Giacomo Trinci l’ho incontrato in un caldo pomeriggio di due anni fa nella libreria di Via dell’Ospizio, a Pistoia, dove era atteso per un reading. A tenere banco tra i partecipanti era l’ultima sua raccolta, un grande volume appena pubblicato da Nino Aragno, Inter nos. Sebbene partecipassero anche altri ospiti, tutti aspettavano “il poeta”. Quando l’ho visto affacciarsi sulla strada, con quel suo passo cadenzato e senza fretta, il libro in mano, dondolante lungo il fianco, quasi appendice ritmica della sua persona, mi è apparso subito l’incarnazione della semplicità. Impressione che ho avuto confermata nel nostro breve scambio di parole, di cui ricordo principalmente, oltre e più delle parole, la straordinaria capacità di Giacomo di registrare oscillazioni e vibrazioni del proprio interlocutore.
Allora avevo letto soltanto, divorandola, la silloge pubblicata da Via del Vento edizioni, La cadenza il canto, dove il prodigio sonoro del suo verso mi si era prepotentemente rivelato. Si è trattato infatti di una vera e propria irruzione musicale, che ha spazzato via, nel mio caso, i paludamenti di troppa prosa smerciata come poesia, inaridita alla fonte perché priva di studio metrico e linguistico, per giunta appesantita da una concettosità che alla fine non è né dotta né autentica. Giacomo Trinci ha costituito per me una sorta di azzeramento, una dinamo in grado di catalizzare i modelli (Dante, lo stilnovo, Leopardi, Eliot, Pound) e renderli al lettore come ‘voci sole’, lasciandoli implodere nella tessitura dei versi, creando continue intersezioni tonali, frizioni, collisioni come se stesse lavorando a un nuovo alfabeto poetico. In questo moto profondamente disincarnato e disincantato, la sua poesia tende a una dizione pura, ma non in quanto assoluto nettato dalla sporcizia del quotidiano, al contrario come scheggia che in quel fango vuole incagliarsi, perché solo lì potrà scavare il mondo in via regressiva, restituire la parola a se stessa, tornare a una spontaneità di voci e accenti.
Quelli che di primo acchito risultano al lettore accostamenti improbabili e spiazzanti, sono invece ritualmente funzionali a uno svelamento, che nell’intimo del poeta corrisponde a una sottilissima trama di salvezza. Così infatti leggiamo in uno dei suoi testi che io considero una specie di Ars poetica: «Benedetto il parlato,/ che volgare sia volgo, e mi rivolgo/ a tutta quella gente che verrà,/ verrà più tardi, ai giovinetti vecchi/ che sapranno, al popolo venturo,/ che non saprà più prosa ma poesia,/ che non sarà più mia ma nostra».
Parola rimasticata dalla gente, parola viva di gente e del loro esistente, parola originale, che è proverbio, filastrocca, motteggio, canzonetta, bestemmia. Verbo che si coniuga e si disfa, rumore di fondo della sua terra desolata «tutto ancora nel guanto della vita/ chiuso rinvolto aperto a mille forme –/ materia madre che mi ti disfai/ rifai continua la tua stessa via/ tutto è ancora le tempie il fiato il cuore», trapasso di corpi, dialetto dell’infanzia, ricordo opaco che sovverte il tempo. A questi incroci sta il poeta, apparentemente defilato ma vigile sulla barricata, pur stanco ma lucido, lascia che le sue dita scorrano in cerca di commessure, spiragli, di vuoti dove ceda la materia, in cui sappia insinuarsi «un elemento estraneo che, straniero,/ guarda in tralice e luce,/ splende sinistro e torvo di diadema».
Poesia di delicate affilate giunture, di insinuazioni e annunciazioni, di metamorfosi incompiute, repentinamente interrotte dagli umani scotimenti; in queste faglie ancor più si solleva l’agra falsità nella quale sbatte la nostra epoca, cui Trinci non risparmia vigorosi affondi.
Inter nos è ciò che sta tra noi, che ci lega e per questo immancabilmente ci disgiunge. La preposizione latina indica lo stare in mezzo a qualcosa, la relazione, la reciprocità, la durata ma anche la misura di un intervallo di tempo, che delimita e separa due eventi. Dunque uno stare dentro le cose, partecipandovi, ma anche uno stare tra le cose, destinati alla sospensione e all’attesa.
Non sono sfumature di poco conto in un poeta che mostra una grande devozione per il latino, nella sua qualità di “pre-lingua” e dunque di strumento naturalmente predisposto al discorso evocativo.
E ciò ha a che fare ancora una volta col grado tellurico della scrittura di Trinci, che è irrimediabile discesa dell’atto creativo alla sua radice («ad arte rifiutare l’arte è già poesia»), fino allo schianto che annulla il senso, che esalta e fonde ogni astrazione, in un’afasia universale da cui rigenerarsi. Il termine di paragone è sempre l’infanzia, non tanto come dimensione individuale ma come momento di resa incondizionata al vero: «mi rincresce di crescere fra gli òmini,/ sfuggendo te che crepiti che dòmini/ bambina mia, che luci disperduta!»
È una raccolta complessa, stratificata, magmatica, dove l’attualità entra col suo sconvolgente armamentario di lessici borsistico-bancari, con le sue carambole di emarginazioni e povertà. Trinci denuncia gli sconvolgimenti della crisi occidentale, riversandovi tutto l’impegno civile che lo caratterizza, e che in un poeta fa un’enorme differenza. Ma si spinge anche ben al di là del contingente, vedendo nell’aberrazione e nel parossismo finanziario, il definitivo distacco dell’uomo dal suo orizzonte sentimentale, unico appiglio alla profondità del vivere.
(Di Claudia Ciardi)
Giacomo Trinci, Inter nos
postfazione di Paolo Maccari,
Nino Aragno editore, 2013
è forse giunto il tempo di,
forse il punto si fa necessario, da mettere
quando,
si tira troppo la corda all’impiccato,
senza dire più niente,
forse è giunto il tempo di dire basta,
non si può che decidere di decidere,
di dire basta a questo sotterfugio di
tergiversare,
se tutto è già compiuto e basta,
non si può che tagliare il traguardo,
formulare il giudizio è già tanto, mi dico…
sulla cosa il nome, insomma,
apporre la firma sulla ciurma conciata,
fare basta con le versioni dei fatti,
per firmare contratti falsati sulle cose,
con le contorsioni dei veri nei falsi,
acrobati acuti dei circhi dei ciuchi dei cerchi
di fuoco,
e salti mortali nel vuoto,
è forse il momento venuto del vento,
di quel che divento domani, più vero,
che l’essere persuasi del mero morire
davvero,
o del rifiorire di tempo nel tempo,
poi punto sul vivo il momento che s’apre al
futuro,
sicuro di niente che sia di domani
l’annuncio,
siluro di mente che passa nel cielo e lo
segna…
******
Pensa tragico ma vive comico,
l’essere che più mi piace in assoluto,
il fratello che riconosco ed amo,
il mio più d’altri, il mio di tutti,
il più carnale dei fratelli,
somatico ridicolo, un po’ buffo
nel passo, zoppicante e incantato,
un poco idiota, vive clown
ma pensa serio, anzi no, proprio non serio,
pensa infante, pensa niente in mente,
è vuoto di ogni senso, è solo seno,
puppa, pulcinello pulcino,
pensa sciocco e vive serio,
anzi pensa pagliaccio e vive onesto,
pensoso con la cresta del gallo,
con la mesta ruga del senso sulla fronte
adulterino adulto, ben compreso,
ed è scemo, ma senza ingenuità,
col doppiopetto e qualche medaglietta
lì appuntata al posto giusto,
stagionato di stupido severo,
viene preso alla lettera, ruspante e rozzo,
è solo senso sobrio, è sua quaresima di sé,
senza mai festa.
porta la testa, inutile,
questo è quello che, di più, mi è estraneo,
che più mi aduggia infine…
******
******
- di cosa, questi, sono i segni, mi diceva nel
sangue
calata nel fango la lotta dell’uomo
di rosa si macchia la luce che rossa si squama
questi sono i legni che incrociano l’uomo
alla sete alla rotta infinita, mare aperto,
fontana di macchia, foresta che spessa
s’inoltra
la vita s’indovina fra spesse sue notti nel
chiuso
conflitto del sangue, di cosa questi sono i
passi
che vanno svaniti nel vento che soffia, o
verde…
verdissimo niente che vieni, ti prendo che,
forse…
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