Paolo Zignani l’ho conosciuto nel 2013, girando in rete alla ricerca di siti e pagine affini con cui scambiare esperienze culturali. Il mio blog aveva aperto i battenti appena un anno prima ed era in una fase per così dire di assestamento della propria linea editoriale. Trovarmi davanti una persona di buon senso, pacata, animata da sincera passione per il proprio mestiere di giornalista, creò immediatamente le condizioni per riflettere sul mestiere di tradurre e l’idea di traduzione, prendendo le mosse da quel saggio immenso che è Die Aufgabe des Übersetzers (Il compito del traduttore) di Walter Benjamin. Gli sono molto grata per aver stimolato in me quella scrittura e averla poi ottimamente introdotta, ospitandola nel suo spazio.
Paolo ha una conoscenza profonda del territorio in cui lavora e un occhio di riguardo a quanti sono stati messi in seria difficoltà dalla crisi economica, ma più in generale da quella che si potrebbe definire una pesante incuria sociale, frutto di molte dissennatezze, di cui l’economia è solo una delle tante parti in causa – certo rilevante ma non così centrale. Negli ultimi anni si è creata una pericolosa sponsorizzazione della crisi che ha secondo me esagerato i danni reali da essa derivanti. Laddove si sarebbero potute creare condizioni di maggior collaborazione, dove si sarebbero potute reperire forze e energie per limitare i danni e forse avviare nuove iniziative per il recupero di persone e luoghi, ci si è abbandonati invece a una rassegnazione, in molti casi cialtrona e furbesca. Troppo in fretta si è radicata l’abitudine di dire: «C’è crisi, non possiamo venire incontro alle vostre richieste». Questa dinamica è molto pericolosa, in quanto estremamente mistificatoria. Nel caso della generazione cosiddetta “entrante”, i più giovani per intendersi, ha prodotto e sta producendo dei danni colossali. Il patto generazionale, rotto per paura e biechi egoismi, con eccezioni troppo rade per invertire la tendenza, ci ha oltremodo indebolito. Se le competenze, in ogni ambito della società, non passano dai più anziani ai più giovani, se non vi è volontà vera di insegnare, di coinvolgere, di seguire, di creare una massa critica alla quale i singoli contribuiscano ognuno per le proprie capacità, l’impoverimento generalizzato sarà prima di tutto un fatto culturale, indipendente dalla crisi economica. E questo, nel sistema dello slogan, del chi si ferma è perduto, dell’essere duri e puri anche quando il tetto della casa ti frana addosso, sta già avvenendo.
In una delle numerose lettere che ci siamo scritti Zignani si esprimeva così: «Slogan, mistificazioni, falsità e depistaggi sono utilizzati in modo pesante e insopportabile. Non ho mai sentito tanto forte il bisogno di chiarezza, coerenza e informazione come in questi anni così difficili e sofferti da troppe persone. Per molti la vita quotidiana è drammatica, per fragilità economica e situazioni ambientali dolorose, solitudine, emarginazione, incertezza, precariato: manca però secondo me la consapevolezza di un disegno complessivo che metta le persone in condizione di sentirsi efficaci.».
Invito a visitare il suo blog «Quaderni corsari», titolo dal sapore pasoliniano che ben sintetizza le difficoltà e le contraddizioni vissute ogni giorno, nel confronto sempre più teso e complesso tra città e periferie, tra centro e margini, tra rappresentati e dimenticati, tra politiche fatte sul territorio e politiche di palazzo. Per questo le problematiche raccontate da Paolo Zignani escono dalla loro appartenenza geografica, divenendo una fotografia di tutto il paese, e in generale di una globalizzazione sempre più lontana dall’essere umano.
Non sono un’entusiasta dei paralleli storici perché credo portino con sé il rischio di forzature e banalizzazioni degli eventi oggetto di paragone. Nell’attuale crisi economica c’è chi ha voluto scorgere delle affinità con la grande crisi del ’29 e, nel caso specifico della Grecia, si ragiona sugli aspetti comuni con la situazione tedesca nel periodo di Weimar.
Inoltre con il 2014 sono entrate nel vivo le commemorazioni legate al centenario della prima guerra mondiale. Anche in questo caso i paralleli con i conflitti e i problemi che riempiono la nostra attualità sono fioccati da ogni parte, a costo di non poche esagerazioni. Volendo valutare le effettive similitudini dei tempi e certi eccessi fatalisti cosa ti sentiresti di dire?
Le forme di stato e di governo democratiche esistono perché la cultura faccia accettare le forme economiche come necessità indiscutibili. I mass media e i giornalisti esistono per questo: far capire che la guerra è vita e la miseria è disgrazia. In Grecia però ci sono cassiere di supermercato che non fanno pagare la spesa a chi non ha soldi e casellanti che non fanno pagare il ticket dell’autostrada. In Italia ci sono insegnanti in pensione che fanno lezione gratis ai figli degli immigrati o delle famiglie italiane in difficoltà. La prima guerra mondiale è stata una scelta autoindotta da poteri economici e governi, che poi hanno dovuto giustificarsi con i “quaderni colorati” per dire ai cittadini che ogni Stato è intervenuto per legittima difesa. Gli eserciti sono stati costretti a combattere, i popoli non volevano la guerra. Nella Repubblica di Weimar certa propaganda puntava sulle convinzioni di un popolo legato alla memoria dello Stato tedesco forte, imperiale e umiliato nella Grande Guerra. Oggi i cittadini possono autorganizzarsi per iniziative sociali o imprenditoriali senza bisogno di affidarsi a grandi leader. Per questo ho fiducia. Stato e forze economiche nulla possono senza lavoratori e cittadini che dispongono dell’infinita forza creativa della libertà.
Dalle più recenti analisi economiche emergerebbe una ripresa, seppur fragile, ma con dati di disoccupazione nell’Eurozona ancora allarmanti. Inevitabile pensare al fatto che in un contesto del genere il divario sociale interno non possa che crescere. In base alla tua esperienza sul territorio come la vedi?
Conosco giovani laureati italiani che per anni e anni guadagnano poche centinaia di euro al mese, un terzo delle pensioni da 1.400 euro dei loro genitori, e madri di famiglia immigrate costrette a orari di lavoro stressanti per 500 euro al mese, mentre non hanno soldi per pagare farmaci e alimenti ai loro figli malati d’asma. Faccio interviste in case popolari fatiscenti dove le bollette sono spropositate rispetto ai redditi. Lo stato sociale dipende dai bilanci pubblici, ma i prezzi di materie prime come il petrolio sono imposti dal venditore, come i Paesi dell’Opec, e quindi dalla politica energetica statunitense. La ripresina, in questo capitalismo assetato di crisi strutturali e riforme incessanti, sarà accompagnata dall’ennesimo rinnovamento delle aziende italiane che vogliono maggiore redditività e forza nei rapporti con la concorrenza europea: i “garantiti” saranno sempre meno. Un bilancio statale migliore dipenderà, visti gli orientamenti, da una spesa selettiva e classista per il welfare, la sanità e la scuola. Allora chi può, chi ha energia morale e carattere, tempo, passione, partecipi a iniziative come quelle delle brigate di solidarietà. Crediamo nello stato sociale? Facciamolo come possiamo tra di noi: le istituzioni oggi hanno scarso potere e non abbiamo grandi statisti. Non provo sfiducia nella politica italiana: la vedo debole. Chi può osare strategie controcorrente sono i cittadini.
A meno di tre ore di aereo dall’Italia sono in corso due conflitti devastanti: Siria e Ucraina. La barbarie dell’Isis si intensifica con una velocità spaventosa. L’Ucraina è spaccata in due e vittima dei troppi tentennamenti dell’Europa che in politica estera, come in altri casi, fatica così a trovare una linea unitaria e, dunque, a dare continuità al proprio agire. Come valuti il ruolo dell’UE in entrambe le situazioni?
L’Europa è influente solo sul lungo termine, non ha gli strumenti per imporsi. Bismarck quando non faceva guerre [le guerre bismarckiane furono tre, dal 1864 al 1871, con cui venne realizzata l’unificazione della Germania] siglava trattati, sempre in nome di uno Stato nazionale molto forte e a servizio della sua espansione economica. La politica estera tradizionalmente si è fatta avendo un esercito alle spalle, tuttavia si può cambiare.
Quel che possiamo fare è partecipare a iniziative come la proposta di legge per una difesa non violenta. Pare utopia, sì, però è pragmatico attivare azioni di pace in zone di tensione per prevenire guerre e conflitti. Non è più tempo di protestare e basta, si può entrare in azione ciascuno come può. Possiamo discettare sull’estremismo islamico e lo sfruttamento abnorme dell’Africa nei secoli. Meglio, nel frattempo, sostenere progetti culturali ed economici nei territori di crisi. La Russia poi non va demonizzata e isolata. Meglio fare affari e scambi culturali. Un po’ di pragmatismo smonterebbe decenni di contrapposizioni ormai inammissibili.
Prendo spunto da una riflessione di Roberto Cotroneo che in un suo recente contributo per il «Corriere della Sera» ragiona sulla percezione dell’immagine nella contemporaneità: «La nitidezza è un’invenzione culturale non un traguardo tecnologico. Non solo i sogni più intensi non sono nitidi, e non lo sono i film più poetici, e non lo sono i fotografi geniali. Ma la nitidezza viene scambiata il più delle volte come realtà e il dettaglio come verità».
Mi pare un affondo interessante sulla mistificazione in cui ci dibattiamo. Vorrei un tuo parere.
La nitidezza dell’immagine non può sostituire la visione dell’essenza. Solitamente la conoscenza viene insidiata e minacciata da operazioni di conquista dell’ovvio. Contro l’oggettività della produzione tecnologica artificiosa, che seduce e sottomette, e contro la datità del banale che s’insinua passando inosservata, vale ancora l’alternativa dell’epoché [in greco antico: “sospensione”, in ambito filosofico “sospensione del giudizio”] fenomenologica. Mettiamolo tra parentesi questo mondo fatto di informazioni ossessive, propaganda martellante e nebulose di banalità. Lo sguardo che osserva, il soggetto che descrive con accuratezza, l’attenzione mirata alla conoscenza sono indispensabili: la fenomenologia presuppone una libertà che produce sapere partecipato, non intuizioni ermeneutiche individuali, geniali e isolate. Si coglie nelle parole di Cotroneo un riferimento alla poetica del Leopardi, il quale infatti era un genio della poesia che suggerisce, tratteggia ed evoca ma anche un razionalista demistificatore, un intellettuale che demoliva le illusioni costruite da borghesi e gazzettieri due secoli or sono, un pensatore duro, aspro, libero e aggressivo, non un venditore di prodotti commerciali: non lavorava su commissione per il mercato.
Mi collego alla domanda precedente per qualche considerazione finale sul potere dello slogan nella nostra cultura. In qualità di addetto all’informazione trovi condivisibile questo pensiero? E, in caso, come pensi si possa invertire tale tendenza?
Voglio dare una risposta ampia sull’uso di slogan nella politica in particolare, in quanto altri ambiti di conversazione e comunicazione, come l’intrattenimento, vi sono connessi e ne risentono, anche se drammatizzano, commentano o fanno umorismo su fatti di cronaca di cui la politica indirettamente si occupa perché legifera. La soggettività politica vuole autolegittimarsi tramite un consenso generato artificialmente dai mass media, usando tecniche di produzione di realtà fittizie: un vizio causato dalla cittadinanza debole e minimalista di questi tempi e dalla politica dotata di procedure fragili e priva della volontà di dare un indirizzo all’economia e ai comportamenti sociali, bensì protesa a rispettare normative e obiettivi di bilancio con scadenze stringenti. E dire che il primo mass media è la persona che parla e comunica quotidianamente con gli altri. Il corpo proprio, il comportamento, la parola sono strumenti di comunicazione, e in eventi come un corteo dimostrano la loro efficacia: il consenso diretto è però oggi quanto mai non solo mediato bensì tendenzialmente sostituito con tecniche mirate. Slogan, parole guida e immagini suggestive vengono usate a questo scopo, imposte dall’esterno del discorso che invece va sviluppato corrispettivamente alle esperienze vissute. Al giornalista viene così offerta una cornice di senso alla quale si chiede di adeguarsi introducendo varianti irrilevanti perché collabori a una produzione di consenso mai legittimata. Politici e amministratori, di governo o opposizione, costruiscono così un racconto fondato su un sapere comune, radicato negli insegnamenti degli educatori e nelle convinzioni più scontate e indiscusse (una Lebenswelt culturale ma spesso inconsapevolmente sedimentatasi) e inseriscono nel linguaggio regolato da convinzioni indiscusse alcune parole guida che instillano paura o speranza, cioè sentimenti così forti che, una volta evocati, possono rendere controllabile l’opinione pubblica. In questo modo sui mass media, grazie alla debolezza giuridica e contrattuale del giornalismo, passano per legittime strategie politiche mai approvate se non da uomini di vertice. La politica stessa è uno strumento di costruzione del consenso e della legittimità, ed è utilizzata palesemente dalle forze economiche prevalenti. Il mondo arabo e islamico di solito nemmeno arriva a essere conosciuto e compreso, sostituito e sequestrato da etichette inaccettabili e strumentalizzazioni sfacciate. Quindi non resta che raccontare le storie e esperienze degli immigrati quando i temi d’attualità lo rendono utile, connettendo vicende ed eventi inseriti in settori che pur restando distinti devono far parte di un disegno (welfare, economia, ambiente, politica, religione). I cittadini italiani, ogni giorno, d’altra parte hanno a che fare con islamici, persone non religiose di lingua araba, lavoratori africani: l’integrazione quando avviene è spontanea, non imposta; poi diventa storia.
(Intervista di Claudia Ciardi)
(Intervista di Claudia Ciardi)