Separarsi
tocca a ogni generazione. Si procede insieme per un pezzo del viaggio e poi chi
prima, chi dopo, si ferma. Non lo vedremo più, non sarà più una voce in mezzo a
noi. Già, la lingua, questo incantesimo tutto umano che in ognuno prende
accenti e sfumature diverse. Viva finché c’è una comunità vivente che se la
tramanda e la plasma dentro di sé, nell’uso dei secoli mutandola, infondendole
nuove e insolite cadenze. E quella che impariamo dai nostri cari è per noi
un’iniziazione a un mare simbolico da cui sempre misureremo altre rotte nelle
stagioni a seguire.
Era il duemiladiciassette quando venne annunciata la morte di una delle persone più longeve
d’Italia, aveva centodiciassette anni (singolare la ricorrenza del numero), si
chiamava Emma Morano, piemontese, l’ultima nata nell’Ottocento. Questo
fatto mi portò a riflettere su come non solo una vita ma il rumore,
l’immaginazione, il sentire di un’intera epoca si fossero richiusi su quella
persona. Ne ho scritto così tra le pagine della mia Profanazione (capitolo Due novembre):
«Nel mondo antico si attribuiva alla longevità carattere sacro. Ha forse a che
fare con quest’idea la resistenza di una persona che quasi abbia saputo eludere il
tempo. C’è un che di mistico in tutto ciò, perché si tratta di un corpo ribelle
alle imposizioni organiche, che porta con sé la presenza d’altri, il loro esser
stati insieme nella medesima dimestichezza. Un corpo di così tanti sguardi e di
insondabili appartenenze, di molte tracce e d’innumerabili respiri che si
avvicina al segreto dell’essere, di cui si può dire che arrivi a lambire la
sostanza».
In
queste poche settimane, nel silenzio e senza un addio, se ne sono andati in
tanti. Un’intera memoria vivente si è posata sull’ultima sponda dell’esistenza,
all’improvviso, ed ha raggiunto l’altra riva.
Questa morte affrettata, una morte quasi in incognito, ci ha ferito,
sopraffatto. Le voci e gli sguardi che si sono spenti senza un addio ci hanno
scavato intorno un vuoto disarmante. Perché abbiamo mancato l’attimo, il gesto,
il calore rituale del congedo.
Proseguendo
le sue argonautiche, Alessia Rovina ci offre un’intensa considerazione per
navigare in queste acque scure senza smarrirci, per ritrovare anche in una tale
insidiosa corrente l’appiglio sicuro della parola che lenisce.
(Di
Claudia Ciardi)
Alfredo Oliva Delgado, Paesaggio
Addio, Arrivederci
Di
Alessia Rovina
Per la rubrica «L’Argonauta»
Circa
un mese addietro abbiamo iniziato un viaggio virtuale, intraprendendo una
nostra personale Argonautica. Un tragitto particolare viste le contingenze
attuali, alle quali comunque ci siamo voluti richiamare, in un momento che più
che mai ci ha insegnato il valore della speranza, del dolore, della fragilità e
dell’incertezza. È quanto provarono i nostri Argonauti, quei cinquanta
fanciulli prosperi, forti, talentuosi, che si unirono a Giasone nella prima
impresa eroica della Storia dell’Uomo. Speravano, per vincere con la speranza
la paura di un viaggio di cui non sapevano nulla. Come la Vita. E la speranza
di riuscire a conquistare il proprio autentico valore sarà in grado di far
affrontare loro dignitosamente anche la morte. Ma ci torneremo su. In questo
momento storico più che mai, siamo chiamati dal Governo, dal Buonsenso, dal
Desiderio, a partire per un vero e proprio viaggio. Pregno di pericoli che solo
parzialmente siamo in grado di affrontare nonostante i passi avanti negli
ambiti medici e tecnologici. Ma anche un viaggio fondamentale per ciascuno di
noi, toccato da affetti strappati, da progetti da riqualificare, da economie
che minacciano di metterci in ginocchio. Un viaggio incerto più che mai, in
piena regola, che ci viene imposto. Ma, prima di questa fase 2, nome che ha ben
poco di poetico rimandando piuttosto a una sorta di snodo tecnico, cosa è
successo alle nostre spalle? Quali sciagure emotive ci hanno colpiti? In questo
mondo mi viene spontaneo constatare che noi siamo prima di tutto figli e
nipoti. Veniamo da una discendenza, di cui ci siamo prepotentemente accorti
proprio durante l’imperversare di questo mal-Anno. Le Residenze per Anziani, le
Case di Riposo, nomi anestetici per descrivere una realtà di distanza dai cari,
ma comunque necessaria, visti i ritmi frenetici a cui siamo sottoposti, e che
tolgono sempre più tempo alla Cura dell’altro, sono diventati piccoli fronti di
una guerra persa in partenza, in cui gli anziani sono caduti come mosche,
lontani dagli occhi di chi li avrebbe voluti servire fino all’ultimo. Indifesi,
incapaci di poter lottare, in una condizione di inferiorità fisica. Abbiamo
perso Genitori, e abbiamo perso Nonni, e alla banchina d’imbarco sulla nave che
porta il nostro nome per questo nuovo imprevedibile viaggio, non c’è nessuna
mano amorevole ad accarezzarci e a sistemarci il bavero, prima di salutarci da
eterni bambini. Così fanno i genitori: si prendono cura di noi per una Vita, e
ad un certo punto, siamo noi figli a dover curare loro, nel debito non
richiesto più bello e toccante. E il loro, è il sacrificio maggiore. Lo sa
Alcimede, l’anziana mamma di Giasone, che non sopporta il dolore di veder
partire il proprio figlio per un’impresa dalla quale potrebbe non tornare – non
è affatto uno scherzo essere il primo navigante della Storia! – e inizia a
piangere «al modo di una fanciulla» (Ap. Rh., I, v. 269). Le lacrime di
un’anziana, che la rendono immediatamente indifesa, e suscitano lo strazio
della cittadina, che a lei si unisce, e la piange come infelice, poiché non
saranno le mani del figlio a prendersi cura di lei e a darle sepoltura “con le
sue mani care”. Alcimede stessa, in uno dei più struggenti passi familiari
della letteratura, piangendo, urla che sarà «abbandonata dentro le stanze
vuote». Lei che dall’educare il figlio unico ed amatissimo ha già ricevuto il
più bel dono del mondo, ora sarà condannata alla sua assenza. (Ap. Rh., I, vv.
281-291). Commovente. A gemere, senza consolazione delle cure future, è anche
il padre, Esone, in preda alle lacrime ed all’impotenza, poiché «costretto a
letto dall’odiosa vecchiaia, coperto» (v. 264). Un’immagine tragicamente simile
a quei fotogrammi ospedalieri che i notiziari ci hanno continuamente proposto
in queste settimane. Una visione dell’anzianità non come età della saggezza,
età della maturità d’intelletto, età della raggiunta virtù, come invece la
dipingevano, in linea con la loro cultura marziale, le alte personalità Romane,
di cui si fa portavoce Cicerone nel suo Cato Maior de senectute, dissertazione
del longevo Catone il Censore il quale dipinge l’anzianità come l’età della
verità, lontana dalle bassezze morali e fisiche che invece la caratterizzavano
nella Commedia Antica – il vecchio voluttuoso, uno dei bersagli prediletti di
Plauto, ma che d’altronde era già oggetto di scherno per Aristofane, con il
vecchio Filocleone ossessionato dai processi (Le Vespe) e il vecchio credulone
Strepsiade delle Nuvole. E anzi, Catone si ripropone di confutare gli aspri
versi di Cecilio Stazio, che recitano: tum equidem in senecta hoc deputo
miserrimum,/ sentire ea aetate eumpse esse odiosum alteri, «e poi penso che sia
questa la disgrazia peggiore quando si è vecchi: accorgersi che a quell’età si
è di peso agli altri» (Ephesio, vv. 28-29). La visione più umana ed emotiva
delle Argonautiche, riecheggiata poi dallo storico ritratto dell’amorevole Enea
che porta sulle spalle l’affaticato padre Anchise, richiamata nella
contemporaneità dall’opera teatrale Il padre, di Florian Zeller, che noi
conosciamo per la meravigliosa interpretazione di Alessandro Haber – un anziano
affetto da una grave forma di Alzheimer, curato dall’adorata figlia sino alla
fine – corrisponde più che mai al significato che reca con sé la radice
indoeuropea jar, da cui deriva il vocabolo greco con cui si designa la
vecchiaia, γῆρας (ghêras): “giungere in avanti nel tempo”, sfociando poi in γέρας
(ghéras), ovvero privilegio. La ricompensa del crescere, come il grano, altro
derivato di questa eloquente radice, ricevendo il privilegio della Cura dei
figli. Non sappiamo come sarà questo Viaggio che ci attende… Ma, pronti a
salpare dalla nostra piccola banchina, ci auguriamo di poter lenire queste
ferite profonde, affidandole alle parole eterne di personaggi antichi, custodi
di tutte le nostre lacrime.
(Di Alessia Rovina, classicista e appassionata di
teatro – Mantova, 16 maggio 2020
account twitter: @rovina_alessia)
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