Riprese
iniziate nel 2021 dopo un’attesa di anni – ben diciotto – prima che il progetto
vedesse finalmente la luce. Un copione in prima bozza a lungo tenuto in un
cassetto. Pupi Avati nel frattempo si dedica a molto altro ma continua a
sentire l’urgenza di quella scrittura. Un’incubazione
protratta nel tempo e mai accantonata che non deve sorprendere, perché il
cinema di Avati è fatto di delicata poesia, di tracce poetiche scomparse,
violate o esiliate dai cambiamenti sociali, dal distacco che l’uomo
contemporaneo sembra essersi imposto verso tutto ciò che è richiamo
sentimentale, intimità, evocazione. Diceva lo scrittore Hermann Broch che
c’era forse da temere che l’umanità fosse caduta in una fase di psicopatia –
lui si riferiva all’ascesa dei totalitarismi e alla conseguente carneficina
della seconda guerra mondiale. E in effetti la scomparsa – o quasi – dell’anima
poetica, presa al laccio della comunicazione istantanea, delle pubblicità
patinate che chiudono fuori dalla porta un mondo impoverito e belligerante, dei
tam-tam mediatici, della svendita di valori, identità, radici, del prevalere
dell’urlo, della polemica, della parola superficiale sulla pacatezza e la
profondità del dire, innegabilmente s’intreccia con una decadenza della nostra
epoca – in generale di ogni epoca umana che abbia deciso di non “cantare”. La
poesia, si sa, ha bisogno di cuore e di tempo, è un rito con cui la smemorata
frenesia dell’oggi mal si concilia – dunque di ancor più tempo ha forse bisogno
la sua traslazione in immagini. Recitarla, o meglio recitare una vita in poesia
com’è stata quella di Dante, significa saper tornare a raccogliersi, saper trovare
accenti sommessi, recuperare la chiave di un racconto, anzi una sonorità, che
adesso tende a sfuggirci. Del resto, il nostro sommo poeta fu vittima di odi
sociali, di un ostracismo verso la poesia e i suoi rappresentanti, di quella
psicopatia sterile e violenta di cui si è detto, che già secoli fa allignava
nel collettivo. In sottotraccia questo parallelo tra lo smarrimento e l’ignoranza
di ieri e di oggi che comporta la messa al bando dei poeti, è qualcosa che il
regista ci addita come un monito, specchio di maniacalità
e conflitti ovunque accesi in ogni tempo.
E
forse proprio per la difficoltà a tornare a una purezza di sguardo che un film
sulla poesia comporta, così da far risuonare la poesia prima di tutto in noi,
sgombrando il campo dal rumore di fondo che lo invade, non sono molti i
lavori cinematografici che la raccontano, sorprendentemente pochi i tributi del
cinema italiano ai nostri letterati. Pensiamo al Leopardi di Martone. Solo nel
2014 abbiamo avuto un film sul nostro
grande. Ma
Pupi Avati ha nella propria narrazione la capacità di recuperare quell’animo perturbato
e commosso che ci manca. C’è poesia nel cinema di Avati – quanto mi ha
incantata la sua Festa di laurea, protagonista un intenso Carlo Delle
Piane, ritratto di un’impoetica e svuotata borghesia contro la spontaneità
sentimentale di chi ha poco o nulla, da un punto di vista materiale, ma può ancora
contare su una straordinaria ricchezza emotiva.
L’opera
su Dante è ambientata nel settembre 1350, alla soglia del trentesimo
anniversario della sua morte, e mette in scena un serrato raffronto fra
Boccaccio, narratore dotto e affezionatissimo a quello che considera un padre,
e il poeta della Commedia. Il primo studioso del poema dantesco, celebre
anche per aver inaugurato le letture pubbliche a Firenze in cui ne
recitava e commentava i canti, riceve l’incarico dalla propria città di portare alla
figlia, monaca a Ravenna, un compenso in denaro a titolo di risarcimento tardivo
per le sofferenze inflitte al padre e alla sua famiglia. Ne scaturisce una
sorta di dialogo a distanza fra i due letterati, mentre Boccaccio calca fisicamente le
orme del maestro, ripercorrendo i luoghi dell’esilio, raccogliendo
testimonianze durante il tragitto che si legano anche alla storia di
Firenze, prima e dopo la presenza dell’Alighieri. Con un evento spartiacque: la
peste nera del 1348 che contribuì a sedare le faide, perché i
lutti in ogni famiglia furono così numerosi che l’odio antico venne assorbito da
una tragedia immensamente più grande. La torre del “guardamorto”, dove erano esposti i cadaveri che non si erano potuti riconoscere, si staglia in
questa ricostruzione come una sorta di girone infernale; una specie di luogo dell’azzeramento
che mostra tutta la nullità dell’essere umano, spazzato via nella sua ridicola
superbia da forze che non è neppure in grado di immaginare. Anche qui, linee
parallele con quanto abbiamo vissuto e stiamo vivendo.
Ad
Alessandro Sperduti che abbiamo già visto in diversi lavori a carattere storico
dove ha messo in luce tutta la sua bravura – Torneranno i prati di Olmi
e poi le serie sui Medici e Leonardo da Vinci – è toccato il compito non semplice di
interpretare gli anni giovanili di Dante. Sia lui che il veterano Castellitto,
nei panni di Boccaccio e recentemente anche in quelli di D’Annunzio, ci
regalano belle sequenze di recitazione. È un Dante carnale fuori dagli
stereotipi, a dimostrazione che la verità poetica – come scrissi parlando di
Ungaretti – sta nel sangue e nel fango della materia. La poesia è tanto più
profonda quanto più affonda le unghie nella pelle e immerge lo sguardo nelle
bassezze della vita. Per Ungaretti fu la trincea, per Dante fu ugualmente la
guerra, e poi la lordura della politica, la violenza del rovesciamento delle
sorti, la povertà, la paura della continua persecuzione. Ma ebbe sempre dentro
il dio della poesia a sollevarlo, provava cose che lo innalzavano oltre tutto
il dolore, e che nell’intensità di quel dono lo riscattavano. Se una tregua c’è
stata in questa vita, è proprio nell’immensità della parola poetica. È un qualcosa che
il regista fa affiorare nell’intera rappresentazione, testimonianza di un bene
che travalica ogni cattiveria.
La
stessa diafania di Beatrice – talento e bellezza di Carlotta Gamba – si sbilancia
continuamente tra carnalità e ritratto gotico. È stilnovista e angelica solo
perché bionda e con gli occhi azzurri. Ma per il resto un carattere fuori dai
canoni – una sorta di baccante rassegnata al suo sacrificio, consapevole di
tutto e della morte soprattutto. Le donne di Dante – anche quelle che ebbe
durante l’esilio, prostitute comprese, a quel che se ne sa amava e molto il
gentil sesso – sono qui tutt’altro che madonne indecifrabili. Condividono l’amore
e il dolore del poeta, ne mordono il cuore.
Insomma
Pupi Avati ha fatto piazza pulita di molti cliché che diversamente avrebbero
allontanato e reso soporosa una lectura Dantis. Quindi non è condivisibile a mio
parere chi vede nel film uno scivolamento didascalico. Mentre affermo che,
proprio in osservanza della rottura degli stereotipi, per l’aspetto di Dante si
poteva evitare quello del naso enorme e adunco; attenendosi piuttosto a quanto
ci rivela l’affresco del Bargello, forse la sua più verosimile “fotografia”.
Questa
breve riflessione sul meritorio e coraggioso impegno di Avati su Dante – perché
portare adesso la poesia in sala e raccontare un poeta che ha letteralmente
plasmato la nostra lingua richiede una certa dose di temerarietà – non può che
concludersi con una dichiarazione rilasciata dal regista all’inizio delle
riprese: «Attendi tanto. Diciotto anni prima che ti sia concesso di realizzare
un film. Lo avevi nitido nel 2003 quando hai scritto la prima versione del
soggetto. Nel frattempo hai fatto altro, molto altro, ma quell’impegno con
Dante ti è rimasto dentro, tampellante, facendoti avvertire come una colpa il
trascorrere del tempo. Poi, finalmente, incontri chi ti ascolta e non rimanda,
chi apprezza l’idea e ti trovi “impreparato” a quell’assenso, a
quell’accoglienza. Questo il mio stato d’animo di oggi, a poche ore dall’inizio
delle riprese. Che si realizzi nell’Italia di oggi in cui le gerarchie di cosa
e di chi conti sono dettate da ben altro, un film sulla vita di Dante Alighieri,
ha dell’inverosimile. Non oso ancora crederci».»
E
noi non possiamo che dire grazie.
(Di Claudia Ciardi)
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