo tale da evitare carenze organizzative e vuoti di direzione nei momenti immediatamente successivi all’evento.
In molte parti d’Italia non si parte da zero, occorre allora essere sempre più puntuali ed efficaci nelle procedure già stabilite. E, come sempre, occorrono i fondi relativi per tenere in vita o prevedere ex novo le strutture necessarie.

(Intervista di Claudia Ciardi)

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