28 ottobre 2022

Veneri moleste e zuppe al pomodoro

 

Non è bello quello che si è visto nelle ultime settimane. Qui nessuno si scandalizza ma almeno un certo disappunto non si può tacere. Un giorno su due abbiamo assistito a incollamenti e lanci di zuppe su quadri iconici del patrimonio mondiale; e ultima in serie, per ora, la prodezza delle Veneri nostrane. Leggendo i post delle ragazze in questione che tanto si sono inalberate difendendo nel loro gesto una presunta necessità di emancipazione, il tono è da bordello in giù (“fate una proposta, noi abbiamo pubblicizzato”…ecc… in riferimento allutilizzo delle immagini). E ripeto, nessuno si scandalizza; però si chiama esibizionismo, non emancipazione. Viene anche da chiedersi se non abbiamo sbagliato in qualcosa o in più di qualcosa, dal momento che certe persone si sentono allimprovviso avallate nell’agire così, violentemente direi, attraverso i propri corpi e il proprio linguaggio in rapporto a quel patrimonio culturale che con tanto sforzo, specie dopo i disagi della pandemia, ci stiamo impegnando a difendere, custodire, tramandare.
Pare esserci materiale in abbondanza per un ciclo di lezioni di antropologia e psicologia. Il che sarebbe anche utile per capire cosa ci stia succedendo. A parte un’infinita decadenza di cui non si scorge appunto il fondo, sembriamo degli ammorbati o invasati, come preferite. Dall’interdizione dei green pass ci siamo catapultati in una strana dimensione pubblicistica, forse per recuperare il terreno perduto, chi lo sa, e che al contrario sta rivelando tutti i suoi lati più ambigui. Lati oscuri e perfino isterici. Diceva bene qualcuno a commento delle tante scie luccicanti sull’ultimo red carpet, che certa gente sembra proprio “morta di fan”. 

Sul fenomeno social mi sono già pronunciata e sono sempre più convinta che queste scatoline siano sulla via del non ritorno. L’autoreferenzialità non paga in nessun ambito, e qui ormai è solo un continuo rimbalzo entro dei confini già tracciati, delle regoline statiche, una policy d’utilizzo altrettanto invecchiata e superata, legata a doppio filo a un’opacità circa l’archiviazione dei dati che permane nel tempo. Senza innovazione, senza la costruzione di un’interazione sana (ma è poi possibile?) poco o nulla rimane. Tranne il clamore, la pose scomposte, la volgarità; e ciò aiuta il comunicare o sottrae qualcosa? Direi più la seconda. Per non parlare delle milionate di seguaci che ogni volta si tirano in ballo quando monta una polemica. Ma dove, quando? Chi e cosa sono questi presunti milioni? Ma per piacere…
I declamatissimi spazi della novità sono dei fossili ripetitivi e scontati. Sembra che Elon Musk dopo molti tira e molla abbia finalizzato l’acquisto di twitter. A quel che si dice vorrebbe rimuovere la censura e dotarlo di elementi più dinamici (qualcosa di più simile a WeChat); in teoria ha ragione. Finora infatti si è solo involuto in un contenitore inservibile, anche molto infiltrato, e chiaramente controllato. Ma io resto dell’idea che siano sfide già perse in partenza. E poi, dibattere di queste cose nell’urgenza che stiamo vivendo? O non ci sembra ancora grave quello che abbiamo sotto gli occhi?
Si pensa forse che questi strumenti, in un imminente accrescersi dei conflitti nel mondo, possano offrire aiuto? Che la profilazione e la circolazione delle notizie sulle piattaforme aiuti a far pendere la bilancia da una parte o dall’altra? Può darsi. Del resto la guerra tra Russia e Ucraina ha dimostrato come in larga parte si stia combattendo proprio sul terreno del focus mediatico.
E che incubo! In quale incubo ci stiamo cacciando! Presi dalle nostre Pomone scollacciate, dalle professoresse del “corsivoe” (anche qui topici momenti di popolarità televisiva) e dagli attivisti imbrattatori, mentre a occidente e oriente si lavora con alacrità a rinforzare gli arsenali nucleari. A che punto siamo!

Sempre in questi giorni mi capita sotto gli occhi un post di Silvia De Felice, produttrice di programmi d’arte per Rai 5. Parlava con cognizione e giusto scontento della sua pessima esperienza in visita al Louvre; la torma dei visitatori rendeva impossibile non la vista ma “l’avvistamento” delle opere. Cito una sua frase che fa riflettere: «Sono pienamente a favore dello sfruttamento economico dell’arte, perché la cultura sia auto sostenibile, ma credo anche che sia necessario definire un punto di equilibrio tra la commercializzazione e la corretta fruizione». Un intervento molto commentato dai lettori che non hanno risparmiato critiche a diversi dei cosiddetti musei più blasonati. Il punto di equilibrio tra necessità pubblicistica e sfruttamento commerciale da una parte, e dall
altra rispetto della dignitas del luogo che custodisce un patrimonio culturale e che è anche impegnato a continuare a produrre cultura, ecco questo è ciò che ci manca. E si ricollega ai problemi, alle “sindromi degenerative”, alle situazioni tragicomiche di cui si è detto sopra. Perché il rischio, non mi stanco di ripeterlo, è di offuscare il gran lavoro che, nonostante le non poche difficoltà, si prosegue dentro queste istituzioni. Gli scatti di Onlyfans non ci salveranno dagli affanni gestionali, dai budget assottigliati, dalla penuria di contenuti, dall’ignoranza dilagante, dal mancato ricambio del personale, dalla conflittualità ovunque crescente che genera disparità, rabbia sociale, che fa lievitare i costi e che distoglie, allontana, fiacca al punto che anche lo stare davanti a un quadro rischia di non sollevarci più, di non farci più stare bene. Anzi, ciò che sta accadendo intorno a noi e che noi lasciamo accada senza neppure una doverosa considerazione, accelera semmai questo allarmante processo di distacco. Se svendiamo definitivamente la capacità di produrre contenuti veri che aiutino i contenuti generosamente lasciati da chi ci ha preceduto, se calpestiamo questa possibilità, ci resterà solo la spazzatura e sarà difficile, molto difficile dopo, vedere qualcosa oltre limmondezzaio.

 

(Di Claudia Ciardi)











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