Verso
la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento viene riscoperta in pittura la
tecnica dell’encausto. Tra gli artisti più noti ad averla praticata o solo studiata ci sono Paul
Klee e Paula Modersohn-Becker, nomi legati alla sperimentazione di nuovi
linguaggi figurativi.
La
Becker in particolare fin dai suoi esordi perseguì con coerenza la propria idea
di arte, una semplice e nobile rappresentazione, uno scavo nella materialità
delle forme fino all’essenziale, spoliazione, alleggerimento, distacco dagli aspetti psicologici,
dalla concettosità vacua, conquista i cui risvolti volle esprimere anche nel modus
operandi. Perché la materia è mater, sostanza materna, elemento che
nutre, centro emotivo che non ha filtri ma solo istinto, impulso, genuino
amore.
E
appunto l’encausto (dal greco enkaustès, “mettere a fuoco”), metodo
decorativo noto fin dall’antichità – emblematici gli oltre seicento dipinti su
tavola che sono stati rinvenuti nella necropoli di Fayyum in Egitto, datati
fra il I e il III secolo d. C. – distinguendosi per la pastosità e la ruvidezza, assecondava alla perfezione queste idee. Negli anni dell’apprendistato berlinese, già sensibile alle
esperienze di rottura, la Modersohn fu colpita da Edvard Munch, quindi a Parigi,
dal primo soggiorno nel 1900, proseguì in autonomia la sua rivoluzione plastica
accarezzando con penetrante curiosità le radici cézanniane e dei Nabis fino
alle soglie del cubismo.
L’opera, in quanto frutto di una sintesi fra realtà e interpretazione, è un’architettura
soggettiva che solo in un secondo momento, dopo l’impronta data dalla sfera
emozionale, torna alla “prova” della natura, e in tale confronto si stabilisce
il grado di verosimiglianza, la forza della creazione. Qualcosa che in un lasso
di tempo vicino a quello in cui operò la Modersohn richiama i concetti fissati
da Giovanni Segantini: «La materia deve essere elaborata dal pensiero per
salire a forma d’arte durevole. […] La superiorità umana incomincia dove il
lavoro semplicemente manuale e l’azione materiale finiscono, ed incomincia l’amore
ed il lavoro fatto con intelletto». Dunque, non pedissequa imitazione né costruzione
cerebrale ma paziente esercizio di ascolto, saper ascoltare con la vista,
coltivare il dono che ci comunica l’essenza segreta delle cose, penetrarne la matrice
simbolica. In virtù di queste capacità sensibili l’artista ha il compito di infondere
nel suo lavoro la spontaneità della propria visione.
Durante
la permanenza parigina Paula Modersohn, che non si mostra insensibile alla
cultura simbolista fin-de-siècle, volle visitare gli atelier di Vuillard e di Denis,
e nello spirito di Pont-Aven si lasciò incantare dalle rochers sculptés di
Rothéneuf a Saint-Malo, dando una sua lettura personale non solo secondo le
note di quella materica concisione che le è propria, ma insinuando possibilità concettuali
altre. Nell’ultima fase, 1906-07, gli oggetti messi in mano alle sue figure,
fiori o frutti, non parlavano più con accenti letterari, piuttosto entravano in
una specie di limbo formale sulla linea di Cézanne-Picasso.
Lungo il medesimo alveo l’incontro al Louvre con i ritratti delle
mummie rinvenuti nell’oasi del Fayyum, scoperti nel 1887, una metà dei quali
acquisiti da Theodor Graf (1840-1903) – collezionista, mercante d’arte,
studioso, come il suo illustre connazionale Hofmannsthal ritirato a Rodaun, la
Weimar austriaca – fu per la pittrice un’esperienza folgorante. In particolare
in una lettera spedita al marito mentre racconta di essersi avvicinata a
Rembrandt e Veronese, si sofferma anche su un’immagine funeraria a encausto, la
numero 12, stando a Graf un ritratto di Cleopatra (lettera a Otto
Modersohn da Parigi del 17 febbraio 1903). Freschezza del segno, intensità primitiva,
grado zero della forma: le coordinate della sua stessa creatività venivano a darle
conferme da epoche remote.
Nella
nostra memoria l’encausto è per lo più associato al rovinoso scioglimento dei
colori della
Battaglia di Anghiari di Leonardo da Vinci preparata per il Salone dei Cinquecento
di Palazzo Vecchio a Firenze. Il
processo di encaustizzazione – la parte più delicata in questa tecnica –
consiste nell’ammorbidire attraverso il calore lo strato superiore dell’opera permettendo
ai pigmenti di risalire in superficie. Se il calore è troppo intenso lo strato
pittorico rischia di sciogliersi, mentre se la superficie non è
sufficientemente calda ne scaturirà un’increspatura.
E
tuttavia, a
differenza dell’affresco non richiede
tempi di esecuzione eccessivamente rapidi (Leonardo stesso lo prediligeva proprio perché era molto lento nel realizzare i suoi lavori); in
più, la viscosità del colore così lavorata, disciolta a caldo nella cera e l’opera successiva di riscaldamento della superficie dipinta, per quanto siano di complessa esecuzione, garantiscono un risultato finale assai luminoso, quasi vellutato, oltre a permettere l’utilizzo di qualsiasi pigmento disponibile in natura.
Mentre
l’encausto rivela compiutamente alla Modersohn la materialità del quadro, con
le sue incongruenze e bizzarrie, proprio in quanto creatura umana, espressione
di una sensibilità imperfetta, istintiva e perciò autentica, si spinge in
avanti approdando al monotipo (dal greco monos e typos, “impressione”).
Nell’estate
del 1906 realizza l’Autoritratto con mano sul mento. Partita
da una prima tela, aveva impresso su fogli di carta, anche di giornale,
l’effige non ancora seccata, ridipingendovi sopra. All’insegna di quell’asciuttezza
ruvida e alleggerita, sua cifra formale da sempre, si trattava qui di ridurre
il volto a ‘maschera’. La stessa mano al mento, che sembrerebbe indicare
meditazione, una postura per certi versi malinconica, risulta solo un pezzo di
vernice, una struttura a se stante. In questo
lavoro per “sottrazione” (una delle tecniche ma non l’unica del detto “monotipo”)
l’artista procede dallo scuro alla luce. L’immagine viene fatta emergere con l’aiuto
di stracci, con le dita, stecche, manici di pennello. In modo di lavorare estremamente
fisico, una sorta di arte maieutica praticata con i supporti scelti.
La
precoce scomparsa di Paula Modersohn ne interrompe l’opera in un punto cruciale.
Un anno prima della sua morte sembrano essersi fissati i canoni principali che
dagli inizi a Berlino, dall’eremitaggio di Worpswede fino alla ricerca parigina
aveva perseguito con tenacia, istintivamente rivendicando e difendendo in ogni sua
fase l’indipendenza del proprio percorso. Colei che in modo un po’ riduttivo e
sbrigativo è definita l’ispiratrice dell’espressionismo, aveva dato prova di
avere dentro di sé tanti “semi ribelli” in attesa di germogliare su terreni non
necessariamente vicini tra loro, quando non affatto esplorati.
(Di Claudia Ciardi)
Autoritratto con mano sul mento - monotipo - estate del 1906