Il confronto tra Grecia e Germania che ha raggiunto il suo apice lo scorso luglio nei giorni delle frenetiche trattative sul debito ellenico, in realtà per rimandare la questione a data da destinarsi, ha rappresentato indubbiamente un punto di non ritorno nel dibattito politico europeo. Oltre a una sonora figuraccia di tutte le parti coinvolte. La Grecia invece, a quanto pare, ne è uscita piegata ma affatto sconfitta sul piano morale. Imponendo ai convenuti Ue un governo socialista, profondamente rinnovato rispetto ai vecchi oligopoli incarnati da Pasok e Nuova Democrazia, i due partiti che di fatto si erano divisi le zone di influenza nel paese, Alexis Tsipras, giovane fondatore di Syriza e volto nuovo della politica greca, è riuscito in un’impresa senza precedenti: liquidare in blocco la vecchia classe dirigente. Elemento importantissimo su cui non è minimamente caduta l’attenzione mediatica, presa dal terrore del populismo che ormai siamo abituati a sentire ovunque evocato, quasi sempre a sproposito. Uno sproposito che va a braccetto con la categoria del ridicolo e che rischia di rafforzare proprio il vero populismo, quello più irrazionale e violento, col quale gli attuali movimenti di protesta nati nello scenario europeo non hanno nulla a che vedere. Diversamente si seguita a infilare nel calderone gruppi anti-tutto, frange dei più vari e concitati estremismi, insieme a soggetti che tentano la via complicata dell’attivismo e della militanza politica per costruire discorsi alternativi e spostare gli equilibri di potere verso altre zone della società. Chi prova a intercettare il malcontento popolare, promuovendo una politica inclusiva e autenticamente rappresentativa non può ricevere la continua stigma verticistica di governanti e intellettuali. La pervicacia con cui ciò avviene tradisce interessi estranei al bene comune.
Torniamo al contesto europeo. Che Podemos, Ciudadanos (il Podemos di destra per dirla in maniera semplificata), Syriza, Movimento Cinque Stelle siano in ascesa è un dato di fatto. Entrano nei parlamenti, acquistano porzioni di consenso più ampie a ogni tornata elettorale. Sono forze che non legano tra loro, almeno al momento. Se si trattasse di amici si potrebbe dire che si conoscono per nome ma non amano frequentarsi. Ma la convergenza potrebbe anche verificarsi, chi lo sa. Piuttosto mi preme un altro discorso, diciamo riguardante la fenomenologia di questi gruppi. Nascono dalla crisi, ma non solo da quella economica come si ripete dappertutto, semmai da uno scivolamento sistemico, uno squilibrio innescato da molteplici fattori di crisi e perciò destinato ad avere conseguenze ad ampio raggio.
Non ho menzionato Front National e Lega non per autocensura fascistica – tra l’altro anche questa narrazione del fascismo immanente rischia di essere un nonsenso quanto il populismo – ma perché, insieme a ben più autorevoli commentatori, credo si tratti di ‘rimanenze’ di apparato che amplieranno la loro piattaforma di votanti se il quadro sociale insisterà a essere deteriore; tuttavia non avranno molte chance di affermarsi in via durevole all’interno della ricomposizione cui si accennava. Tra i due schieramenti c’è inoltre una differenza non da poco, che l’alleanza in sede Ue si sforza di mascherare. Mentre Marine Le Pen ha come ipotetico referente l’insieme dell’elettorato francese, del resto il patriottismo è in Francia un argomento storicamente molto forte, Salvini ha un vizio di forma che non potrà superare nonostante ne inventi di tutti i colori, l’origine settaria e territoriale della Lega abbracciata all’ampolla padana. Inoltre il supposto nazionalismo italiano non sarebbe spendibile come collante, non almeno nella misura di quello francese.
L’opinione pubblica delle diverse latitudini, e in Italia con accelerate ancora più brusche, ha già dimostrato di prendere a scorno un certo modo di fare che la indora per poi alla prima curva della strada tradirla in quel po’ di amor proprio che ancora le scorre in corpo; riguardo l’italiano medio, il limite invalicabile sta nell’essere platealmente ritratto come impecorito o ingufito – nel modo più bonario possibile dico pure che la metafora del gufo assiso e brontolone ha esaurito se stessa. In altre parole, l’elettore mostra a questo punto parecchia insofferenza e irritabilità se lo si tira in ballo come un infante da prendere per mano, sottintendendo che da solo non potrebbe fare di meglio perché privo di vero intendimento.
I sobbalzi all’interno dei singoli paesi europei e le altrettante pressioni sui confini (crisi in Ucraina, emergenza profughi, turbolenze nei mercati asiatici) comportano che ogni vento minacci una tempesta, facendoci sentire in «piccioletta barca». Laddove servirebbero strategie, risposte decise e compatte, un fronte comune da opporre al disintegrarsi dei tanti fronti periferici, non per innalzare muri ma per farci trovare preparati e solidi dinanzi al deterioramento del quadro globale, permangono incertezze e assurdità nella gestione continentale. Anziché sfruttare il teatro della crisi greca come un palco da cui mostrare al mondo forza e fermezza politica (non fiscale!) e l’ecumenismo proprio di chi si proclama guida d’altri, la Germania ha preferito trasformarsi in una motrice impazzita. E così, nei caldi giorni di luglio, siamo deragliati. Di là dall’oceano gli Stati Uniti guardavano attoniti. Ad appena un paio di decenni dalla riunificazione, la Germania è partita per la sua galoppata in solitaria, mostrando di non possedere nessuno degli antidoti che l’America si era premurata di iniettarle nel corso della lunga liaison postbellica. La casa era ormai scoperchiata, l’insofferenza sotto gli occhi di tutti. E subito dopo la Grecia, sono venute le difficoltà coi profughi, al di là di molta propaganda a buon mercato – prima la Germania li avrebbe presi tutti, poi siccome il flusso si manteneva eccedente ha ricominciato a strigliare i paesi mediterranei perché non attuano i dovuti controlli; sarà una coincidenza ma dopo l’appello della cancelliera agli industriali dell’auto affinché si impegnassero a creare posti di lavoro per gli immigrati è scoppiato lo scandalo Volkswagen – qualcuno nella madrepatria non ha gradito e ha passato i suoi dossier a chi poteva sollevare un vespaio? Le spine reazionarie pungono sempre al momento giusto. E l’avvertimento non si è fatto attendere: signora non si allarghi troppo, siamo pur sempre la Germania!
Incensare Merkel sul «Time» a fine anno è stata una mossa ancora una volta mediatica, per mettere un po’ di pace. Prima della valanga lepeniana, ci teniamo caro l’immobilismo della CDU. Inoltre il passaggio delle consegne per assicurare l’Europa o ciò che ne resterà al suo futuro non potrà che avvenire attraverso Berlino. Ecco qui la cosiddetta strategia d’uscita statunitense. Lasciare il vecchio continente per concentrarsi sulle potenzialità asiatiche. Una cosa all’apparenza semplice addirittura scontata, se non fosse che la sua attuazione rivela molte pecche. E quindi torniamo alla Grecia, perché tra i tanti incubi che la vicenda ha materializzato presso i diversi centri del potere mondiale, c’è anche la possibilità dell’Europa così impostata di cavarsela da sola. Per quanto conti la mia opinione, io credo che una simile teoria poggi su una premessa sbagliata. Finché immagineremo un’Europa a trazione di qualcuno, nel presente la Germania, il progetto continuerà ad avanzare pestandosi regolarmente i piedi e un bel giorno si rifiuterà di camminare. Nel caso specifico, la storia insegna che una Germania dominante tende a destabilizzare le altre nazioni; l’ultima volta l’effetto è stato tragico. È vero, i fatti non si ripetono, magari questi antidoti particolari adesso li abbiamo, però è bene non dare per scontato nulla. Penso che nei dibattiti pubblici questa sia una buona pratica. Si comincia omettendo qualcosa e si finisce chissà dove. Nei giorni della trattativa greca violenza e umiliazione si sono mescolate in modo sinistro, anche tra la gente comune: pagate, porci, o ve la faremo vedere. Alla solidarietà, estesa e però per lo più ridotta al lumicino di opache memorie liceali persino un po’ folkloriche, si alternavano frasi concitate e volgari che me ne ricordavano altre.
E siccome chi si sbraccia e alza la voce in genere la spunta sul più onesto oratore di questo mondo, in mancanza di una vera consapevolezza politica il pericolo non è superato. Diceva Hermann Hesse: «I tedeschi sono un grande e notevole popolo, chi lo negherà? Sono forse il sale della terra. Ma come nazione politica… impossibile. Voglio, una volta per tutte, non avere più nulla a che fare con loro sotto questo aspetto». Una frase estrema, frutto di un periodo particolarmente atroce per la Germania stessa a cui questa nazione era arrivata non senza avere in aiuto la dissennatezza del proprio vicinato. Eppure un certo fondo di verità scorre ancora in queste righe. Riconoscerlo non toglie nulla alla Germania, e rafforzerebbe in noi la volontà nel rivendicare un’integrazione autenticamente paritaria.
(Di Claudia Ciardi)