Il
volumetto di recente pubblicato da Via del Vento per la curatela di Pasquale Di
Palmo, redattore anche dell’antologia I begli occhi del ladro edita da Il
Ponte del Sale, già studioso fine e attento dell’autore potentino, ci schiude
le cadenze versatili e rivelatrici di questa voce insolita proiettata, per
dirla con Zanzotto, «verso lontananze imprendibili».
Dire
che la prosa di Beppe Salvia sia estremamente commista alla sua dizione poetica,
che ne fissi sospensioni e squarci in un modo di narrare franto, a momenti
quasi enigmatico, duplicando quella presa fuggevole sulle cose del vivere che
tanto gli è stata cara, può apparire un concetto scontato. Eppure che un poeta
si faccia artigiano in prosa toccando un tal vertice, non lo è affatto. Ogni
singolo anello delle sue espressioni stringe e accerchia un moto dell’anima,
una contrazione, un’attesa. È quasi un tirare di sponda questa sua scrittura, un
cardiogramma irregolare disegnato su allucinazioni di viaggio o nelle tregue
notturne, sempre in bilico però, aperte ad altre inquietudini. L’amato Leopardi
è un riferimento non di rado evocato, celebrato anche nell’incipit dei Pescatori
di perle, dove l’io narrante si finge poeta a Napoli negli stessi giorni che
per il grande genio recanatese trascorsero lì fra malattia ed esilio volontario. Questo breve
racconto è una singolare mise en abyme, se non nella struttura almeno nel
meccanismo, accenna a tante altre storie e ipotesi di storie, e si trasforma. A
un certo punto ci si imbarca, la nave lascia il porto, la meta sarebbe il
fantomatico approdo di Haye, isola o continente, ma si va incontro alla
tempesta. Mentre ci si culla nel passato avventuroso di una spedizione d’inizio
Ottocento, la nave romba, e nel rombo di quel motore, inesorabile e persino beffardo,
sembra riportarci al Novecento: sul mare infuria la tempesta. C’è in un simile sovrapporsi
cronologico ed emotivo qualcosa di paradossale, ci si potrebbe riconoscere
quella volontà giocosa di mischiare e collidere che appartiene a certi fondali particolarmente
ispirati di Hugo Pratt. I pescatori di perle un po’ come Una ballata del
mare salato.
Così
la luna non è più la presenza rassicurante che si affacciava alla soglia del romanticismo, ma un oggetto profanato, scisso dagli incanti, non un’immagine
su cui fantasticare ma un miraggio insidioso, «infantile come le guance d’un
vecchio cassiere in un negozio di dolci, o gli occhi inutili d’un sagrestano
orbo». E sempre questo fuori che rimanda al dentro e viceversa, il cuore che si
sversa, la vita come una marea, calda poi metallica e respingente, dove in un
attimo si viene trascinati via, persi senza scampo.
In
un omaggio commosso di qualche anno fa l’amico Marco Lodoli lo descriveva così:
«Beppe sapeva tutto della musica punk e dei poeti del Trecento». Una cultura
vasta la sua, agile, curiosa, penetrante, considerando quanto sia riuscita a scavare, a dirci,
a incidere sui piani di una significazione più alta della parola, di un uso
letterario della lingua, pur in una tanto breve esistenza artistica. Perché,
giovanissimo, Beppe Salvia fu animatore di un beccheggiante bastimento delle
lettere che solcò la Roma di fine anni Settanta, con le sue riviste magmatiche e
le sue voci trasversali, da Claudio Damiani, Arnaldo Colasanti, il già citato
Lodoli, Gabriella Sica, solo per menzionarne alcuni.
Il
libro di Via del Vento ci offre uno spaccato della vicenda peculiare di uno dei grandi nomi nella letteratura italiana novecentesca, né sfugge scorrendo
queste pagine la polifonia compositiva che ha accompagnato il maturare in
poesia e in prosa di una personalità sfaccettata, profonda, irriducibile che ha
saputo trasfondersi con grazia perspicua, illuminante, nella propria opera.
(Di
Claudia Ciardi)
Ritratto del poeta a circa trent'anni
Il libro:
Beppe
Salvia, I pescatori di perle e due prose inedite, a cura di Pasquale Di
Palmo, 2018
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