Desidero riproporre ai
lettori il saggio sull’arte del tradurre, steso prendendo le mosse dal
densissimo scritto di Walter Benjamin, Die Aufgabe des Übersetzers [Il compito
del traduttore], il 3 giugno 2013 per il blog «Quaderni corsari» a cura di
Paolo Zignani, già intervistato in questo mio spazio. Causa la recente chiusura
del sito di Zignani, che ne ha appena inaugurato un altro orientato al
dibattito politico e all’analisi trasversale di diverse tematiche sociali e
culturali, ho deciso di recuperare questo vecchio intervento in modo da
renderlo nuovamente disponibile tra le mie pagine.
Chi
è il traduttore? Un tecnico, un ingegnere del linguaggio che con operazioni di
stile matematico razionalistico “traduce” come un prigioniero il significato in
un’altra lingua? Oppure tradurre significa evocare quasi magicamente il genio
dell’autore e dialogare con lui in un modo imperscrutabile? C’è una via non
estrema, una fedeltà ardua, pensante, al senso del testo originale, di cui
Claudia Ciardi, giovane studiosa toscana, racconta non senza
partecipazione. Ha scelto proprio Walter Benjamin, autore quanto mai prezioso,
che alcuni contemporanei trovavano incomprensibile, per affrontare un esercizio
tanto delicato. “L’arte di tradurre si allarga a metafora del lavoro
intellettuale” scrive Claudia Ciardi, riallacciandosi alle questioni più aperte
e avvincenti dell’ermeneutica contemporanea, che abbracciano molti settori. Oltre
ma anche nei reconditi risvolti, nelle evocazioni del testo qui sotto
riportato, problemi comparabili si incontrano in altre discipline, nel diritto
costituzionali, nella giurisprudenza (nell’applicazione delle leggi), nella
filosofia politica. C’è qualcosa di antropologico, di viscerale, nella
traduzione, c’è una questione etica di fedeltà e di rispetto del testo come
anche della sua trasferibilità in altra lingua e altro contesto. Quante volte
ci troviamo in situazioni paragonabili? Il tema ha una specificità assai
intensa come anche un’apertura universale. Per questo è vitale sviluppare la
lettura della seguente pagina sull’esperienza del tradurre. (Premessa di Paolo
Zignani)
«Labyrinthus [labor-intus] dicebatur domus Dedali» [The labyrinth is called the house of Daedalus]
Codicis Theodosiani libri sexdecim..., c. 801-900, Latin 4416, f. 35r, Bibliothèque nationale de France.
«La ricchezza di oggetti e di forme, il loro bagliore incantevole e il loro splendore sontuoso ci inducono a chiederci che cosa sia ciò che brilla in queste suppellettili e si cela nella loro luce. Le piccole statuette e le figure votive che si sono conservate non esprimono nulla di chiaro in proposito. Vi è forse qualche connessione tra il labirinto e questo lusso? L’aggettivo luxus allude al fatto che qualcosa è stato rimosso dal suo luogo, spostato e distorto, così da essere distolto e sottratto da ciò che è abituale. Laddove esso è invece fine a se stesso, esposto in numerosi esemplari, ci imbarazza e ci confonde. È per questa ragione che tutti quegli oggetti si associano al labirinto, il giardino dell’errore [Irrgarten]. La fusione di lusso e labirinto del mondo minoico-cretese è dunque molto lontana dalla desolazione della superficialità e dal vuoto dell’effimero. Ma che cosa risplende in questo bagliore fuorviante? O forse così la domanda è già posta male? Forse ciò che riluce non è altro che questo stesso bagliore, che nulla racchiude o nasconde».
Martin Heidegger, Viaggio in Grecia [Aufenthalte], Guanda editore, 2012
Martin Heidegger, Viaggio in Grecia [Aufenthalte], Guanda editore, 2012
Ringrazio
Paolo Zignani per questo spazio e ancor più per aver sollecitato un
interessante confronto sull’inesauribile tema della traduzione. Un simile
argomento mi permette infatti di tornare a quell’appassionante crocevia
letterario attorno al quale si è decisa molta parte della mia iniziazione sul
fronte della scrittura, raccontando alcune delle mie più recenti esperienze
proprio nei panni di traduttrice. Tradurre è esplorare la lingua non sulla base
di leggi e relazioni meccanicistiche, come in genere siamo portati a pensare
quando si ha di fronte un testo che vogliamo ‘far parlare’ secondo i modi
d’espressione a noi più familiari, ma suscitare corrispondenze che procedano
oltre il medium, oltre le leggi grammaticali e sintattiche che inchiodano le
parole alla loro qualità comunicativa. Si tratta di richiamare nel nostro lavoro
un elemento per così dire trascendente, una tessitura di senso che si spinga
ben più lontano della semplice riproduzione di significato. Come non ricordare,
a tale proposito, le densissime pagine di Walter Benjamin dedicate al
traduttore?
In
questo breve saggio, apparso nel 1923 come introduzione ad alcune poesie di
Baudelaire, la teorizzazione stessa pare volersi rappresentare su un piano ulteriore dell’esercizio critico,
quasi intendendo suggerire un modus operandi valido anche a risolvere le aporie
insite nella riflessione filosofica. Dunque si può dire che l’esercizio di
traduzione, mirabilmente definito da Benjamin, pare un pretesto per parlare in
generale del pensiero umano, l’arte di tradurre si allarga a metafora del
lavoro intellettuale, il cui scopo non è la restituzione di una ‘letterarietà’,
o almeno lo è solo per una parte minima dell’architettura che si propone di
costruire. Occorre semmai, proprio come nello sforzo di ‘resa’ di una lingua in
un’altra, accantonare l’inessenziale, leggere al di là del comunicabile per
ricavare quel non-comunicabile, il cui carattere è tanto sfuggente in quanto
non marcatamente né coerentemente radicato in nessuna articolazione del corpo
linguistico e, quindi, del pensiero. Solo in questo modo si potrà assecondare
quella libertà di movimento insita nella parola dalla quale viene distillata la
vera vita cui appartiene l’opera di ingegno.
«La
traduzione trapianta quindi l’originale in un dominio linguistico almeno in
tanto – ironicamente – più definitivo, in quanto l’originale stesso non può più
esserne trasferito da alcuna nuova traduzione, ma solo elevato sempre di nuovo
e in altre parti di esso. Non a caso la parola “ironico” può ricordare qui
argomentazioni dei romantici. Essi hanno capito prima di altri che le opere
hanno una vita, e di questa vita la traduzione è una suprema conferma. È vero
che essi non hanno riconosciuto questo valore della traduzione, e hanno rivolto
tutta la loro attenzione alla critica, che rappresenta anch’essa un momento,
benché minore, della sopravvivenza delle opere. Ma anche se la loro teoria non
si è quasi rivolta alla traduzione, la loro stessa grande opera di traduttori
implicava il sentimento dell’essenza e della dignità di questa forma». […] «…
allora la traduzione […] è a metà strada fra la poesia e la dottrina. La sua
opera è meno caratterizzata dell’una e dell’altra, ma non s’imprime meno
profondamente nella storia». Da Walter Benjamin, Angelus
Novus. Saggi e frammenti, traduzione e introduzione di Renato Solmi, Einaudi,
1962. Il titolo del saggio è Il compito del traduttore (Die Aufgabe des
Übersetzers, in Schriften, Suhrkamp Verlag, 1955)
Per
Benjamin dunque l’autentico tributo creativo nei confronti della parola viene
proprio dal lavoro di traduzione, e il suo scritto guida il lettore al salto
concettuale necessario al realizzarsi di quell’‘ascesi’ del linguaggio, verso
cui il buon traduttore è tenuto a impegnare tutte le proprie risorse
intellettuali.
Nella
mia esperienza posso dire senz’altro che studiare le lingue ha presieduto a una
lunga e complessa rielaborazione dell’italiano. Credo anzi che il mio interesse
per le lingue, a partire dalle letterature antiche, sia stato profondamente
connotato da un’idea di scrittura che io vedevo, agli inizi in maniera
inconsapevole, come uno spazio in cui far confluire una pluralità di accenti.
E, in effetti, la lezione dell’avanguardia anglo-americana corroborata dalla
lettura di Eliot, Pound, Yeats, Cummings, Ginsberg, Ferlinghetti, una lettura
‘mentale’ – piuttosto somigliante a un mantra recitato sottovoce – nel corso
della quale passavo continuamente dall’inglese all’italiano e viceversa,
produceva in me uno sconfinamento tra lingue che inevitabilmente ricadeva nel
mio esercizio narrativo. Questa esplorazione soprattutto ritmica delle parole
gettava i semi di una movimentata polifonia nell’italiano, che ha cominciato a
rivelarsi tuttavia con maggior chiarezza, e forse con più interessanti esiti
per la mia ricerca, solo dopo l’avvicinamento al tedesco. I sonetti di
Benjamin, le voci dell’espressionismo, in particolare lo studio del verso
heymiano, la prosa di Robert Musil, infine le tante incursioni (Heinle,
Lichtenstein, Morgenstern, Rheiner) che alle mie pubblicazioni si sono
accompagnate, hanno fatto da catalizzatori di un universo di segni e sonorità
già assimilato dai poeti anglosassoni. Ultimo in ordine di tempo, e non meno
importante, il lavoro su Catherine Pozzi, figura solitaria e ‘notturna’ della
poesia francese di inizio Novecento, la cui scrittura straordinariamente
evocativa si nutre non a caso dei modelli antichi e tedeschi.
Le
considerazioni di Benjamin mi sono perciò particolarmente vicine dal momento
che ho avuto modo di attuarle, per quel che vi sono riuscita, nel corso dei
miei lavori. E a proposito dell’affiorare a più riprese nel saggio benjaminiano
di una mistica legata alla parola di cui il traduttore, alla stessa stregua di
un officiante, è chiamato a essere l’interprete, aggiungerei volentieri che
ogni traduzione entra per così dire in una sfera sacra, in quanto riporta in
vita il momentum creativo fissato nella propria opera dallo scrittore, quale
somma di stati emotivi ‘salvati’ nell’anonimo fluire della storia.
C’è,
negli autori di cui mi sono occupata, questo senso di deragliamento del tempo
ed estinzione di se stessi, dovuto all’esperienza annientante della prima
guerra mondiale. Il suicidio del giovanissimo Heinle che alimenta il singolare
impegno dell’amico Benjamin a comporre versi per continuare un dialogo
interrotto da un gesto tanto improvviso e inaudito, fino all’altrettanto
tragico epilogo con cui si chiuderà l’esistenza del filosofo tedesco, racconta
di due artisti letteralmente ‘strappati’ alle loro vite dalla drammatica
progressione degli eventi. Come ebbe a scrivere Joseph Roth al giornalista
italiano Enrico Rocca «Io mi riconosco nella comunità mondiale di tutti i
partecipanti alla guerra, nella generazione dei decimati, dei reduci impotenti
e dei morti» (lettera datata 6 maggio 1930).
Attraverso
queste voci ho potuto anche approfondire la pesante mutilazione inflitta dalla
guerra alle collettività coinvolte. Perché il trauma della violenza e della
morte non si ferma affatto alle trincee né finisce con un accordo di pace ma
continua a deflagrare per anni in un tessuto sociale angosciato e indebolito
dai lutti, dal senso schiacciante di una precarietà della quale, dopo il
battesimo del fuoco al fronte, sembra impossibile liberarsi. In una simile
terra devastata accade così che vengano a mancare perfino i presupposti del
racconto. Il filo che teneva insieme gli anelli della narrazione è ormai
spezzato, nient’altro che frammenti alla deriva, schegge indecifrabili di una
storia che si avvita su se stessa senza riuscire a descriversi.
Compagne
di avventura e preziose collaboratrici, Angela Staude Terzani per la poesia di
Heym ed Elisabeth Krammer per gli ‘alfabeti’ musiliani mi hanno aiutata a
portare alla superficie l’anima nascosta dei testi. Questo scambio sui problemi
della lingua, sulla necessità di penetrare l’originale nelle sue più intime
sfumature ha senz’altro arricchito il mio bagaglio di conoscenze e, come si
diceva all’inizio, ha influito sul mio modo di scrivere. Dunque, per quella che
è la mia formazione, posso certamente affermare che l’esercizio di tradurre si
è rivelato essenziale al mio percorso artistico e culturale.
(Di Claudia
Ciardi)