Roberto Carifi,
Infanzia. Poesie 1980-1983,
Raffaelli Editore, 2012
Desidero spendere qualche parola su Infanzia, raccolta di versi di Roberto Carifi, lettore e traduttore dal francese ma anche studioso di Heidegger e di alcuni tra i maggiori poeti tedeschi del Novecento come Rilke e Trakl. Il volume, ristampato da Raffaelli nel 2012, contiene le poesie del primo Carifi, quello che all’inizio degli anni Ottanta tesseva la lezione onirica, quasi oracolare, del maestro Piero Bigongiari attorno alle sintesi rilkiane, soprattutto il Rilke vorticante delle Duinesi. Un connubio che in queste prove inaugurate nel 1980 e portate a maturazione tra l’81 e l’83, s’impone al lettore per la capacità di generare immagini ad altissimo voltaggio, spesso di non facile comprensione.
Per Bigongiari, grande “fabbro” della lirica italiana novecentesca, purtroppo ancora latamente misconosciuto presso i suoi connazionali, Carifi nutre non solo l’ammirazione verso l’artista che con generosità gli ha fatto da mentore, ma anche una profonda riconoscenza, consapevole che la parola del poeta di Via del Vento ha certamente tracciato più di un solco nel suo stesso universo lirico, aiutandolo a trovare la propria strada. Avendo avuto il piacere di sentirmi recitare da lui i versi bigongiariani, posso testimoniarne tutta la devozione, che ha peraltro contribuito anche al mio personale approfondimento di quel cosmo, influendo in parte, in ragione di alcuni simbolismi comuni, sulla mia traduzione di Georg Heym.
Infanzia, titolo derivante dalla sezione centrale del volume – centrale non solo perché sta esattamente in mezzo alle altre, ma perché ne è il centro tematico, giunto di trasmissione che scarica la sua forze evocativa al resto dell’architettura, è un viaggio regressivo ma non in senso temporale soltanto, è piuttosto il rifluire di un immaginario che desidera uscire da se stesso, dalle coordinate della propria esperienza e della storia in cui è stretto, per contemplarsi nella propria essenza, nel punctum originis, nel momento in cui la simbiosi col mondo è possibile, ma che in Carifi rimane sfuggente, chiusa nel dramma dell’abbandono, di una lacerante solitudine, una sorta di morirsi dentro. Emblematico il richiamo al tempo aoristo (nella lingua greca antica privo di connotazione temporale) che scandisce un frammento di vita, una camminata in una piazza, ma che più ancora sembra ritmare l’intero universo carifiano, in un monito a uscire dalla catena degli eventi, a cogliere “da fuori” un istante di se stessi: «Siate senza vergogna, esatti/ come quel punto che lacera la storia».
Poetica d’impianto complesso si diceva, che richiede non poche letture, innervandosi su modelli di per sé già criptici; molti dei passaggi di Carifi, a quelle sintesi commisti, vanno avvicinati lentamente, perché avvenga l’impercettibile travaso da cantore a ascoltatore. Nasce un senso di spossatezza nel visitare gli estremi della memoria, ricorre una nostalgia emorragica per una meta ardua da raggiungere e ancor più da sviscerare nell’elaborazione poetica.
Solitarie sere paesane, giardini immobili dove palpitano brandelli recisi di vita, stanze fredde, una madre cerca di vegliare sulla casa ma resta confinata nello strappo delle stagioni, istanti di gioco sui fondali della campagna, lumini che a stento si divincolano dalla notte e sembrano interrogarsi sulle assenze: «Dietro la casa il bosco/ un lumicino copre le macerie/ dove eravamo come due facce ritagliate/ il nulla quel puro suono ci vegliava/ lungo la scala mormorava il mese». Fantasticherie orfiche intridono i ricordi e virano al nero, l’ombra di Dino Campana si allunga di tanto in tanto sui panni carifiani. Così ad esempio la chiusa del testo appena citato, «e su volando nella piazza/ chi sanguinò dall’alto un albero stellato,/ mamma che voce ringhia nella notte» risente di un passo degli Orfici, «ed ecco sentiamo ansimare/ il cuore che ci amò di più!/ Guardiamo: di già il paesaggio/ degli alberi e l’acque è notturno/ il fiume va via taciturno…/ Pùm! mamma quell’omo lassù!».
Due costanti si aggirano per l’intera raccolta a rinserrare l’allegoria apolide e atemporale del poeta, la figura dell’angelo e quella del cortile, doni tratti l’uno da Rilke l’altro da Bigongiari. L’angelo è la creatura che non ha linguaggio (in sintonia con la totale immersione nell’infanzia che è in-fari, non ha cioè la facoltà verbale), lontano dalle passioni umane, tremendo nella sua perfezione, essere-luogo dove tutto cristallizza, annullandosi: «Si gettano nelle madri/ con i visini appesi alla mischia/ dove l’angelo li dissangua/ bocca senza battaglie che ordina di non crescere». Il cortile è il microcosmo che riflette il macrocosmo, spazio interiore ed esteriore che non ha centro e dunque neppure collocazione fisica, ma elemento nodale di ogni memoria: «come un’occhiata rossa/ nei cortili fingono gioia,/ stupore: viene per noi, sorella/ quella masnada scura…», peraltro vicinissimo alla clausola di Bigongiari «la morte è questa/ occhiata fissa ai tuoi cortili» (da Pescia-Lucca).
Quadro irrisolto, discesa nella stagione della vita che ancora non possiede la parola, dunque esercizio del dire quel che non è stato detto ma è stato, inattingibile alfabeto dell’essenza poetica.
(Di Claudia Ciardi)
Succhiano questo giallo di primavera
mentre si compie il giro
nel fracasso di ciglia
e le mani corrono dietro la nuca
finché la fanghiglia si alza,
piano, con un colpo di remi
invisibile
come una nascita… “urleranno dai pozzi
di marzo, stanati dalle prime rose”
animali trafitti nel sonno. Così fissano
i bambini, lucignoli nei cortili
di piombo e di lava
…quelle madri… chiameranno
da un capo all’altro, mischia
dei nati,
che fanno cenno dirigendosi
a Est
(Da Viaggi d’Empedocle, 1980)
Fuori dal tempo
Ciascuno ha un mistero, un ago
che lo ricuce al nulla
dove anche la notte è una luce
sventagliata sul mare
e vince
con decisione guerriera. Allora,
conficcati nell’esistenza,
guardano immobili la parola
che li trascina
fuori dal regno, di nuovo
spalancati nel marmo delle madri
sono l’orma che maledice
e fa tornare l’alba
(Da Infanzia, 1981)
Spalancati dalla luce
Forse un tempo aoristo è questa piazza
che ci raccoglie, piccoli passi
di chi farà a brandelli le stagioni
e ordina “siate senza vergogna, esatti
come quel punto che lacera la storia”
poi, spalancati dalla luce, abbiamo
un disastro da custodire
migliaia di anni in un dettato
che raduna le voci, i corpi
la pura forza gormogliata
dove il mondo è calmo
e lascia entrare il fuoco sulle terrazze
finché afferrati dall’amore stiamo,
sentinelle, sospesi all’angelo ferito
(Da Infanzia, 1980)
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