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9 ottobre 2015

Risus abundat!



 Duendecitos 
                                   Francisco Goya - Caprichos n. 49


Il riso abbonda e c’è poco da stare allegri. Non di cibo si discute ma di quella espressione liberatoria che solleva l’uomo dagli affanni quotidiani. Il parlare comune agita sulla punta della lingua una scorza di verità. Vi entra infatti un sentire che, applicando alla vita uno sguardo semplificato, ne ricava una saggezza tascabile, pur valida anche se non così esemplare. Il detto latino inclina forse troppo alla censura, «il riso abbonda sulla bocca degli sciocchi». Chi non è stato motteggiato in questo modo? L’ammonimento è chiaro. Ridere, essendo una manifestazione di spontaneità, forse una delle più nobili di cui siamo stati dotati, non va d’accordo con l’eccesso né con la forzatura. Un sorriso non è solo l’affiorare sulle nostre labbra di un sentimento che improvvisamente ci innalza. È un moto di tutta la persona sul cui volto risale un’energia impulsiva, diffusa in ogni parte del suo corpo, della quale non si sospettava l’esistenza, e che invece se ne stava in attesa nelle sue più nascoste cavità. Non a caso avviene che la bellezza di qualcuno, mentre sta ridendo, si trovi accresciuta, come per un incantesimo.  
Ridere in eccesso, a sproposito, è segno di insicurezza, nervosismo, finanche follia. Non ridere mai è ugualmente il sintomo di una perdita del sé. Scontare una delusione spesso basta a farci dimenticare per molto tempo questa sacrosanta valvola di sfogo. Del resto, a soffermarsi sull’etimologia di deludere, è chiaro come l’essere umano sia un pendolo destinato a oscillare tra felicità e assenza di felicità, che non significa con esattezza infelicità ma una gamma piuttosto estesa, per certi versi ancor più insidiosa, di stati d’animo, dalla poeticamente nota mestizia alla più decadente noia. Deluso è chi, suo malgrado, si è allontanato dal gioco, in latino ludus. Il che vuol dire non partecipare a una dimensione di leggerezza e divertimento, di cui il riso è appunto il veicolo di maggiore espressività. 
La nostra epoca, che assomma le più diverse nevrosi e tende a trascurare con scientifica ignoranza gli aspetti essenziali del vivere, ha un rapporto alquanto controverso con l’emotività. Ama circondarsi di sensazioni artificiali, surrogati di mente e corpo, dove il coinvolgimento opera per induzione, e il più delle volte è tenuto a bada fuori dalla porta. È un’emozione addomesticata, svilita, prevenuta in ogni suo slancio. Quando in uno scambio epistolare o in una conversazione si affaccia qualcosa di somigliante a un sentimento, se una frase o addirittura una sola parola osano sfidare gli schemi della medietà, e va letta banalità, che in questo tempo sciagurato sorvegliano i pensieri di uomini e donne, scattano immediate le sanzioni del caso. La parola viene dispersa insieme alla voce che l’ha pronunciata. 
Tutto ciò che invita all’approssimazione, alla fretta, all’opportunismo, perfino al delitto, ottiene il più largo consenso perché, come dire, queste cose sono smerciate ovunque e, tranne la rovina di chi le pratica, non richiedono altro. Quasi che andare al diavolo sia meno compromettente di capire qualcosa di se stessi. Ecco cos’è ora il senso comune. Ogni tanto riemerge il ricordo di un bel paesaggio, e ci scopriamo ambientalisti della domenica, oppure vestiti da cultori dell’arte seminiamo polemiche versando fiumi d’inchiostro sul tale e il talaltro giornale, una rubrica tiene alta la sua picca contro un’altra, ma in un simile baccano la bellezza di un ambiente, la pittura e la poesia restano obliate senza rimedio. E questa attitudine fallace non da altro deriva se non dal sentire poco o nulla le cose dentro di noi, per quello che sono. 
Saper ridere allora, si capisce, diventa impresa assai complicata. Distanza e freddezza cui ormai si accompagna per rassegnazione la sensibilità nel suo complesso, producono una landa desolata sulla quale ci si adagia come bambini già vecchi. E così stando le cose, al ridere non spetta neppure un’esistenza larvale, l’unica sua strada è piuttosto la paralisi. 
E mentre in molti lamentano la gran tristezza che li affligge, mentre è un continuo sparlare di problemi che attanagliano altri problemi, così pesanti e insormontabili da non ostacolare tuttavia la frenetica contemplazione dei difetti del prossimo, e l’isteresi vacanziera scambiata per viaggio, la poesia senza metrica mascherata da avanguardia; mentre è tutto un rumore di tenaglie, uno sforbiciare di astio e invidie, e punzecchiature di egoismo e incomprensioni, tutto pur di non volgere lo sguardo dove serve, navighiamo in questo artificio emotivo all’apparenza accogliente ma che prima o poi si deciderà ai soffocarci.
Così, per non abdicare con troppo clamore a ciò che natura vorrebbe, abbiamo fabbricato il riso per tutte le occasioni. Miracolo della grafica che dissemina i nostri messaggi di rotonde faccine con la lunetta della bocca sempre uguale, né più lunga né più corta, né più storta né meno. Il visino abbozzato si appiccica lì alla fine di una frase, stupidamente ridanciano, e anche un po’ in falsetto, quando parliamo del nulla e nel bel mezzo di un annuncio importante. Accade pertanto che l’intensità vera di una gioia non si avverta e l’invito a ridere o sorridere di una cosa suoni come un’equivoca appendice. E per non farsi mancare nulla, ecco venire a sostegno della risolina in scatola la giornata del sorriso: abitanti della terra, ricordiamoci almeno come ridere!
Si moltiplicano moine intorno a tutto quello che bisogna adescare – il riso e la sua preda, il riso e il suo pantano commerciale, la deriva televisiva, in un quiz si apre il pacco sorriso. Ma che felicità!
No, non abbonda il riso e neanche l’umano.

(Di Claudia Ciardi)

28 febbraio 2014

Wunden der Welt - Ferite del mondo



Ultimi giorni per visitare la mostra ospitata dalla Biblioteca S. Giorgio di Pistoia, Wunden der Welt – Ferite del mondo, nella quale sono presenti alcuni degli scatti che letteralmente hanno scritto la storia del fotoreportage dalle zone di guerra.
L’allestimento documenta le atrocità che si sono consumate in ogni angolo del pianeta, da “Il miliziano colpito a morte” di Robert Capa, indimenticabile narratore della Spagna dilaniata dalla guerra civile, alle primavere arabe. Dagli sguardi annientati dei passanti che scrutano il cielo durante gli allarmi aerei in una Bilbao sfinita dall’assedio (maggio del ’37) a quelli altrettanto persi dei soldati tedeschi che, anni dopo, si troveranno prigionieri in Normandia, sopravvissuti sì ma costretti a fare i conti con la propria sconfitta. È uno scenario lunare quello che trafigge gli occhi dell’osservatore, ovunque, che sia la Germania del ’46 o la Cecenia dei primi anni del duemila; l’impressione davanti a queste immagini è di affondare letteralmente i piedi in un mare di macerie fisiche e emotive. Una collezione di foto d’autore, com’è in questo caso – tuttavia il discorso vale per qualsiasi supporto visivo – è strumento imprescindibile, insieme alla testimonianza scritta, se si è in cerca di comprendere qualcosa oltre la teoria sullo scenario geo-politico più recente. Kryn Taconis, membro della Untergrundkamera, gruppo clandestino che documentava l’occupazione tedesca in Olanda, Werner Bischof, svizzero di Zurigo, impegnato nel racconto della devastazione prodotta dalla seconda guerra mondiale in Europa, Philip Jones Griffiths, secondo Henri Cartier-Bresson il più grande nel rappresentare la guerra dopo Goya, i cui scatti dal Vietnam accesero l’opinione pubblica statunitense, Josef Koudelka, indimenticato narratore della Primavera di Praga, Steve McCurry, il ritrattista della giovane Sharbat, la ragazza afgana incontrata nel rifugio antiaereo di Nasir Bagh (Pakistan 1985), divenuta simbolo di un mondo millenario devastato, che pur in mezzo al male è in grado di mostrarsi fiero, di guardare con forza e intensità chi gli sta di fronte. Sono solo alcuni dei nomi raccolti in questa occasione dall'agenzia tedesca Magnum Photos e dalla scuola di giornalismo Zeitenspiegel di Günther Dahl. La loro opera straordinaria compendia e approfondisce i tanti “viaggi tra le rovine” che si sono fatti nel corso del secolo. Se si considerano letture come la Storia naturale della distruzione di Winfried Sebald o l’Autunno tedesco di Stig Dagerman o C’era una volta una guerra di John Steinbeck, anche se differenti tra loro per genere e dunque per la modalità scelta dai singoli autori nel trattare il personaggio della guerra, non faticheremo a trovare un’immediata consonanza, un’affinità tonale tra tali resoconti e quanto è riuscito a catturare e trasmetterci un obiettivo in prima linea.   
Da una guerra all’altra, cambiano i luoghi e le persone ma la miseria umana si ripete e la riflessione che ne scaturisce è sempre la stessa: di fronte alla violenza, nessun argine tiene. Gli uomini che si aggirano in queste prese ci inchiodano senza scampo alle contraddizioni del Novecento, secolo del progresso scientifico, delle grandi ratifiche in materia di diritti e ambiente, e al contempo fabbrica di sconvolgenti catastrofi.

(Testo di Claudia Ciardi)




Biblioteca S. Giorgio (01.02. – 02.03.2014)


«..Nein, nicht Wunder der Welt, sondern Wunden der Welt lautet der Titel der Ausstellung...» [ Neue O.Z.].
Dalla collaborazione di Magnum Photos e la scuola di giornalismo Zeitenspiegel di Guenther Dahl nasce l'idea di una mostra fotografica che ha per tema immagini dal mondo di luoghi teatro di guerre e catastrofi. Il titolo della mostra usa l'assonanza tra i vocaboli tedeschi: Wunde (Wunden è il plurale), ferita e Wunder, meraviglia, per enfatizzarne il significato.
Organizzatori dell'evento Andrea Holzherr, nata a Tubinga che vive e lavora a Parigi, in collaborazione con il Dr. Ulrich Bausch direttore della Volkshochschule di Reutlingen. L 'allestimento della mostra negli spazi della Biblioteca è a cura del Dr. Thomas Becker direttore artistico della Volkshochschule di Reutlingen.

Unabhängig wollten sie sein, nur der Wahrheit verpflichtet: 1947 gründeten Robert Capa, George Rodger, David Seymour und Henri Cartier-Bresson die Agentur MAGNUM PHOTOS. Bis heute steht dieser Name für das Streben, die Wirklichkeit mit der Kamera zu erfassen und zu verstehen. Die Agentur hat den modernen, unabhängigen Fotojournalismus begründet. Im Zentrum ihrer Arbeit steht bis heute die Berichterstattung über schwere Konflikte.

Ob in Vietnam, Ruanda oder Irak, ob in Beirut, Sarajewo oder Kairo: Magnum-Fotografen waren und sind Augenzeugen der Umbrüche, der Wunden der Welt, wie Henri Cartier-Bresson es ausdrückte. Viele Fotos der Agentur haben sich ins kollektive Gedächtnis der Menschheit eingegraben.

Jetzt gewährt MAGNUM PHOTOS zum ersten Mal einen Blick hinter die Kulissen: Die Wanderausstellung Wunden der Welt zeigt 53 der wichtigsten MAGNUM-Arbeiten aus sechs Jahrzehnten Kriegs- und Krisenfotografie. Begleitende Texte erläutern den Hintergrund der Bilder: Wo und wie sind sie entstanden? Was macht sie so besonders? Welchen Weg haben sie in der Öffentlichkeit genommen? Absolventen der Zeitenspiegel-Reportageschule Günter Dahl haben die Geschichten hinter den Bildern recherchiert und aufgeschrieben.



«I boschi sono i primi e i più veloci a leccarsi le ferite. Certo, qua e là tra le querce si trova qualche cannone inoperoso, con il tubo spezzato che pieno di vergogna e di rabbia guarda fisso il terreno. Gli involucri di piccole auto bruciate ai piedi dei pendii sembrano enormi barattoli di conserve, come se degli indisciplinati giganti campeggiatori avessero sostato in questi boschi che erano i più pretenziosamente ordinati del mondo. Tuttavia la guerra è passata con riguardo tra gli alberi e i piccoli paesi, che hanno vissuto bombardamenti notturni delle grandi città semplicemente come rosse aurore boreali, con il suolo che tremava e porte e finestre che sbattevano. Qualche singola casa è stata colpita per errore e lì si concentra tutta la tragedia del paese. In un piccolo comune sul Weser è stata la casa di un dentista a essere colpita una mattina di primavera durante le visite, e tutti, il medico, l’infermiera e i trenta pazienti, sono rimasti uccisi. Fuori, nel giardino, un uomo camminava avanti e indietro in attesa che estraessero un dente alla figlia, e nella sala d’aspetto c’erano anche la moglie e la madre dell’uomo, che avevano accompagnato la ragazzina per farle coraggio. L’uomo si è salvato per miracolo ma ha perso l’intera famiglia e ora va in giro da un paio d’anni per il paese come una lapide ambulante in memoria della seconda guerra mondiale – quella in memoria della prima si trova in un boschetto tra la sponda del Weser e la prima casa, ed è tuttora l’orgoglio del paese».

Stig Dagerman, Autunno tedesco. Viaggio tra le rovine del Reich millenario, a cura di Fulvio Ferrari, Lindau, 2007

Titolo originale: Tysk Höst!






Related links:

Offizielle Webseite/ Sito ufficiale - Wunden der Welt

Robert Musil, Narra un soldato/ Ein Soldat erzählt, a cura  di Claudia Ciardi, Via del Vento edizioni, 2012

Appunti sulla teoria della distruzione di Claudia Ciardi - Helios Magazine

In questo blog:
Once there was a war - C'era una volta una guerra, John Steinbeck
«Un libro passato forse senza troppo clamore nelle librerie italiane ma su cui vale la pena riaccendere l'attenzione dei lettori. Una cronaca in presa diretta della seconda guerra mondiale che costituisce una testimonianza unica per la ricchezza di fatti e ritratti raccolti al fronte e per l’efficace semplicità con cui l'autore ce li presenta.
La grande metafora dello spazio-tempo fiabesco evocata da Steinbeck potrebbe risultare in un primo momento stridente, dato che siamo in presenza di un dramma collettivo in cui hanno agito figure concrete, fatalmente racchiuse in una precisa porzione di storia».

Los desastres de la guerra
«A compendio delle riflessioni che caratterizzano il centenario della prima guerra mondiale, riproponiamo la recensione che abbiamo dedicato alle acqueforti di Francisco Goya, raccolte sotto il titolo di Los desastres de la guerra, pubblicate in volume da Abscodita nel 2011».

August Sander - Antlitz der Zeit
«A partire dalla metà dell’Ottocento la fotografia acquista un ruolo sempre più importante, aiutando lo studio dell’uomo e delle sue abitudini. L’impiego di questo mezzo infatti, quasi per naturale predisposizione, si accompagna agli sviluppi della nascente antropologia, di cui le Società francese e tedesca erano allora le più autorevoli esponenti, dettando non a caso il metodo per la realizzazione del ritratto scientifico. All’inizio del XX secolo si assiste a un interessante mutamento della figura del fotografo antropologico che va svincolandosi dal suo compito di documentarista e inizia a coltivare in maniera autonoma alcuni aspetti più creativi insiti nel meccanismo di riproduzione delle immagini».


9 febbraio 2014

Los desastres de la guerra


Francisco Goya, I disastri della guerra - The Disasters of War


Francisco Goya, Las resultas (1813-'14)

A compendio delle riflessioni che caratterizzano il centenario della prima guerra mondiale, riproponiamo la recensione che abbiamo dedicato alle acqueforti di Francisco Goya, raccolte sotto il titolo di Los desastres de la guerra, pubblicate in volume da Abscodita nel 2011.
Si tratta di un libro d’arte in cui i crudi contorni del figurativo accolgono venature espressioniste, ma anche di un documento storico estremamente attuale che molto ci dice delle aberrazioni e dei traumi di lunga durata che il deflagrare di una guerra porta nel vivere civile. Del resto, se da sempre alle guerre si sono riservate ampie trattazioni dal punto di vista della strategia militare e della teoria politica, più recente è il loro approfondimento sul piano antropologico, ossia lo studio di quelle dinamiche collegate all’agire umano e alla sua psiche inevitabilmente innescate dalle criticità di un conflitto.
L’opera di Goya è un resoconto ante litteram della considerazione della guerra quale caduta regressiva e violenta nella cultura umana. L’arte diviene qui un mezzo di rappresentazione potentissimo in grado di dare voce a un monito universale. Non è solo una volontà di cronaca a guidare la mano dell’artista ma la consapevolezza di essere testimone della storia e, attraverso questa esperienza, fermare con tratto indelebile lo scempio che tanto efferatamente può abbattere la vita umana.




Titolo: I disastri della guerra
Titolo originale: Estragos o Desastres de la guerra
Autore: Francisco Goya
Collana: Mnemosyne
Data pubblicazione: gennaio 2011
Casa editrice: Abscondita
Euro 35,00

L’uomo, soprattutto colui che meglio sa esprimere la propria sensibilità, fa risuonare dentro di sé l’incertezza del mondo, rivelandone le più brutali miserie e cadute. 
La sua discesa, sofferta quanto piena di vertigine, tocca «dolorose cose», secondo la sintesi rilkiana dell’esperienza poetica, e risulta fecondata da quella prossimità al caos che nutre lo slancio del narratore. Al pari di un funambolo, l’artista riporta una visione al limite e, spinto da ciò che Elias Canetti ha definito «la responsabilità per la vita che si distrugge», si sente chiamato a mostrarla agli altri, perché possano averne memoria.
Goya è autore di un’epica per immagini nata nelle strade della Spagna, che il suo occhio vorace attraversa, agitato dal fremito della testimonianza ma prima ancora da un innato istintivo desiderio di raccontare, di dar conto dell’attimo stesso che precipita gli esseri umani nella follia. 
Un secolo di sospetti, isolamento e paure, cui hanno dato il loro esiziale contributo la gretta tirannide monarchica, il feudalesimo e il clero, esplode infine in un abisso di crudeltà. Le false mitologie di un paese, in cui lungamente si sono ossequiate la menzogna e il pregiudizio, sono travolte da una violenza che non risparmia nessuno. Nascono così I disastri della guerra
Uscito a gennaio 2011 per l’editrice Abscondita, questo volume fa parte della collana Mnemosyne. Uno straordinario cantore del mito antico, Cesare Pavese, nella Musa-Memoria riconosceva la madre e le figlie, ossia quella voce e quei gesti che presiedono a tutta l’arte:  «….immenso tema. Chi scrive sa bene di avere osato non poco avvistando un solo nume nelle nove…». Di questa memoria mutevole e molteplice, Francisco Goya sembra dunque inseguire le tracce nel tentativo, se non di fermarla, almeno di ritrarne qualche espressione. La sua grandezza, il suo merito artistico, se così conviene definire un percorso tanto esteso per soggetti ed eventi elaborati, sta nel fatto che la pittura entra nella storia, letteralmente si imbatte in «un’occasione storica», come non manca di sottolineare Renato Guttuso nella sua introduzione. Questo implica «un cambiamento del corso, del senso dell’esplorazione, un cambiamento di piano geometrico»; il segno pittorico scava seguendo una verticale, taglia la realtà, incide, pelle su pelle, il sanguinoso affollarsi delle vicende. 
Siamo negli anni dell’occupazione napoleonica della Spagna, tra il 1808 e il 1814. Il popolo subisce angherie, vessazioni, patisce stragi, torture, fame. Tutto ha inizio con La fucilazione del 3 maggio 1808, fotografia della disperata resistenza dei contadini all’invasore. L’artista è lì, in mezzo a loro, annota ogni cosa nel suo taccuino, non si può tacere la vergogna, bisogna che l’uomo sieda di fronte a se stesso e prenda atto del proprio smarrimento. Così Goya scende all’inferno e, dal 1814 in poi, saccheggi, assassini, stupri rivivono tra le sue mani. Tutta quella inenarrabile densissima tragedia trova il modo di rappresentarsi. Ma non è un viaggio che l’artista porta a compimento in patria. Allorché dopo l’occupazione straniera tornano a farsi avanti oscurantismo e Inquisizione, Goya parte per Bordeaux e nei sei anni di esilio volontario lavora al suo cospicuo archivio di schizzi sulla guerra. 
Al 1820 si contano ottantacinque acqueforti che compongono una sorta di quaderno-poema dal titolo di Fatali conseguenze della sanguinosa guerra spagnola contro Bonaparte. E altri capricci enfatici. Epilogo del dramma e dei suoi protagonisti, vittime di un’umanità che ha abdicato a se stessa.
Nel medesimo periodo (1819) Géricault realizza Le Radeau de la Méduse, sul naufragio che colpì la zattera della Medusa, cumulo di perseguitati su cui si staglia il fallimento di un’epoca. Non siamo forse di fronte a una tremenda attualità? La pubblicazione di Abscondita arriva in un momento cruciale della storia del Mediterraneo; non è volersi affidare a tutti i costi ai ricorsi storici. Eppure, questa concomitanza dona alle incisioni di Goya una rinnovata espressività. 
Gli apparati di Francesco Martini, attento curatore dell’edizione, contengono brevi commenti a tutte le tavole goyane dei Desastres, ben contestualizzate sia sul piano cronologico che tematico, oltre alla galleria di disegni preparatori utili a cogliere l’opera mentre esce dalle mani dell’autore-levatore.
Le guerre, ebbe a dire John Steinbeck, bisogna ricordarle per non ripeterle. E non risuona forse nelle litografie di Goya quello stesso monito che lo scrittore americano si trovò a lanciare, oltre due secoli dopo, al ritorno dal fronte della seconda guerra mondiale?
«Adesso ci siamo nutriti per anni di paura e solo di paura, e la paura non dà buoni frutti. Da essa nascono crudeltà e inganno e sospetto, germogliati nelle nostre tenebre. E così come è certo che stiamo avvelenando l’aria coi nostri esperimenti atomici, è altrettanto certo che abbiamo l’anima avvelenata dalla paura, da un terrore senza volto, stupido e necrotico».
La serie di láminas inventadas y grabadas al agua fuerte, frutto dell’osservazione diretta di una delle grandi atrocità commesse in Europa, ha cercato di metterci in guardia. Di fronte a quella testimonianza noi sentiamo, adesso, tutto il peso del nostro ingombrante passato. Le ombre, le maschere, le creature mostruose e fantastiche che incombono sui morti e i disperati delle tavole, popolano da sempre l’immaginario occidentale ma oggi soprattutto la loro presenza corre veloce e insidiosa accanto a noi. Nada e Murió la Verdad, titoli che pesano come macigni. Ma anche nel pieno fosco disincanto Goya sembra invitarci ad avere il coraggio di fissare il nostro sguardo sull’orrore, per smascherarlo senza indugiare neppure un istante di più.      

(Claudia Ciardi, aprile 2011)



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