30 luglio 2021

Paula Modersohn-Becker - La tecnica ruvida

 
Verso la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento viene riscoperta in pittura la tecnica dell’encausto. Tra gli artisti più noti ad averla praticata o solo studiata ci sono Paul Klee e Paula Modersohn-Becker, nomi legati alla sperimentazione di nuovi linguaggi figurativi.
La Becker in particolare fin dai suoi esordi perseguì con coerenza la propria idea di arte, una semplice e nobile rappresentazione, uno scavo nella materialità delle forme fino all’essenziale, spoliazione, alleggerimento, distacco dagli aspetti psicologici, dalla concettosità vacua, conquista i cui risvolti volle esprimere anche nel modus operandi. Perché la materia è mater, sostanza materna, elemento che nutre, centro emotivo che non ha filtri ma solo istinto, impulso, genuino amore.
E appunto l’encausto (dal greco enkaustès, “mettere a fuoco”), metodo decorativo noto fin dall’antichità – emblematici gli oltre seicento dipinti su tavola che sono stati rinvenuti nella necropoli di Fayyum in Egitto, datati fra il I e il III secolo d. C. – distinguendosi per la pastosità e la ruvidezza, assecondava alla perfezione queste idee. Negli anni dell’apprendistato berlinese, già sensibile alle esperienze di rottura, la Modersohn fu colpita da Edvard Munch, quindi a Parigi, dal primo soggiorno nel 1900, proseguì in autonomia la sua rivoluzione plastica accarezzando con penetrante curiosità le radici cézanniane e dei Nabis fino alle soglie del cubismo.
L’opera, in quanto frutto di una sintesi fra realtà e interpretazione, è un’architettura soggettiva che solo in un secondo momento, dopo l’impronta data dalla sfera emozionale, torna alla “prova” della natura, e in tale confronto si stabilisce il grado di verosimiglianza, la forza della creazione. Qualcosa che in un lasso di tempo vicino a quello in cui operò la Modersohn richiama i concetti fissati da Giovanni Segantini: «La materia deve essere elaborata dal pensiero per salire a forma d’arte durevole. […] La superiorità umana incomincia dove il lavoro semplicemente manuale e l’azione materiale finiscono, ed incomincia l’amore ed il lavoro fatto con intelletto». Dunque, non pedissequa imitazione né costruzione cerebrale ma paziente esercizio di ascolto, saper ascoltare con la vista, coltivare il dono che ci comunica l’essenza segreta delle cose, penetrarne la matrice simbolica. In virtù di queste capacità sensibili l’artista ha il compito di infondere nel suo lavoro la spontaneità della propria visione.
Durante la permanenza parigina Paula Modersohn, che non si mostra insensibile alla cultura simbolista fin-de-siècle, volle visitare gli atelier di Vuillard e di Denis, e nello spirito di Pont-Aven si lasciò incantare dalle rochers sculptés di Rothéneuf a Saint-Malo, dando una sua lettura personale non solo secondo le note di quella materica concisione che le è propria, ma insinuando possibilità concettuali altre. Nell’ultima fase, 1906-
07, gli oggetti messi in mano alle sue figure, fiori o frutti, non parlavano più con accenti letterari, piuttosto entravano in una specie di limbo formale sulla linea di Cézanne-Picasso.
Lungo il medesimo alveo
l’incontro al Louvre con i ritratti delle mummie rinvenuti nell’oasi del Fayyum, scoperti nel 1887, una metà dei quali acquisiti da Theodor Graf (1840-1903) – collezionista, mercante d’arte, studioso, come il suo illustre connazionale Hofmannsthal ritirato a Rodaun, la Weimar austriaca – fu per la pittrice un’esperienza folgorante. In particolare in una lettera spedita al marito mentre racconta di essersi avvicinata a Rembrandt e Veronese, si sofferma anche su un’immagine funeraria a encausto, la numero 12, stando a Graf un ritratto di Cleopatra (lettera a Otto Modersohn da Parigi del 17 febbraio 1903). Freschezza del segno, intensità primitiva, grado zero della forma: le coordinate della sua stessa creatività venivano a darle conferme da epoche remote.
Nella nostra memoria l’encausto è per lo più associato al rovinoso scioglimento dei colori
della Battaglia di Anghiari di Leonardo da Vinci preparata per il Salone dei Cinquecento di Palazzo Vecchio a Firenze. Il processo di encaustizzazione – la parte più delicata in questa tecnica – consiste nell’ammorbidire attraverso il calore lo strato superiore dell’opera permettendo ai pigmenti di risalire in superficie. Se il calore è troppo intenso lo strato pittorico rischia di sciogliersi, mentre se la superficie non è sufficientemente calda ne scaturirà un’increspatura.
E tuttavia,
a differenza dell’affresco non richiede tempi di esecuzione eccessivamente rapidi (Leonardo stesso lo prediligeva proprio perché era molto lento nel realizzare i suoi lavori); in più, la viscosità del colore così lavorata, disciolta a caldo nella cera e lopera successiva di riscaldamento della superficie dipinta, per quanto siano di complessa esecuzione, garantiscono un risultato finale assai luminoso, quasi vellutato, oltre a permettere l’utilizzo di qualsiasi pigmento disponibile in natura.
Mentre l’encausto rivela compiutamente alla Modersohn la materialità del quadro, con le sue incongruenze e bizzarrie, proprio in quanto creatura umana, espressione di una sensibilità imperfetta, istintiva e perciò autentica, si spinge in avanti approdando al monotipo (dal greco monos e typos, “impressione”).
Nell’estate del 1906 realizza l’Autoritratto con mano sul mento.
Partita da una prima tela, aveva impresso su fogli di carta, anche di giornale, l’effige non ancora seccata, ridipingendovi sopra. All’insegna di quell’asciuttezza ruvida e alleggerita, sua cifra formale da sempre, si trattava qui di ridurre il volto a ‘maschera’. La stessa mano al mento, che sembrerebbe indicare meditazione, una postura per certi versi malinconica, risulta solo un pezzo di vernice, una struttura a se stante. In questo lavoro per “sottrazione” (una delle tecniche ma non l’unica del detto “monotipo”) l’artista procede dallo scuro alla luce. L’immagine viene fatta emergere con l’aiuto di stracci, con le dita, stecche, manici di pennello. In modo di lavorare estremamente fisico, una sorta di arte maieutica praticata con i supporti scelti.
La precoce scomparsa di Paula Modersohn ne interrompe l’opera in un punto cruciale. Un anno prima della sua morte sembrano essersi fissati i canoni principali che dagli inizi a Berlino, dall’eremitaggio di Worpswede fino alla ricerca parigina aveva perseguito con tenacia, istintivamente rivendicando e difendendo in ogni sua fase l’indipendenza del proprio percorso. Colei che in modo un po’ riduttivo e sbrigativo è definita l’ispiratrice dell’espressionismo, aveva dato prova di avere dentro di sé tanti “semi ribelli” in attesa di germogliare su terreni non necessariamente vicini tra loro, quando non affatto esplorati.   


(Di Claudia Ciardi)


Autoritratto con mano sul mento - monotipo - estate del 1906  



Autoritratto con mano sul mento, 1906-1907

22 luglio 2021

Philoxenia - Quando tutti i viaggi sono racchiusi in uno


Nelle pagine dei Momenti in Grecia Hugo von Hofmannsthal ha voluto trasmetterci le impressioni che gli suscitò il suo pellegrinaggio al tempio dell’antichità, compiuto nel 1908. Cercando quel senso del passato che gli sembrava oltremodo ambiguo, sfuggente, così lontano dall’idea che si era fatto sui libri, si sentì quasi beffato. Eppure quella temporalità sommersa, per certi aspetti respingente, chiusa in se stessa, che caparbiamente rifiutava di svelarsi all’osservatore, l’avvertiva dappertutto. A un tratto ebbe il bisogno di fermarsi, sedette all’ombra iniziando a leggere dal Filottete. E anche qui, che lettura densa di rimandi; solo su tale scelta si potrebbero spendere molte parole senza riuscire ad esaurirne le implicazioni. E proprio alla fine di questo passo, in cui neppure la poesia sofoclea ha saputo risolvere l’enigma del luogo, e ancor più, del tempo depositato nel quel luogo, ecco riaffiorare intero il dissidio provato dallo scrittore: «Impossibile antichità, mi dicevo, vana ricerca.  – La durezza di queste parole mi ricreava. – Nulla esiste di tutto questo. Qui dov’io pensavo di toccarlo con mano, qui è svanito, qui soprattutto. Una demonica ironia si libra intorno a queste macerie, che anche nel disfacimento trattengono il loro mistero».    
Per un mitteleuropeo o un italiano questo “ritorno” alla Grecia può generare significati, sfumature, interrogativi del tutto diversi. Come per i romantici inglesi fu prevalente la ricerca degli ideali traditi, la possibilità di ritrovare nel mito ellenico la vera essenza della poesia perduta; mentre sull’altra sponda Caspar David Friedrich contemplava il suo mare di ghiaccio, constatazione visiva di un’odissea sentimentale ormai pietrificata. A questo proposito rimandiamo alle preziose osservazioni del germanista Patrizio Collini: «Il romanticismo effettivamente presenta, in modo direi ossessivo, l’immagine del ghiaccio, l’immagine della glaciazione dei cuori. Questa è veramente la grande immagine del romanticismo europeo dell’Ottocento. Ci si può chiedere perché, da cosa derivi questo topos della glaciazione, del ghiaccio onnipresente, del cuore di ghiaccio. La motivazione di questa presenza ossessiva è di carattere economico. Il cuore di ghiaccio è quello della moderna economia borghese, dell’assetto spietatamente competitivo, alla base della quale c’è uno scambio simbolico. Si cede il cuore caldo, senziente, per un cuore il quale risponde solo al principio del calcolo, un cuore insensibile, che nei racconti romantici si presenta ora come cuore di pietra, ora come cuore di ghiaccio. Direi che questo è un filo unificatore di tutta la narrativa tedesca della prima metà dell’Ottocento, ma anche della letteratura europea dello stesso periodo: la ricorrenza di questo topos del cuore di ghiaccio, del cuore di pietra, della glaciazione, della pietrificazione». (Patrizio Collini, Il viaggio: l’inquietudine del viandante, 1998).
Così dunque, per contrappasso, si tendeva alla Grecia come isola ultima della bellezza, della vera vita spirituale, sola porta d’accesso al sogno dell’arte, antidoto alla rinuncia delle ragioni del cuore. C’è evidentemente una mediazione nella cultura di appartenenza, vi si accennava poco sopra, che influisce anche sul senso suscitato dall’incontro con la grecità odierna. Il che ci conferma come la Grecia divenga una costellazione policentrica e polimorfica nei diversi contesti che l’avvicinano. Non un’unica frontiera dell’antico, piuttosto tante piccole patrie, affatto classificabili né destinate a rimanere statiche, mai uguali a se stesse.
In un articolo molto intenso Alessia Rovina, prendendo le mosse da un’affascinante lettura dedicata agli “eterni ritorni” in Grecia, riflette sulle avventurose declinazioni del viaggio che solo per la sua modesta parte emersa è uno spostamento nello spazio, ma a un grado più profondo e durevole è uno strumento che appresta misteriose e anomale metamorfosi dentro chi lo pratica.

(Di Claudia Ciardi)


Philoxenia: quando tutti i viaggi sono racchiusi in uno
Di Alessia Rovina
Per la rubrica «L’Argonauta»



Tempio di Poseidone a Capo Sounion, 2015, mentre era in corso un reading di Kavafis - Foto di Alessia Rovina ©

 
Parrebbe da folli, ora, parlare di viaggi. Pure, parrebbe folle aver inaugurato proprio nel 2020 questa rubrica, battezzandola con il nome dei Viaggiatori per antonomasia, i giovani ed acerbi Argonauti che proprio mettendo a rischio ogni idea di sicurezza – che d’altronde si sarebbe rivelata stantia ed ingannevole, come ricorda il Pindaro della IV Pitica (1) –  decisero di farsi carico del loro destino – indi, per taluni, della propria morte (2) – per trovare la misura di se stessi; uno scenario di avventura ed emozione attiva purtroppo distante da quella che è diventata la quotidianità di ciascuno, eppure tanto necessario. Necessario per la speranza che può animare nella costruzione di una nuova Argo, una Argo personale, metamorfica, proprio perché nata tra la complessità e le difficoltà. Proprio perché essere Argonauti e Viaggiatori, ora, è ancora possibile.
Nei mesi così inusuali che hanno accompagnato la sofferta transizione tra l’inverno e la primavera di quest’anno sono venuta per caso a conoscenza di un libro molto curioso ed affascinante, dal titolo evocativo: Philoxenia: viaggi e viaggiatori nella Grecia di ieri e di oggi. Curiosando nel sito della casa editrice responsabile, Mimesis, e raccogliendo notizie riguardo alla collana in cui il volume è inserito, Classici Contro, l’ho infine inevitabilmente acquistato. Ho atteso l’arrivo di questa densa curatela con la certezza che ne avrei voluto parlare proprio in questo spazio, perfetto perché sarei stata certa dell’entusiasmo e dell’accoglienza gioiosa di Claudia, ponte lirico ed umano con una Grecia che non è rimasta cristallizzata nelle spoglie d’un passato distante millenni, ma che continua, fiera, non convenzionale, ad essere un polmone insostituibile del grande Mediterraneo, approdo inevitabile per chiunque sia alla ricerca di radici (3).
Philoxenia è un grande omaggio: anzitutto, da parte di giovani e valentissimi studiosi e ricercatori verso il professor Giuseppe “Lello” Zanetto, loro Maestro e Guida all’interno del “viaggio in Grecia”, un rituale antico proprio del contesto della Statale di Milano, in cui i Classici non rimangono tracce paleografiche stipate negli scaffali di qualche archivio universitario, slegate da ogni collegamento, bensì prendono vita all’interno di questo pellegrinaggio verso la sorgente da cui sono scaturiti, a contatto coi luoghi che li hanno ispirati e di nuovo in una prospettiva che li vede rifiorire nelle liriche neogreche tanto ricche ed elevate, canti che sanno di una spiritualità spesso trascurata, se non del tutto sconosciuta. Secondariamente, ma non per importanza, grande è la gratitudine verso la proverbiale ospitalità greca, la φιλοξενία del titolo, che non si è estinta nella notte di qualche secolo addietro, ma che pulsa e non delude mai. Nel susseguirsi dei contributi che costituiscono il volume – suddivisi secondo un intelligente itinerario geografico, che tratta della Grecia continentale, delle Isole e della Grecia orientale – gli studiosi si rifanno discepoli, studenti, camminatori pronti a bere con gli occhi ed il cuore la bellezza unica che circonda ogni angolo di Grecia – pure quell’urbanistica tanto caratteristica del Mediterraneo orientale e sciatta che contrasta con la maestosità dei templi e dei marmi –  più che mai disposti a permettere la metamorfosi incubata in ogni viaggio. Voci compagne del percorso sono i viaggiatori di ieri e di oggi: i filologi bizantini che affrontano i nubifragi al largo delle coste greche; i Fenici che popolano i santuari marittimi delle isole greche, dedicando ex voto alle loro divinità orientali e creando le premesse per il grande sincretismo religioso che ha irrorato per secoli il Mare nostrum; gli osservatori di stelle di Chio, che negli astri trovavano una commovente testimonianza della vita dopo la morte; i poeti romantici europei, infatuati della causa greca e dell’idea di un perpetuarsi delle grandi glorie del passato; i cantori neogreci del Novecento, costretti ad esili politici per l’occupazione nazifascista e ad una vita che ritrova senso se vissuta cuore a cuore con il battito del mito e degli eroi del passato, ancora vivi sulla Terra.
L’elevatissima qualità scientifica dei contributi ed il loro inestricabile legame con le percezioni e gli affetti umani creano un equilibrio mirabile, che rifugge i due principali rischi che affliggono ogni tentativo di raccontare la Grecia nella sua interezza storica, letteraria e geografica: l’eruditismo fine a se stesso ed il patetismo svenevole. Grande è perciò la mia ammirazione nel parlarvi e nel consigliarvi la lettura di questo importante volume, in virtù della varietas di sguardi di cui si compiace, provenienti da specialisti di discipline solo apparentemente divergenti – storici, bizantinisti, classicisti, semitisti, archeologi – della sua profondità riflessiva e poetica, tale è la trattazione di grandi letterati neogreci altrimenti tendenzialmente taciuti, indi della sua verità, che sono certa ogni accorto viaggiatore di geografie interiori ed esteriori continua a sperimentare: ovverosia la ricerca, in fin dei conti, di una verità, di un sentimento, di se stessi.

(Di Alessia Rovina, classicista e studiosa di teatro)

 
Note al testo:


1. Pindaro, Pitiche, IV, vv. 327-337.

2. Apollonio Rodio, Argonautiche, vv. 77-81, 140-142.

3. Vorrei con tutto il cuore poter dire di essere stata la prima a partorire questo pensiero così colmo di poesia, ma devo forzatamente e con piacere rimandare per questa riflessione ad un capolavoro cinematografico italiano spesso ignorato: Mediterraneo, di Gabriele Salvatores, vincitore del Premio Oscar come Miglior film straniero nel 1992. Il premio venne ritirato dal regista con un invito rivolto al mondo, tanto garbato quanto fondamentale: scegliere la pace, non la guerra. Gli anni erano quelli in cui i conflitti nell’ex-Jugoslavia erano al loro apice, e nuovi orrori si preparavano, ma le parole ed il film di Salvatores furono anche un capitolo di ammissione di colpa e riconciliazione tra due Paesi così vicini, Italia e Grecia, resi nemici dal vulnus del Novecento.

Edizione di riferimento del libro commentato:


Philoxenia. Viaggi e viaggiatori nella Grecia di ieri e di oggi, Mimesis, 2020

Collana: Classici contro

A cura di: Andrea Capra, Stefano Martinelli Tempesta, Cecilia Nobili



Per una lettura del Filottete di Sofocle, sempre in questa rubrica:

Declinazioni di solitudine (Sofocle)


12 luglio 2021

Sette quadri da "La Prigioniera" – Per Proust 150




Bianco su bianco - Champlas du Col
Foto di Claudia Ciardi ©



Per il compleanno di Marcel Proust – quest’anno davvero speciale, ricorrono infatti i centocinquant’anni dalla nascita – esce l’antologia proustiana “Sette quadri da La Prigioniera” edita da «La Recherche». Hanno partecipato ottantasei autori.
Il mio racconto Una meditazione a Spinalonga si ispira in parte alle suggestioni di Spoon River ed esplora il senso di solitudine che colpisce il malato. Auspicando un riscatto di questa come di ogni condizione che reprime l’umana libertà, in nome della poesia.

Prendetene e leggetene tutti.
Di seguito il link a cui scaricare liberamente il libro
http://www.larecherche.it/librolibero_ebook.asp?Id=253


Colgo anche l’occasione per invitare i lettori a riprendere in mano l’antologia uscita nel 2020, Quarantena a Combray, dedicata all’esperienza disorientante e allucinata delle nostre settimane sospese a inizio pandemia. Arricchita con testimonianze fotografiche dalle città deserte. Segnalo in particolare il racconto I giorni del rificolone di Nicoletta Manetti, ricordo di un’infanzia nella campagna fiorentina, suggestivo e commosso resoconto del tempo perduto.

Il libro ha anche una versione a stampa distribuita su Amazon.




Infine offro qui un’altra mia prosa del 2018, Iridescenze, che non fu accolta nello spazio culturale dedicato ai racconti brevi al quale lo avevo allora proposto. Rileggendolo mi pare abbia conservato intatta la carica emotiva – e linguistica – dei giorni di quella scrittura, tanto che a differenza di altri pezzi me lo sento ancora addosso.


 

Iridescenze

 
Solitario albero in un campo e il fosso al bordo del binario ancora invaso dalle ombre. Primo mattino del mio primo viaggio da queste parti. E tutto così impalpabile da rasentare l’irreale. Provincia e centro corrono paralleli sotto un cielo straniante che da anni li ha messi alle corde, ugualmente svuotati, in bilico tra crisi e assoluzione. Ognuno dentro il suo girone, umanità accolta poi perduta, la tensione dei vinti che avvelena il quotidiano, giornate ordinarie nelle curve dei pendolari. Fila via questo treno fra campagne e fossili industriali, è una scheggia di tempo che attraversa passati e presenti, in ciascuna sosta frugando dentro le spire delle altrui attese.
Ora sul vetro opaco della carrozza il sole scopre una zampa, molle, in equilibrio precario, leggermente sollevata dal vento, che in tal modo esaspera la sua improbabile presenza lì. Per il resto del viaggio si è costretti a fare i conti con un’idea di lacerazione che sconcerta, e il rimando a quell’insetto spezzato ha risvolti ossessivi. La fronda che sbatte nella lamiera del vagone viene a scuoterci, il turbinare di rami e foglie con quel rumore tagliente come una frustata tocca in noi qualcosa di accuratamente nascosto, e come non pensare al misero essere sorpreso là in mezzo dalla furia degli elementi. Un incidente effimero, eppure sulla pendula zampa staccata potrebbe quasi darsi appuntamento l’intero universo sofferente, è uno strappo destinato a colmare la visuale. E lungo la curva della sua fibra organica la luce gioca a suscitare un’iridescenza, un ultimo lampo vitale che sembrerebbe opporsi al gelo della dissoluzione. In effetti la zampa posseduta da quell’istantaneo brulichio avrebbe potuto anche riprendere il suo cammino o vaticinare qualcosa.
La sera il rientro è meno teso, però disordinato, i corpi si governano male perché c’è stanchezza. Dalla stazione le luci dei piccoli cimiteri in collina sono un faro gentile, perfino rassicurante, e si starebbe ore a guardarli, dimenticando tutto. Il cielo all’imbrunire vuol toccare terra. Allora tra le fatue luci e le nuvole basse ecco di nuovo la lieve linea di un’iridescenza, un arco sottile simile a una gamba, filiforme, impercettibile come un sogno dietro una vetrata. Un guizzo fra le tombe e le case, il muro caldo lungo la stazione, i fossi di campagna invasi dalla luce ma per poco, un insetto morente, o già dissolto, da qualche parte in un canneto. Presto sarebbe venuta la notte con le sue sagge coltri.

 
(Di Claudia Ciardi – giugno 2018) 

 

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eBook n. 247 ::
“Sette quadri da La Prigioniera, di Aa. Vv.

LaRecherche.it [Quadri]

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Proponi questo libro ad uno o più lettori: invia il collegamento all’eBook

http://www.larecherche.it/librolibero_ebook.asp?Id=253

        

Di Aa. Vv.

pubblicazione del 10/07/2021 ore 12:00:00




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