Di questo libro sentii parlare proprio Tonino Guerra, all’indomani della sua uscita. Ne spiegava il titolo folgorante, quasi formula iniziatica, che gli aveva trasmesso un nobile conosciuto in Georgia. L’uomo, in fuga dalle persecuzioni dei comunisti, non alludeva a nessun fatto politico, come in un primo momento aveva pensato il poeta, ma attribuiva a quelle parole un fatalismo letterale, perché secondo lui bisognava «credere a tutto, specialmente alle cose che sembrano impossibili. In questa vita troppa gente vuole cancellare gli errori e le piccole credenze popolari. Eppure le grandi verità non sopportano la chiarezza». Così senza saperlo questo gentile signore ritirato in una casupola sopra Bakuriani aveva fatto dono al mondo del suo amuleto, che anni dopo le mani di quell’estroso viaggiatore italiano avrebbero raccolto e incastonato in un poema della memoria, tutto votato alla sacralità della natura, agli insegnamenti del vivere semplice.
Altrettanto singolare è che queste pagine le abbia riscoperte in mezzo all’epidemia, un giorno in cui mi è capitato di ascoltare un’intervista a Lora, la compagna di una vita, che col suo “respiro russo”, come amava definirlo Tonino, disegnava altri quadri e sogni nel ritiro campestre che si erano scelti insieme sull’Appennino tosco-romagnolo. Custode di ricordi e di un generoso spirito materno, materico che nasce dalla terra, mi fece tornare alla prosa in versi incontrata anni prima. Quell’immagine di alberi e tappeti erbosi visitati dal sole, la cura per il bel frutteto, la serenità di un cosmo all’apparenza fragile, in bilico sull’aridità di non lontane violate pianure, eppure saldo nelle proprie radici, era identica all’animus-ánemos che attraversa nel poema.
Ed esattamente questo lieve trascorrere di ombre, quasi un taoismo ad uso di pochi adepti, di quelli che ancora hanno fede nei sentimenti, è ciò che conserva per sempre i luoghi che abbiamo attraversato, gli incontri che ci sono stati, le luci, le cadenze, i ritorni in un tempo fuori dal tempo. La volontà di tendere a quell’infanzia del mondo coi suoi odori e rumori, come per il poeta lo è la pioggia che cade sui capanni di montagna e che gli fa ritrovare i pomeriggi con sua madre a casa del nonno, quando sedevano in silenziosa beatitudine aspettando che finisse il temporale. E in quel momento si poteva esser lì o in qualunque altra contrada emotiva. C’è una tenace ossessione per i brandelli dell’umana presenza, per i resti delle case come corpi che si lasciano visitare dal soffio delle stagioni e in sé trattengono tutto, le orme passate, la malinconia dei viandanti, le fresche ferite di crolli o le fioriture che ne invadono gli spazi abbandonati. In un periodo di smarrimento, che tuttavia non assume i toni di una resa ma implica piuttosto una sosta nel proprio cammino, il poeta sente il bisogno di aggrapparsi ai tenui riflessi che aleggiano nelle vene di tali organismi soffusi. Le opache luminescenze su un intonaco in disfacimento, i tramonti che s’impigliano ai rami, i solitari abitatori dei casoni, donne inginocchiate davanti alle rovine di una chiesa intente a una preghiera che soltanto loro sanno, cui s’accompagnano i ricordi dei viaggi in oriente, approdi segnati su favolose mappe interiori. L’epos di Tonino Guerra è tutto racchiuso in questa diafania dei sensi e reca un messaggio rassicurante, per certi versi catartico, incentrato com’è sulla delicatezza, sulle corde più dolci della personalità che presiedono all’incanto delle nostre vite. Un portolano che si tiene volentieri in tasca nell’attesa che la bufera si plachi.
(Di Claudia Ciardi)
Tonino
Guerra, Una foglia contro i fulmini. Poema in prosa, Maggioli Editore,
2006
Illustrato con acquerelli di Tonino Guerra, prefazione di Roberto Roversi
Testi selezionati
«La
meraviglia e l’emozione mi arrivano di colpo se mi trovo
davanti
a costruzioni in rovina. Ho bisogno di sentire
la
presenza di spessori, di incrostazioni create
dalla
pioggia, dal sole e delle pietre che si
smarrivano,
così capisco che la natura dà un suo
contributo
fondamentale all’architettura regalando
l’impronta
del tempo e della morte. I palazzi gotici e del
rinascimento
così ben conservati chiedono soltanto la mia
ammirazione
e invece i monumenti in rovina, oltre all’ammirazione
vogliono
commozione e affetto per la loro agonia umana.
In
più devo confessarvi che entrano nella memoria
le
conversazioni silenziose con oggetti e
presenze
mute. Quei colloqui segreti
che
ci riempiono di verità nascoste.
Per
queste mie voglie di borghi abbandonati
molto
è dipeso anche da un orto che confinava
col
cortile di casa mia…».
[…]
«Probabilmente
era una delle ultime
affezionate
a questa chiesuola a quel profumo. Prima di
allontanarsi
mi dice: «Spesso è
nel
momento dei saluti che cominciano gli
incontri».
Non mi ha dato il tempo di
rispondere
e io sono rimasto a lungo
preso
da quella frase misteriosa
e
bella».
[…]
«Ho
notato che i muri di queste casupole disabitate
e anche i ruderi vivono ancora con le ombre di chi capita
a
curiosare. Quando mi sono accorto che la mia ombra era piena di
conforto
per quei muri sono passato a imprimerla
per
qualche momento anche su tutte le piccole
rovine».
[…]
«Così
ci fu una caduta d’aria
chiara
all’interno. Passò ancora un po’ di tempo e
finalmente
il primo filo aereo di profumo arrivò
fino
a lei e la donna pensò che quella
piccola
spirale di odore fosse già
una
confidenza misteriosa».
[…]
«Da
un momento all’altro dovrò pur dire a qualcuno che
non
sto cercando soltanto la mia infanzia, ma addirittura
l’infanzia
del mondo. Non so perché, quando sono arrivato
in
fondo alla valle a guardare le rovine
del
Palazzo dei Monaci, la memoria ha
vuotato
su quei ruderi del convento l’immagine
immensa
della città di Berlino diventata alla fine della
guerra
un immenso alveare con tutte le celle svuotate dal miele.
E
subito mi sono arrivati addosso brandelli delle grandi città che ho
visitato….».
[…]
«Abbiamo
bisogno non soltanto di parole per toglierci dalla
monotonia
di questa vita. Anche un paesaggio può ributtarti addosso
una
vita primitiva abbandonata da milioni di anni
e
farti sentire l’odore dell’infanzia del mondo».
[…]
«Qualcuno
mi ha raccontato che Pasternak visse un tempo in una
dacia
abbastanza isolata.
Quando
un amico andò a prenderlo per riportarlo a casa si accorse che
non
si decideva ad uscire neanche quando le valigie
erano
state caricate sulla
macchina.
Lo trovò che era seduto
in
silenzio in cucina. Dopo qualche momento
d’attesa
l’amico chiese al poeta: «Succede qualcosa?». «No»,
rispose
con voce annebbiata Pasternak,
«saluto
il me stesso che ha vissuto per quaranta
giorni
in questo mondo di rumori leggeri».
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