Un’ala
luminosa, intorno il bosco cupo, come in se stesso raccolto.
Vento
forte sulla piazza. E finché dura il vento, la macchia dorata resta immobile
sul dorso della montagna.
(Di Claudia Ciardi)
*
Dalla serie “La pietra e il sogno”
Un’ala
luminosa, intorno il bosco cupo, come in se stesso raccolto.
Vento
forte sulla piazza. E finché dura il vento, la macchia dorata resta immobile
sul dorso della montagna.
(Di Claudia Ciardi)
*
Dalla serie “La pietra e il sogno”
«È
falsa la partenza, è un variare del restare». Così Milena Tagliavini volgendosi
ai Dialoghi di Seneca riflette sui poli dell’esperienza umana, l’eterno viaggio
del sé, l’ombra che ci segue ovunque decidiamo di andare. Quando ci mettiamo su una strada non possiamo infatti prescindere da uno sguardo interiore, dal
comprenderci se si vuole davvero tentare un’altra via di comprensione del mondo. Questo
attraversare gli eventi che ci scuotono, in senso fisico e psicologico, segna le
nostre scelte, la capacità di adattarci e non respingere la vita, anche e
soprattutto nel difficile periodo che stiamo affrontando laddove la realtà continua
a regalare quei piccoli miracoli quotidiani su cui è bello soffermarsi. L’erba
e il suo sentore che si offrono quando usciamo, il riflesso rosato della neve
in montagna, che ci parla da lontananze inattingibili ma colme di misteriosa
fede, il coraggio di una montaliana breccia fra le mura per vincere la prigionia
e la sua soffocante aridità. Con delicatezza e levità la poetessa ci insegna un’antropologia
di «movimenti minimi», ci sprona ad attingere a una «cieca volontà di vivere»,
perché ora più che mai l’essere umano è chiamato a una prova di resistenza e l’unico
modo per superarla è non smarrire il solo legame che salva, quello coi propri
simili.
Un
paio di anni fa mi chiesero di intervenire sulla dissoluzione economica e
sociale prevalenti all’inizio del nuovo millennio. In tempi ancora non sospetti
– l’epidemia sarebbe scoppiata circa l’anno successivo – dissi che la vera domanda
che bisognava porci non era più su chi fosse l’altro – cardine dell’indagine
antropologica fin dai suoi albori – piuttosto su dove fosse. Il mio era un
richiamo al livellamento dei luoghi e delle culture, alla svendita dell’umana
possibilità di crearsi e ricrearsi il proprio destino anche accettandone i
rischi, calpestando le conquiste del libero arbitrio, parlando di letteratura e
scienza in modo da occultare il portato di entrambe, identificandosi nella fuga
verso un modello incapace di interpretare le differenze se non mettendone in
luce la loro carica negativa. Se i fenomeni come ci ha insegnato Schopenhauer non sono soltanto quel che appare ma forze spirituali da
cui promana uno stadio più autentico della conoscenza, allora la poesia diviene
un medium potentissimo per tornare a vedere in profondità.
Nelle
Ricognizioni di Milena Tagliavini colgo questo messaggio, in quanto l’uscita nel territorio, la sua esplorazione richiede poi, come spiega l’autrice,
decisioni operative. Si tratta cioè di interpretare le
informazioni raccolte sul campo e da lì risolversi ad agire. La
ricognizione, dice Milena, è anche se vogliamo un recognoscere, un
conoscere di nuovo, una riscoperta e un richiamare alla memoria – peraltro questo
attaccamento all’antico, alla radice latina delle parole rivela la necessità di
chinarsi alle sorgenti sentimentali della lingua, di riavvicinarne il vero
volto nel divenire della storia, proprio a partire dalle sue intonazioni
etimologiche.
La
sensibilità di Rita Bompadre dedica alle sfumature di questa raccolta un raffinato
contributo che col passo lieve di una lettrice riconoscente invita a misurarne
il terreno e le latitudini emotive.
(Di
Claudia Ciardi)
“Ricognizioni”
di Milena Tagliavini (Giuliano Ladolfi Editore, 2020) è una conferma
introspettiva all’analisi autonoma della forza poetica, all’indagine inconscia
dell’esistenza. Milena Tagliavini prende atto della coscienza osservando la
confidenza finalizzata al riconoscimento del proprio mondo, esaminando la
propria interiorità interpretata da idee, intenzioni ed esortazioni che
generano l’essenza dell’identità della poetessa.
I
versi, estendono la percezione interna all’attività riflessiva del pensiero,
esprimono la voce dialogante con l’anima, dispongono l’intesa della
comprensione con il trascorrere dell’autenticità del tempo, dilungando la
veridicità degli stati d’animo. L’autrice attinge le sensazioni, raccoglie il
riscontro dei sentimenti attraverso ogni manifestazione esplorativa, identifica
il percorso esistenziale con l’itinerario della sensibilità, rileva gli
accertamenti dell’ispirazione. Il privilegio e la grazia di concedersi una
mediazione nella comunicazione elegiaca, permette di verificare la qualità
medianica degli avvertimenti sensibili, di descrivere l’evocazione delle
convinzioni, la persuasione dell’esperienza. Lo spirito che riflette la luce
delle intonazioni umane, irradia una telepatia di emozioni, scorge sempre un
significato ultimo da attribuire alla vita, al senso di ogni valore, alla
direzione da intraprendere, al messaggio di speranza da divulgare. Il
coinvolgimento psicologico ed antropologico della poetessa valuta reazioni
profonde ai propri interrogativi sull’abilità del vivere, inseguendo la
continua evoluzione dell’inconoscibile, insondabile mistero dei tentativi,
cercando di confermare l’universalità della comprensione.
Dimostrare
la disponibilità dei fenomeni umani, fornire il requisito della saggezza è lo
spunto di riflessione per manifestare la presenza oltre l’invisibile linea di
confine dello spirito, per invocare la libertà e la volontà delle
contraddizioni terrene, per restituire la fermezza del giudizio e della ragione
nell’ambito dell’emozionalità, dell’atteggiamento agnostico sui dissidi
esistenziali. La poesia di Milena Tagliavini amplifica i quesiti umani
universali, propone domande sull’uomo e sull’origine della bellezza, offre la
resistenza all’insicurezza, cercando di colmare il vuoto della provvisorietà,
superando il tragitto dell’inquietudine, placando la diffidenza oltre ogni
apparenza. La poesia, consumata dal tormento doloroso dei conflitti irrisolti o
irrisolvibili, strappa con dolore vivo ogni nuova lacerazione, intervallando il
ritmo persistente del tempo che scorre, sussurrando la suggestione dei versi
adagiati sulla pagina, con la lieve e consapevole consuetudine alla malinconia,
ricostruendo dall’indifferenza la sostanza della luce anche attraverso le ombre
degli ostacoli. Il monito delle oscure difficoltà permette l’adattabilità dello
sguardo a vedere oltre, rischiarando la luminosità del raggio visivo nel
riscatto dei versi.
“Ricognizioni”
accoglie la necessità della speranza ed evidenzia il disincanto, alternando
rumore e silenzio, affermando l’intimità della poesia che risolve le ostilità,
travalicando le siepi. Nella costante ricerca stilistica la generosità emotiva
perlustra il presentimento del sentiero vitale attraverso percorsi obliqui,
trattiene la fragilità con l’intento di aggirare il richiamo incisivo del
monologo interiore, abita lo spazio della nostalgia, coniugando la resilienza
poetica alla ricostruzione delle opportunità positive, nell’arricchimento del
cambiamento e della trasformazione nelle piccole dichiarazioni impalpabili
dell’amore.
(Di
Rita Bompadre - Centro di Lettura “Arturo Piatti”)
* Testi selezionati da Rita Bompadre
Nuovomondo – La nave
Visto
dall’alto è un canale
d’acqua
salata con gli argini fondi,
qua
di cemento e là di lamiera.
Si
spacca la folla in diagonale,
una
faglia slitta via.
E
tutto crolla,
ma
solo dentro.
Il rosa della neve
Incorniciata
dalla guarnizione
del
parabrezza tra il ponte e le strade
l’aureola
appare come altro a sé.
Sarebbe
una voce capace di tagliare
il
nastro della ragione che ci lega qui
se
con la pazienza di un docente
non
ci dimostrassimo ciechi
di
fede ogni giorno il teorema.
Così
la fila avanza e lascia
una
curva in discesa ai lati
della
labbra mentre le dita
dei
monti affrescano l’impossibilità
di
catturare il rosa della neve.
La trappola
Con
pazienza ho infilato per ore
i
punti dell’ago come se la danza
delle
dita fosse un rituale,
la
pozione per ignorare il tempo.
Nell’urgenza
del respiro
non
avevo che questa azione inutile,
che
restare sola senza parlare
dentro
i muri.
Mani
Proprio
oggi ho visto le tue mani
scolpite
nelle sue. Mi ricompari
a
tratti, a pezzi, ancora viva.
Sono
carne di nostalgia le dita
di
marmo molle senza rughe
e
con lo smalto scuro. Sguardo
che
richiama di fianco la tua assenza,
corpo
invisibile tra noi.
Tra due muri
Mi
volti le spalle e vai tra due muri
di
fiori, hai le redini
di
ciò che è stato. Il piede alzato
per
il passo e la sensualità
del
vento in una curva sui capelli
non
si perderanno. La carta
e
gli occhi scambieranno
per
anni le interpretazioni.
Oggi
il non visto ha un senso
d’arresto
che si prolunga,
di
sospensione del fiato mentre
la
palla sta alta sulla rete.
Una svolta
È
una svolta che forse non c’è
questo
giorno colmo di pensieri.
Sei
un uomo con le valigie piene
d’aria.
Ogni volta che le aprirai
darai
pane ad altri respiri.
Creazione
Ho
creato una breccia fra le mura,
un’evasione
di note.
Una
preghiera materiale
del
corpo vivo.
È
carne e terra e cielo.
Ha
il sapere, oltre le regole
dei
soprusi della ragione.
Da Milena Tagliavini, Ricognizioni, Giuliano Landolfi Editore, 2020
Sul
canale “My Urby” l’intervista alla poetessa che racconta la propria esperienza
di vita e di scrittura con delicatezza e passione (ottobre 2020).
Di questo libro sentii parlare proprio Tonino Guerra, all’indomani della sua uscita. Ne spiegava il titolo folgorante, quasi formula iniziatica, che gli aveva trasmesso un nobile conosciuto in Georgia. L’uomo, in fuga dalle persecuzioni dei comunisti, non alludeva a nessun fatto politico, come in un primo momento aveva pensato il poeta, ma attribuiva a quelle parole un fatalismo letterale, perché secondo lui bisognava «credere a tutto, specialmente alle cose che sembrano impossibili. In questa vita troppa gente vuole cancellare gli errori e le piccole credenze popolari. Eppure le grandi verità non sopportano la chiarezza». Così senza saperlo questo gentile signore ritirato in una casupola sopra Bakuriani aveva fatto dono al mondo del suo amuleto, che anni dopo le mani di quell’estroso viaggiatore italiano avrebbero raccolto e incastonato in un poema della memoria, tutto votato alla sacralità della natura, agli insegnamenti del vivere semplice.
Altrettanto singolare è che queste pagine le abbia riscoperte in mezzo all’epidemia, un giorno in cui mi è capitato di ascoltare un’intervista a Lora, la compagna di una vita, che col suo “respiro russo”, come amava definirlo Tonino, disegnava altri quadri e sogni nel ritiro campestre che si erano scelti insieme sull’Appennino tosco-romagnolo. Custode di ricordi e di un generoso spirito materno, materico che nasce dalla terra, mi fece tornare alla prosa in versi incontrata anni prima. Quell’immagine di alberi e tappeti erbosi visitati dal sole, la cura per il bel frutteto, la serenità di un cosmo all’apparenza fragile, in bilico sull’aridità di non lontane violate pianure, eppure saldo nelle proprie radici, era identica all’animus-ánemos che attraversa nel poema.
Ed esattamente questo lieve trascorrere di ombre, quasi un taoismo ad uso di pochi adepti, di quelli che ancora hanno fede nei sentimenti, è ciò che conserva per sempre i luoghi che abbiamo attraversato, gli incontri che ci sono stati, le luci, le cadenze, i ritorni in un tempo fuori dal tempo. La volontà di tendere a quell’infanzia del mondo coi suoi odori e rumori, come per il poeta lo è la pioggia che cade sui capanni di montagna e che gli fa ritrovare i pomeriggi con sua madre a casa del nonno, quando sedevano in silenziosa beatitudine aspettando che finisse il temporale. E in quel momento si poteva esser lì o in qualunque altra contrada emotiva. C’è una tenace ossessione per i brandelli dell’umana presenza, per i resti delle case come corpi che si lasciano visitare dal soffio delle stagioni e in sé trattengono tutto, le orme passate, la malinconia dei viandanti, le fresche ferite di crolli o le fioriture che ne invadono gli spazi abbandonati. In un periodo di smarrimento, che tuttavia non assume i toni di una resa ma implica piuttosto una sosta nel proprio cammino, il poeta sente il bisogno di aggrapparsi ai tenui riflessi che aleggiano nelle vene di tali organismi soffusi. Le opache luminescenze su un intonaco in disfacimento, i tramonti che s’impigliano ai rami, i solitari abitatori dei casoni, donne inginocchiate davanti alle rovine di una chiesa intente a una preghiera che soltanto loro sanno, cui s’accompagnano i ricordi dei viaggi in oriente, approdi segnati su favolose mappe interiori. L’epos di Tonino Guerra è tutto racchiuso in questa diafania dei sensi e reca un messaggio rassicurante, per certi versi catartico, incentrato com’è sulla delicatezza, sulle corde più dolci della personalità che presiedono all’incanto delle nostre vite. Un portolano che si tiene volentieri in tasca nell’attesa che la bufera si plachi.
(Di Claudia Ciardi)
Tonino
Guerra, Una foglia contro i fulmini. Poema in prosa, Maggioli Editore,
2006
Illustrato con acquerelli di Tonino Guerra, prefazione di Roberto Roversi
Testi selezionati
«La
meraviglia e l’emozione mi arrivano di colpo se mi trovo
davanti
a costruzioni in rovina. Ho bisogno di sentire
la
presenza di spessori, di incrostazioni create
dalla
pioggia, dal sole e delle pietre che si
smarrivano,
così capisco che la natura dà un suo
contributo
fondamentale all’architettura regalando
l’impronta
del tempo e della morte. I palazzi gotici e del
rinascimento
così ben conservati chiedono soltanto la mia
ammirazione
e invece i monumenti in rovina, oltre all’ammirazione
vogliono
commozione e affetto per la loro agonia umana.
In
più devo confessarvi che entrano nella memoria
le
conversazioni silenziose con oggetti e
presenze
mute. Quei colloqui segreti
che
ci riempiono di verità nascoste.
Per
queste mie voglie di borghi abbandonati
molto
è dipeso anche da un orto che confinava
col
cortile di casa mia…».
[…]
«Probabilmente
era una delle ultime
affezionate
a questa chiesuola a quel profumo. Prima di
allontanarsi
mi dice: «Spesso è
nel
momento dei saluti che cominciano gli
incontri».
Non mi ha dato il tempo di
rispondere
e io sono rimasto a lungo
preso
da quella frase misteriosa
e
bella».
[…]
«Ho
notato che i muri di queste casupole disabitate
e anche i ruderi vivono ancora con le ombre di chi capita
a
curiosare. Quando mi sono accorto che la mia ombra era piena di
conforto
per quei muri sono passato a imprimerla
per
qualche momento anche su tutte le piccole
rovine».
[…]
«Così
ci fu una caduta d’aria
chiara
all’interno. Passò ancora un po’ di tempo e
finalmente
il primo filo aereo di profumo arrivò
fino
a lei e la donna pensò che quella
piccola
spirale di odore fosse già
una
confidenza misteriosa».
[…]
«Da
un momento all’altro dovrò pur dire a qualcuno che
non
sto cercando soltanto la mia infanzia, ma addirittura
l’infanzia
del mondo. Non so perché, quando sono arrivato
in
fondo alla valle a guardare le rovine
del
Palazzo dei Monaci, la memoria ha
vuotato
su quei ruderi del convento l’immagine
immensa
della città di Berlino diventata alla fine della
guerra
un immenso alveare con tutte le celle svuotate dal miele.
E
subito mi sono arrivati addosso brandelli delle grandi città che ho
visitato….».
[…]
«Abbiamo
bisogno non soltanto di parole per toglierci dalla
monotonia
di questa vita. Anche un paesaggio può ributtarti addosso
una
vita primitiva abbandonata da milioni di anni
e
farti sentire l’odore dell’infanzia del mondo».
[…]
«Qualcuno
mi ha raccontato che Pasternak visse un tempo in una
dacia
abbastanza isolata.
Quando
un amico andò a prenderlo per riportarlo a casa si accorse che
non
si decideva ad uscire neanche quando le valigie
erano
state caricate sulla
macchina.
Lo trovò che era seduto
in
silenzio in cucina. Dopo qualche momento
d’attesa
l’amico chiese al poeta: «Succede qualcosa?». «No»,
rispose
con voce annebbiata Pasternak,
«saluto
il me stesso che ha vissuto per quaranta
giorni
in questo mondo di rumori leggeri».