Ricorrono
i duecento anni dall’arresto di Silvio Pellico (13 ottobre 1820). Per quello
che Puškin definì con acuta sensibilità il «martire mansueto», iniziava una
delle prove più dolorose e sconvolgenti che possano toccare in sorte a una vita
umana. Dieci anni di prigionia nel carcere fortezza dello Spielberg dove fu
inviato a scontare la condanna di cospirazione ai danni dell’impero austriaco.
Attivo tra gli indipendentisti italiani, Pellico coltivava scambi politici e
culturali con larga parte dell’intellighenzia e della nobiltà milanese. Nel
capitolo 50 di Le mie prigioni, in cui si legge un toccante spaccato
autobiografico, parla delle care amicizie che generosamente gli offrì la città
meneghina: «…avea proseguito a studiare ed amare la società ed i libri, non
trovando che amici egregi, e lusinghevole plauso. Monti e Foscolo, sebbene
avversarii fra loro, m’erano benevoli egualmente. M’affezionai più a
quest’ultimo; e siffatto iracondo uomo, che colle sue asprezze provocava tanti
a disamarlo, era per me tutto dolcezza e cordialità, ed io lo riveriva
teneramente».
All’indomani
della liberazione, un’altra prova attese dunque Silvio Pellico, la scrittura
del suo memoriale sollecitata dal benevolo abate Giordano. E tuttavia non pochi
furono i conoscenti che intesero scoraggiarlo, credendo che si sarebbe attirato
nuovi guai e inimicizie. Non la madre che lo esortò subito a seguire ciò che
sentiva. Così si legge in uno dei cosiddetti capitoli aggiunti: «Parlai dei
progetto con mia madre. – Vedo ch’è pericoloso, diss’ella, e mi fa tremare.
Cerchiamo d’illuminarci colla preghiera. Indi a pochi giorni ella mi chiese
s’io avessi pregato Dio a questo proposito. – Sì, le risposi, e mi sembra che
quel libro possa esser buono, e sia da farsi. – Ebbene, diss’ella, accingiti a
farlo; anch’io ho pregato e mi pare d’esser tranquilla» (capo VI/6). Confortato
poi anche dall’opinione positiva dei conti Balbo, a cui lesse poche pagine
iniziali mentre era loro ospite a Camerano, decise di portare a compimento
l’impresa. Pubblicate nel 1832 presso l’editore torinese Bocca, Le mie prigioni
donarono alla personalità di Silvio Pellico un’incredibile fama. Oltre alle
stimate parole di Puškin, cui abbiamo già accennato, che molto ci dicono della
statura letteraria di questo libro – a mio avviso uno dei più incisivi nella
produzione italiana ottocentesca per la limpidezza della scrittura e la lezione
di una humanitas che non si lascia travolgere dal dramma – Gioberti gli dedicò
il suo Primato morale e civile degli Italiani, mentre Luigi Filippo di Francia
avrebbe voluto affidargli l’educazione del suo ultimo figlio. Venne quindi
l’amicizia di altri stimati personaggi dell’epoca come i marchesi di Barolo o
dei tanti scrittori che prontamente vollero tradurlo nella lingua dei loro
paesi, come ad esempio il de Latour.
Qui
rivivono i momenti di un’esperienza che come poche altre scuotono la forza di
volontà dell’uomo e la sua capacità di reagire. Stralci di normalità nella
durezza della detenzione fanno di quest’opera un resoconto intimista, pacato,
tutto teso a salvare la dimensione umana, al riscatto dell’essere pur se
condannato e costretto in una condizione che lo vorrebbe annientare. Così
nell’attesa della sentenza, durante gli interrogatori ai piombi di Venezia
(capitolo 44), il saluto di una famiglia che incoraggia e per qualche momento
allevia la sofferenza, è qualcosa di inaspettato, un raggio che scalda mentre
il prigioniero vive sospeso e incerto: «Quelle conversazioni erano piccola
cosa, e non bisognava abusarne per non far gridare il custode, ma ogni giorno
ripetevansi con mia grande consolazione, all’alba, a mezzodì e a sera. Quando
accendevano il lume, quella donna chiudeva la finestra, i fanciulli gridavano:
«Buona notte, Silvio!» ed ella, fatta coraggiosa dall’oscurità, ripetea con
voce commossa: «Buona notte, Silvio! Coraggio!». Quando
que’ fanciulli faceano colazione o merenda, mi diceano: «Oh se potessimo darti
del nostro caffè e latte! Oh se potessimo darti de’ nostri buzzolai! Il giorno
che andrai in libertà sovvengati di venirci a vedere. Ti daremo dei buzzolai
belli e caldi, e tanti baci!».». E di simili memorie tante ve ne sono,
disseminate, intrecciate ai giorni foschi dello scoramento, della perdita di
speranza. Minime tracce di una quotidianità che ostinatamente s’insinuano nella
solitudine del prigioniero e lo tengono in vita.
Nel
medesimo capitolo 44 colpisce anche il fatalismo con cui l’autore, che pure si
dichiara affatto superstizioso, parla delle difficoltà che sovente il mese di
ottobre gli aveva riservato. Eppure, dalla circostanza dell’arresto, di certo
la più dura fra quelle fronteggiate, sarebbe scaturito il nuovo cammino
dell’uomo.
(Di
Claudia Ciardi)
«La somma solitudine può tornar vantaggiosa all’ammendamento d’alcune anime; ma credo che in generale lo sia assai più se non ispinta all’estremo, se mescolata di qualche contatto colla società». Silvio Pellico, Le mie prigioni, capitolo 84
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