Max Klinger, Raub des Lichtes, acquaforte, 1890-1893
Proseguono
i dialoghi sull’antico insieme ad Alessia Rovina, che condivide qui con noi i
frutti di alcune giornate di studio nell’ambito di un Workshop internazionale
organizzato dall’Alma Mater Studiorum di Bologna, capofila del progetto “Encode”/Papirology for non-specialists,
il cui archivio web la nostra collaboratrice suggerisce di raggiungere.
Questo
discorso sul γράφος, sul segno inciso, è qualcosa che riempie di commozione. Perché
si sta di fronte a una parola che stringe un patto con lo spazio, che
letteralmente si fa materia, memoria che s’incarna. La scrittura espone se
stessa e chiama il viandante, è arte che si fonde con la mano che ha scritto,
con la mano che ha scolpito, maestria di un lapicida che dà rappresentazione a
un mondo intero. Orazio asseriva che l’opera poetica, dunque il libro, fosse qualcosa
di più durevole di un monumento (exegi monumentum aere perennius), ma è pur
vero che la scrittura affidata alla pietra ha mostrato una straordinaria longevità.
E ce lo spiega molto bene la nostra studiosa nel suo articolato contributo,
citando proprio alcune delle più sorprendenti campagne archeologiche grazie
alle quali si sono riportati alla luce imprescindibili documenti.
Non
mi sembra di ripeterlo abbastanza. L’entusiasmo dei più giovani per le lingue classiche,
per le culture antiche, ossia per un tipo di studio che può sembrare
completamente svincolato dai nostri tempi, dalle cadenze affrettate che ovunque
ci vengono imposte, è un dono. Ascoltarlo da loro, sentirselo raccontare un enorme
privilegio. Addentrarsi nel mondo antico richiede un’immersione totale – certo
vale in generale per ogni scienza – ma in tal caso ci si veste sempre dei panni
di altri esseri umani e in questo dialogo interiore, che si impara a praticare
negli anni meticolosi di traduzione e ricerca sulle fonti, si scopre un tempo
calmo, si comprende il paziente esercizio sulla parola, si impara a mettersi su
strade non battute, luminosa metafora del viaggio che tenta la conoscenza
(altro luogo immortale della poesia greca scandito fino all’ellenismo, come
dimenticare l’esortazione di Callimaco nel prologo degli Aitia!).
I
giovani classicisti sono tra i nostri primi portatori di fuoco. Perché
custodiscono questi accenti diversi, perché recano in mezzo a noi il soffio
vitale che fu di altri e si sforzano di farci sentire vicino, quasi vivo, quel
respiro. L’epigrafia è forse tra gli ambiti disciplinari che più ci mettono in
contatto con questi sentimenti, con l’intensità di movenze non scontate – è il
passo lento di cui parla Alessia, quando bisogna colmare una lacuna o tentare
un’interpretazione nella pietra sbrecciata. Ed è molto più che cercare un’ombra,
un’orma, è diventare in tutto quella traccia.
Buona
lettura!
(Di Claudia Ciardi)
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Epigrafia - Sapienza e sentimenti incisi
Di Alessia Rovina
per la rubrica «L’Argonauta»
Quando
ci si inizia ad addentrare nello studio del mondo antico, sia esso il mondo
greco, il mondo romano, del Vicino Oriente, o – perché no! – del Sud America
prima della colonizzazione spagnola, da subito occorre confrontarsi
con la miriade di tipologie che costituiscono la macrocategoria che noi
conosciamo sotto il nome di “fonti”. L’accostamento ai testi letterari, foriero
di indubbie delizie qualora non sia ostacolato dalla mancata decifrazione della
lingua, è difatti una modalità davvero parziale di guardare al passato, pur
essendo questi testi talvolta presenti in una copia tale da far sospettare che
nulla possa mancare. A dire il vero, l’accostamento stesso ai soli testi
letterari è anch’esso parziale, senza il sostegno, il supporto e l’ausilio che
spesso e volentieri viene offerto da ciò che su rotolo non è.
L’epigrafia
è senza dubbio uno degli ambiti di studio di maggiore necessità per una
comprensione dell’antico che sia a tutto tondo. Spesso vista come minuzia
polverosa (non diversamente da come talvolta viene giudicata un’altra materia
peculiare, la papirologia), nel contesto italiano linfa vitale a questa
disciplina storico-filologica è stata infusa da una delle maggiori epigrafiste
del secolo scorso, Margherita Guarducci (1902-1999), la quale condensò
conoscenza ed esemplarità dell’epigrafia – andando ad indagare peraltro sia il
mondo classico sia il mondo della cristianità – negli ormai storici quattro
volumi dell’Epigrafia Greca, vera e propria summa a cui è sempre bene
ritornare, per non avere la tentazione di chiudersi nel recinto di una sola
esperienza dell’antico. L’epigrafia in particolare offre, soprattutto per il
versante ellenico, fondamentale supporto per l’indagine linguistica e
dialettologica dell’antichità. Ben consapevoli di quanto la realtà linguistica
della Grecia antica fosse varia e variegata, e di come i testi a noi pervenuti
spesso restituiscano una coloritura imprecisa dettata dalla redazione
successiva rispetto al momento della performance, che era attimo
inevitabilmente orale, e dall’intervento spesso “normalizzatore” della mano dei
filologi di età ellenistica, componenti le quali ci consegnano una conoscenza
spesso sbiadita delle caratteristiche dialettali, recuperabili però in modo
assolutamente interessante dal repertorio epigrafico. E
ciò attraverso iscrizioni disseminate tra Occidente, Mediterraneo ed
Oriente che ci parlano, ad esempio, dell’andamento della grafia a Creta
rispetto ad Atene, dell’aspirazione pervasiva prettamente spartana, oppure
ancora delle peculiarità linguistiche dell’arcadico, lingua non presente nella
letteratura a noi giunta.
E ancora, spostandoci nelle terre oggi martoriate da conflitti e disperazione,
proprio grazie a quanto è stato inciso su pietra dai lapicidi di epoche anche
di molto precedenti la classicità ellenica, veniamo
a conoscenza di lingue di grande fascino ed
importanza, attestate solo epigraficamente: ad esempio il fenicio, l’aramaico
antico, il moabitico, per citarne solo alcune.
Iscrizioni
su pietra e su altri materiali avevano un significato gnomico e sapienziale dai
caratteri paideutici ed esortativi. In tale direzione vanno le epigrafi
templari che ornavano santuari dell’antichità, da Delfi, Gerusalemme e Sidone.
Inoltre,
le incisioni erano sinonimo di diplomazia e civiltà: ci sono note iscrizioni
plurilingui volte ad estendere il più possibile la comprensione dei contenuti
esposti, oltre ad epigrafi che riproducono trattati stipulati tra popolazioni o
πόλεις differenti – peraltro utili anche per ricostruire quei rapporti che noi
contemporanei definiremmo di “politica estera”. Che dire poi delle informazioni
di carattere giuridico che siamo in grado di ricavare da queste parole su
pietra! A ragion veduta grande fascino suscita ancora l’oggetto di una
straordinaria scoperta avvenuta nel 1884 grazie al lavoro di una importante
missione archeologica italiana a Creta, guidata da Federico Halbherr, che portò
al rinvenimento e allo studio del monumentale Grande Codice di Gortina,
ancora oggi modello di studio.
Ma
l’ambito umano più affascinante è senza dubbio quello che coinvolge i
sentimenti, i pensieri, le emozioni ed i timori, filo rosso che non conosce
cesure temporali, ed è anche in questo luogo intimo ed universale che
l’epigrafia ci permette di entrare, con un passo volutamente lento, dovuto alle
lacune che le iscrizioni spesso presentano ed ai compendi più e meno noti da
sciogliere, con delicatezza, lucidità e rispetto in primis della coerenza
scientifica – e proprio questo ultimo punto restituisce la complessità e la
delicatezza che connota il procedere degli studiosi di questa disciplina. Gli
epigrafisti hanno la fortuna di entrare in stretto contatto con una delle
produzioni caratteristiche dell’antichità greca ed italica: gli epitaffi.
Letteralmente, le parole scritte sulle tombe, quindi in contesti funebri. Gli
epitaffi greci, in particolar modo, sono andati incontro ad una evoluzione
sempre più raffinata, assumendo una loro peculiare connotazione formale:
rigorosamente in versi, venivano costruiti come caratteristici epigrammi, di
foggia raffinatissima e metro inequivocabile – basti pensare che autore di
epitaffi fu anche il celebre poeta Posidippo, le cui commemorazioni funebri
sono racchiuse anche nell’ultimo ritrovato papiraceo, P. Mil. Vogl. VIII 309.
In
fondo, però, ci rendiamo conto di non essere davvero mutati rispetto a questi
tempi che sembrano tanto estranei. La storia abbonda di epigrafi, abbonda di
iscrizioni, di graffiti sentimentali e politici su pietra, di notizie
dell’enfatico poeta Byron, che scalfì con la sua firma una colonna del sacro
tempio di Poseidone a Capo Sounion, in un impeto di furore romantico e
classicheggiante che noi ora definiremmo a dir poco vandalico ed incosciente.
Il
bisogno di raccontare, dalla pietra, al viandante a cui si richiede di
manifestare una συμπάθεια affratellante, oppure la necessità di narrare ciò che
una vita è stata, o ancora la dolorosa constatazione della sua inequivocabile
brevità e l’accettazione delle verità più intime e contraddittorie, spinte interiori
che allora come ora ogni essere umano cova nei recessi del proprio animo.
Molte
volte ho studiato
il
marmo che mi hanno scolpito –
una
nave con la vela piegata in riposo nel porto.
In
verità non ritrae la mia destinazione
ma
la mia vita.
Poiché
l’amore mi venne offerto ed io fuggii dalla sua delusione;
il
dolore bussò alla mia porta, ma io avevo paura;
l’ambizione
mi chiamò, ma io ero atterrito dai suoi rischi.
Pure
tutto il tempo avevo fame di un significato nella vita.
E
ora so che dobbiamo innalzare la vela
e
cogliere i venti del destino
ovunque
essi guidino la nave.
Dare
significato alla vita può sortire follia,
ma
la vita senza significato è la tortura
dell’irrequietezza
e del desiderio vago –
è
una nave che anela il mare eppur lo teme.
E. Lee Masters, Antologia di Spoon River, traduzione italiana di L. Ciotti Miller
Bibliografia consigliata:
M.
Guarducci, Epigrafia greca, 4 voll., Istituto Poligrafico e Zecca dello
Stato, 1967-1978
Epitaffi
greci, a cura di E. Lelli, Bompiani, 2019
G.
Garbini, Introduzione all’epigrafia semitica, Paideia, 2005
(Di Alessia Rovina, classicista, studiosa di teatro, ricercatrice)
Stele funeraria di Demokleides, figlio di Demetrios, inizi IV sec a. C.
marmo, cm 67
Atene,
Museo Nazionale