Mi
è capitato qualche giorno fa di infilare la porta sbagliata e finire in un
cortile chiuso. Un posto proprio squallido, labirintico, come tanti ce ne sono
in ogni città, e più t’illudi di trovare l’uscita più finisci nei guai. Vedi
uno slargo, una propaggine di strada dietro il muro di un palazzo ma sono solo
angoli ciechi. E tuttavia la cosa di gran lunga più sconcertante è stata
entrare lì dopo aver chiesto indicazioni. Un’impiegata sorniona, che mi è
venuto in mente d’interpellare quando ero ormai sulla soglia, ha agevolato con un
gesto di stizzosa noncuranza la mia uscita nel nulla. Dico: avvertimi no, che
da lì non si va in nessun posto. L’avevo evidentemente disturbata e il sadismo
è prevalso sulla bontà. Gongolava già al pensiero di vedermi tornare nella
stanza, scornata, lamentando la disavventura. Invece non è stato così, e poi
figurati col carattere che ho se le davo una soddisfazione del genere,
piuttosto avrei fatto notte nel cortile; ho trovato un’altra porta sul retro e
finalmente un persona gentile che mi ha accompagnata. Ad essere sincera tutta
la faccenda ha avuto un risvolto piuttosto ironico e l’epilogo si potrebbe
definire soddisfacente. Ma è durata poco. Rimeditando i fatti, una cosa in cui
cado purtroppo abbastanza spesso e che non mi giova per nulla, ho cominciato ad
arrovellarmi e i fastidi sono aumentati in maniera più che proporzionale rispetto
alla questione. Al punto da vederci uno spaccato dell’Italia di adesso, e in
qualche misura anche delle mie personali riserve su certe azioni o più spesso inazioni.
Sarà
che il confronto protratto in anni con un’altra cultura ha enfatizzato certe
differenze – poi i difetti si sa son dappertutto – ma la dottrina del “lascia
fare, lascia perdere” la tollero sempre meno. Se una persona sbaglia, si
dice, se una cosa non va bene, si cerca una soluzione. Insomma ci s’impegna. Purtroppo
però tra salvatori da bar, opportunisti, dissidenti a tempo perso, banderuole
gonfiate dalla provocazione, tanto per non farsi mancare nulla, che di regola
quando perdono tutti i denti si ritirano in un silenzio piccato perché non hanno
più che mordere, è arduo incanalare le residue energie positive in un progetto anche pur minimamente
incline alla pubblica utilità. È un po’ come guardare certe interviste dove la
‘gente semplice’, categoria piuttosto trasversale quanto astrusa, viene
invitata a pronunciarsi sui problemi quotidiani: povero idiota, tutto bene, ma
se un politico facesse davvero quello che dici, tu smetteresti di essere un
semplicione e questo non conviene a nessuno. Chi fa l’intervista lascia quasi sempre
scorrere un sottotitolo del genere.
Ecco
come perdersi nel retro di un palazzo a causa della sadica frustrazione di
un’impiegata può guastarti il pomeriggio.
Ma
ci sono anche altre vie destinate a sfociare nel nulla e in quelle
laboriosissimi tarli che indisturbati perseguono la loro opera di demolizione.
Perché mantenere a tutti i costi un equilibrio, quando il carico nella stiva
rotola e sbatte da tutte le parti, non è conservare ma distruggere il poco di
sano che resta. Mi riferisco a un certo tenore del dibattito sugli ultimi
clamorosi sviluppi in terra d’occidente – Brexit e Trump – anche se già
limitare il discorso alla protesta denuncia un’incomprensione di fondo. L’anno
scorso dissi che quel che la Grecia non aveva avuto il coraggio, ma forse è più
giusto dire la forza, di fare si sarebbe di lì a poco materializzato in altre
circostanze. Facile coalizzarsi contro una Grecia piccola, isolata, fiaccata da
anni di crisi e compromessa dalla moneta unica. Un po’ meno lavorarsi gli
inglesi che l’euro non se lo sono mai intascato. Ricordiamoci inoltre che la
campagna referendaria nel Regno Unito è stata di inaudita violenza, culminando
nell’omicidio della giovane parlamentare Jo Cox, dimenticata in fretta quasi
fosse stato uno scomodo incidente di percorso. E di questo è responsabile la
classe politica per intero ma il governo più degli altri in quanto attore principale chiamato responsabilmente a dare un
indirizzo: non si incrudisce un appuntamento elettorale evocando ogni tipo spettro.
Vale anche per questa brutta Italia esacerbata, che dimostra di non aver
imparato nulla neppure da un episodio così sanguinoso.
Volendo
approfondire un pensiero che esula dai risultati delle ultime contese
elettorali, il giudizio di molti osservatori lascia trapelare fin troppo
scopertamente irritazione, se non astio, nei confronti di quei ceti impoveriti
che vogliono far sentire la loro voce, valendosi del solo strumento che la
democrazia gli mette in mano: il voto. Quello ha perso i suoi quattrini, ha uno
stipendio, quando ce l’ha, eroso da ogni genere di gabella, che t’ha fatto di male?
Immaginare
che il peso di scelte compiute in lontananze siderali si scarichi sugli stessi e che questi poveri stessi – poveri alla
lettera ma più latamente esponenti di una società in cammino che è chiamata a
innovarsi – insomma, che questo coacervo di esseri umani con le proprie
aspettative non abbia nulla su cui
risentirsi ma anche nessuna istanza da avanzare, è procedere coi paraocchi. Se una classe dirigente perde autorità, i
cittadini scelgono in modo che certi privilegi non arrivino più dove fino a
quel momento sono stati indirizzati. Perché ci si scalda così tanto? È un
normale avvicendamento di potere. Se qualcuno si è compromesso troppo con certi
caroselli, non occorre s’invelenisca a tal punto. Aumenta soltanto lo spessore
della sua figuraccia. Buttarla nei sempiterni fascismi è troppo comodo. Nessuna
fase storica calca esattamente le orme di un’altra. I conti che si stanno
chiudendo o aprendo in diversi paesi occidentali traducono spinte ben diverse. Anche l’aurea pax che abbiamo declamato dal secondo dopoguerra – peccato però per quel suo terribile vero volto che è stata la guerra fredda – ha espresso i suoi aspetti elitari,
esclusivisti, iniqui. La pace esige un prezzo talora non meno salato della
guerra, peggio ancora se su una guerra si fonda. Quando gli esclusi dal sistema diventano troppi il sistema si rovescia.
Accumulo curriculare, sbarramenti di ogni ordine e grado in una carriera,
l’invocato liberismo che però nel caso di paesi arretrati come il nostro non
genera mai vera competizione ma solo piccoli e mediocri potentati, corruzione
dilagante. Se l’ascesa sociale te la devi pagare, se ciò che hai intorno non ti
valorizza né cerca concretamente di incontrare le tue capacità, la classe
dirigente invecchierà fino a dissolversi, non solo per ragioni
anagrafiche.
Io,
dunque, mi sarei aspettata delle analisi più pacate. In fin dei conti si tratta
di un fenomeno comprensibile, direi elementarmente leggibile. È accaduto che le
crescenti difficoltà in cui siamo immersi, alcune lasciate maturare ad arte,
abbiano creato una massa critica. Che poi questa massa cerchi il riscatto in
personaggi non proprio piacenti ci sta, se d’altra parte mi metti di fronte a due
candidature deboli, vado da chi non mi sembra vantare legami col “già visto già sentito” – diciamo che affidare la rivoluzione a un miliardario è quantomeno inquietante però a livello di analisi sociale non è poi un così alieno paradosso. Si vuole smuovere qualcosa, la palude in cui ci siamo cacciati ha un costo che non siamo più in grado di pagare.
È una scelta d’azione. Se giusta o sbagliata, si vedrà.
È una scelta d’azione. Se giusta o sbagliata, si vedrà.
E
vengo a un commento molto spassoso che mi è venuto sotto gli occhi mentre cercavo
notizie sul ricorso di Onida contro il referendum costituzionale. Lo voglio
trascrivere per intero perché indicativo di quell’atteggiamento di
autoreferenzialità che diversi nostri connazionali continuano a incentivare,
forse trovandolo rassicurante:
«Portiamo
il ricorso alle sue estreme conseguenze giuridiche.
Onida
chiede l’annullamento del DPR che indice il referendum e di tutti gli atti ad
esso presupposti e cioè:
-
la richiesta di referendum del comitato del sì (unica che ha raggiunto il
numero minimo di firma previsto dalla costituzione);
-
la richiesta formulata da un quinto dei deputati: il cui quesito è identico a
quello contemplato nel DPR.
Bene, se venisse
annullato il DPR e gli atti ad esso presupposti, non vi sarebbe alcuna valida
richiesta di referendum; e siccome il referendum si celebra solo se vi sono
valide richieste in tal senso (altrimenti la legge costituzionale entra in
vigore), possiamo dire che l’accoglimento del ricorso di Onida avrebbe come
effetto giuridico quello della entrata in vigore della legge costituzionale!
A
me va bene...»
In
sostanza i giochi per chi scrive sarebbero chiusi, e gli elettori un
superato complemento d’arredo. Come poi il ricorso avrebbe potuto
determinare l’approvazione della riforma costituzionale senza passare dal voto, mi
sfugge. Un giudice è chiamato a pronunciarsi sulla procedura ma l’eventuale
applicazione di quanto stabilisce compete ad altri. Ammesso che Onida avesse
incassato un parere favorevole, si sarebbe dovuto iniziare un dibattito, con il
coinvolgimento di tutte le forze politiche, su come risolvere la questione. E
non è detto che la data del referendum avrebbe subito variazioni. Del resto, in
un clima così incendiario, chi si sarebbe preso la responsabilità? È un
discorso simile all’azione legale intrapresa contro la Brexit. Anzi, qui il caso è ancora più discutibile in quanto consumato ex post. Ho sentito persino qualche sedicente esperto di diritto
sostenere a caldo che quel ricorso potrebbe rovesciare l’esito referendario.
Poi sono intervenuti gli autori a fare chiarezza: rovesciare il
voto non sarebbe possibile, si tratta solo di provare a dare un peso
contrattuale ai sostenitori del remain nella trattativa con l’Europa.
È
un po’ come quando si legge il commento del ragazzino fresco di studi esteri
che si imbizzisce. Ma davvero credi di conoscere un paese solo perché ti sei fatto
sei mesi in una metropoli? E poi intendiamoci mica sei stato in una banlieue. Le metropoli sono organismi
complessi che riflettono la storia e le oscillazioni contemporanee in mille
sfaccettature diverse. Sbagliato dire che non sono rappresentative delle
dinamiche di un paese ma troppo affrettato pensare che tastandone il polso si ottenga
l’immagine veritiera di tutte le forze in campo. Torniamo agli Stati Uniti. Io
personalmente, in tutta la campagna presidenziale non ho sentito parlare quasi
mai dell’America profonda: Alabama, Idaho, Iowa, Missouri, Montana, Nebraska, Wyoming dov’erano? I contribuenti stanno anche là. Il vecchietto
dove lo metto cantava Domenico Modugno in un testo di sconfortante amarezza. E
per il vecchietto posto non c’era mai, nemmeno al cimitero.
Nel
racconto di una situazione tanto fluida infilare la porta del
retro, mentre qualcuno indica una falsa uscita solo per farvi girare ancora un
po’ a vuoto, tra uno sgambetto polemico e l’altro, è un rischio più che
preventivabile.
(Di
Claudia Ciardi)
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