Entrambi del 1903, Tonio Kröger e Tristano si possono annoverare fra i capolavori assoluti di Thomas Mann, insieme a La morte a Venezia (1913) e Mario e il mago (1929). Si tratta di romanzi brevi o racconti lunghi, come si preferisce, sviluppati attorno a temi comuni. Uno scrittore attraversa un periodo di crisi creativa e perciò decide di concedersi una vacanza che in realtà rende ancora più problematica la sua condizione; un caso estremizzato in La morte a Venezia, dove il già famoso Gustav Aschenbach trova la fine dei suoi giorni nell’atmosfera astratta e decadente del lido. Materia che si presta a una riflessione sull’osservanza delle regole borghesi da parte dell’artista, e su ciò che si determina in lui quando queste norme vengono meno. Chi non è in grado di aggirarne il peso contraddittorio che esercitano sul temperamento creativo, volta le spalle al compromesso ma abbracciando una simile radicalità, se non ha dentro di sé le risorse per dominarla, va incontro alla propria irrecuperabile caduta di creatore e di uomo.
Non mancano i riferimenti autobiografici. È un dilemma che Mann sembra essersi posto molte volte in proprio e si capisce perché ami tornarci sopra, mostrando al riguardo una congeniale disinvoltura. Nel racconto di Mario e il mago, che è del tutto autobiografico, Mann si cala direttamente nei panni dello scrittore in vacanza e intesse il suo discorso giocando su presagi negativi che col passare dei giorni prendono corpo, fino al dramma dell’epilogo.
Furio
Jesi dedica pagine di grande intensità alla messa in discussione del
borghesismo da parte dello scrittore di Lubecca. Il celebre critico e studioso
illustra molto bene lo stallo a cui giunge l’idea dell’artista come “eroe in
tensione” nell’opera manniana. Per colui che si dedica al lavoro d’invenzione è
necessario profondere in ciò che fa un’energia identica, governata dalle stesse
forze che regolano il lavoro borghese. Solo così la sua esistenza potrà
assumere pari dignità a quelle socialmente riconosciute come valide e
produttive. Ma nel momento in cui il creativo abdica alla tensione che lo tiene
avvinto alla materia, i simboli della borghesia gli si rivoltano contro,
decretandone la rovina. Nei due scritti che qui intendiamo mettere in maggior
evidenza, Tonio Kröger e Tristano, il tema della disfatta artistica
viene a innestarsi sull’incompiutezza del desiderio d’amore e dell’unione
erotica. I protagonisti sono infatuati da donne che puntualmente li ignorano e
nel tempo, in maniera fallace, inconcludente, rabbiosa, coltivano gelosie e
rancori che sfociano in assurde nefandezze o nella presa di coscienza del
proprio annichilimento. Quando Tonio Kröger osserva da dietro una vetrata la
festa da ballo, alla quale partecipa la bella Ingeborg Holm, suo amore di
gioventù, è tutto concentrato nel proprio egoismo, in una narcisistica
contemplazione dell’amore per l’amore. Sente quanto Ingeborg è lontana da lui –
e lo è sempre stata – e non è un caso che abbia scelto per compagno il sereno e
pragmatico Hans, altra passione dell’adolescente Tonio. Lui sapeva già ogni
cosa, essendo una di quelle creature spirituali complicate che amavano
rifugiarsi nelle tortuosità artistiche, mentre i compagni di scuola andavano
avanti a viso aperto, senza perdersi in lunghe meditazioni o in spossanti
letture di poesia. Quando ritrova i due amici cresciuti e felici con cui era
solito passeggiare lungo i bastioni della città e prendere lezioni di ballo,
gli sembra di rivivere ogni istante delle passate sensazioni; inadeguatezza,
umiliazione, gelosia lo stordiscono ma non lo fanno arretrare di un passo dalla
vetrata. Nota infine una ragazza pallida, di aspetto fragilissimo perfino un
po’ curva di spalle che forse vorrebbe essere avvicinata da lui, perché sente
di somigliargli.
Tuttavia
Kröger vuole torturarsi, non potrebbe farne a meno, sa perfettamente anche questo,
e la ignora. È troppo preso dalla trionfale sconfitta della propria passione,
nulla può distoglierlo. Così quando la timida e misteriosa ragazza sviene
davanti al suo sguardo si limita a rianimarla con parole di circostanza, e
tutto finisce lì. Nel processo di formazione dell’indole letteraria di Kröger –
altro tema esplorato in profondità dalla narrativa di Thomas Mann – non
casualmente l’autore colloca aspetti della propria metamorfosi iniziatica. I
genitori di Tonio, la scuola, le passeggiate tra i vicoli dell’antica città che
si arrampicano intorno al porto, ricordano non poco l’infanzia dello stesso
Mann. Vi è perfino un passo dove si può cogliere un abbozzo del magistrale
saggio autobiografico che lo scrittore darà alle stampe nel ’30, in un
fascicolo dello storico editore Samuel Fischer. Ci si riferisce alla
confessione del protagonista relativa al suo quaderno di versi che gli avrebbe
rovinato la reputazione fra professori e studenti. Tali circostanze,
soprattutto l’analisi della polarità caratteriale dei genitori – il pragmatismo
da stimato commerciante del padre, la creatività di ascendenza mediterranea
della madre – riecheggiano anche in altri scritti come ad esempio il Bajazzo.
In
Tristano il discorso sul fallimento di
chi crede di essersi consacrato all’arte mentre se ne allontana senza rimedio,
si sviluppa in una clinica privata per clienti facoltosi. Uno scenario che
dunque ha stimolato l’estro manniano assai prima del sanatorio di Davos, alla base di La montagna incantata. Lo
spazio del ricovero è la cornice ideale per la rappresentazione di quella
maniacalità latente che affligge gli scrittori dannati usciti dalla
sua penna. In questo perimetro di ossessioni prende forma
l’oscuro signor Spinell, che gira e rigira fra le mani il manoscritto del
proprio romanzo «di medie dimensioni, munito di un confusissimo disegno in
copertina e stampato su una sorta di carta assorbente con caratteri tali che
presi uno per uno sembravano una cattedrale gotica». La descrizione del tomo è in completa simbiosi con Spinell, si direbbe il suo naturale prolungamento. L’uomo
riservato e falsamente educato quanto basta a renderlo indigesto al lettore,
corteggia in maniera serrata ma senza approdare ad alcuna conoscenza biblica,
l’ultima ospite arrivata alla clinica. Costei, la diafana e mite moglie di un
commerciante del Baltico, viene così risucchiata suo malgrado nel vortice
ossessivo dello scrittore frustrato. Una sera in cui la clinica è
semiabbandonata per una gita che ha momentaneamente allontanato gli ospiti, i due si ritrovano seduti davanti al pianoforte, e Spinell incalza la gentile amica
affinché esegua il Tristano di
Wagner, opera per eccellenza del tormento d’amore. È una sera invernale di luce
soffusa e arrendevole, che riflette il cupo bagliore della neve abbondante
caduta nel giardino del ricovero. A un certo punto la porta si apre, i due
supposti amanti clandestini, che però non riescono ad essere completamente
amanti, sussultano. Truce, funerea messaggera di un qualcosa che sfugge alla
comprensione terrena, la moglie del pastore Hölenrauch «che ha messo al mondo
diciannove bambini e non è più assolutamente in grado di formulare un pensiero
qualunque» attraversa la sala al braccio di un’infermiera, «trascinata da
un’ebete forsennatezza». La loro improvvisata unione è quindi sancita dall’immagine stessa della malattia, perché malati sono ambedue i protagonisti che non a caso si
incontrano sulla soglia del proprio male fisico e spirituale; ma pure qui i
confini sono meno netti di quanto appaiano.
Anche
in questo caso le premure di Spinell nei confronti della donna sono
un’allucinazione dei sensi, il rifugio dalla propria indolenza di uomo
incompiuto a livello creativo e dunque esistenziale. Mentre la musa prescelta
fatica a entrare in questo ruolo e, costretta a elucubrare su argomenti che le
sfuggono, peggiora il suo stato di salute. Come nel poema medievale Tristano
cerca di trovare consolazione all’amore infelice per Isotta, sposando un suo
quasi doppio, Isotta dalle bianche mani, perché il nome e la bellezza gli
ricordano l’altra, i personaggi di Mann portano in sé qualcosa di questo
compiacimento per l’amore mimato e respinto, più o meno consapevoli della beffa
ma incapaci di fare a meno di questa attrazione fatale. Non sorprende pertanto
che il riferimento alla storia di Tristano affiori anche nell’articolato
discorso di Tonio Kröger in cui tenta di definire l’essenza artistica.
Equivocare
il proprio ruolo di artista attira sciagure, mina le convenzioni del quieto
vivere, cosa che se già tende a verificarsi nei caratteri inclini alla creatività,
rischia di deflagrare quando di tale elemento si fa un uso irresponsabile, alla
stregua di un alchimista impazzito. Mann sembra giocare volentieri con simili
componenti, alla ricerca di un suo personale equilibrio, per quanto ne abbia
ben chiara la natura precaria e come soffra la pur minima oscillazione. Sa che
ragionare attorno a questa materia gli consegna uno degli spunti più avvincenti
per deformare, esasperandoli, aspetti e condizioni con cui in parte ha fatto i
conti lui stesso, specie agli inizi della sua carriera. E se la cava con estrema disinvoltura, visto che, lo
ripeto, siamo di fronte ai suoi capolavori.
(Di
Claudia Ciardi)
Edizione consigliata:
Thomas
Mann, La morte a Venezia, Tonio Kröger, Tristano,
traduzione
di Enrico Filippini, postfazione di Furio Jesi,
Feltrinelli,
2014
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