La zattera della Medusa (1819), Museo del Louvre
È
una fra le più belle menti della pittura francese. Benché scomparso a soli trentatré anni, quando una brutta caduta gli lesionò la colonna
vertebrale causandone la morte, Théodore Géricault (Ruen, 1791 – Parigi, 1824)
ha lasciato un segno indelebile nella storia dell’arte europea. La sua opera
più famosa, La zattera della Medusa, una
tela di grandi dimensioni (circa cinque metri per sette) è entrata potentemente
nell’immaginario collettivo. Citata in moltissimi contesti, oggetto di studio e
imitazione, al centro delle più variegate performance, spunto per atti teatrali
e coreografie, il dramma della Medusa attraversa in profondità e scuote le
coscienze fin dalla sua prima controversa e in parte contestata esposizione al
Salone di Parigi nel 1819, quando l’opera non era stata ancora del tutto
ultimata.
Negli
anni mi è capitato spesso di ascoltare apprezzamenti verso questo quadro fra
persone assai diverse quanto a interessi e formazione culturale. Un fenomeno
che non ha mai smesso d’interrogarmi, ogni volta riconoscendovi il magnetismo
dirompente che l’autore ha saputo infondere al suo soggetto in un modo
così vivido da travalicare il tempo e i cambiamenti legati a una singola epoca.
Questo naufragio ha continuato a parlare fino ai nostri giorni con la stessa tragica
intensità delle ore in cui avvenne. E per quello che il Mediterraneo è divenuto
negli ultimi anni, uno sterminato cimitero urlante dai suoi fondali, l’immedesimazione
nella vicenda rappresentata ha forse veicolato un’ulteriore saldatura emotiva.
Il
fatto alla base del capolavoro di Géricault risale al 1816. Napoleone era
già in esilio a Sant’Elena e sul trono di Francia sedeva Luigi XVIII, l’uomo
della restaurazione, impegnato a restringere le conquiste civili e
libertarie dei rivoluzionari, riportando in auge la classe dirigente
aristocratica con i suoi riti e ingessature. Deciso a recuperare le colonie
francesi d’oltremare, secondo quanto stabilito dal congresso di Vienna, inviò
una spedizione diretta alle coste africane per riprendere possesso del Senegal
e della Mauritania. Il comandante della nave ammiraglia, il nobile Hugues Duroy
de Chaumareys, destinatario dell’incarico in virtù del suo lignaggio e non per
comprovate competenze in materia di navigazione, manifestò ben presto tutta la
sua sciagurata imperizia.
Giunto
nelle acque del cosiddetto Banco di Arguin, a causa delle mappe non aggiornate
e in seguito a una serie di manovre improvvide, finì per incagliarsi sui
fondali sabbiosi di quel tratto di mare, perdendo il contatto col resto della
flotta. Per i membri dell’equipaggio fu l’inizio di un incubo. Il comandante si
premurò innanzitutto di salvare i suoi effetti personali, riservando a sé
un’intera scialuppa dove pretese di essere calato in comodità, seduto sulla sua
poltrona, quindi fece in modo che gli ufficiali e il cospicuo seguito di
notabili, intendenti, cortigiani che avrebbe dovuto essere sbarcato in Africa
trovasse posto a bordo delle restanti lance. Esclusi da quel trattamento di
favore, stipati su una zattera di venti metri per sette con pochissimi viveri e
scorte di acqua insufficienti, centocinquantotto marinai e inservienti, compresi
Alexandre Corréard, di professione ingegnere, e Henri Savigny, medico di bordo,
che scamparono alla tragedia e scrissero a quattro mani un resoconto di
denuncia dei terribili fatti innescati dal naufragio della Medusa. Peraltro uno
dei due, anche se con certezza non si sa chi, è stato immortalato da Géricault
– si tratta dell’anziano seduto in atteggiamento pensieroso e affranto mentre
sorregge un cadavere, all’estrema sinistra della tela.
La
denuncia scritta dai due testimoni oculari divenne una sorta di bestseller, stampato
a puntate su un periodico famoso per i suoi attacchi all’aristocrazia francese,
e la divulgazione di quei materiali finì per far scoppiare uno scandalo.
Dunque, sotto il pungolo di un’opinione pubblica risentita, venne istituito un
processo a conclusione del quale tuttavia il comportamento scriteriato e deliberatamente
criminale del comandate Chaumareys ricevette una sanzione molto blanda:
condanna a tre anni di prigione e pagamento delle spese processuali, laddove era
prevista l’applicazione della pena capitale.
La
sentenza, pertanto, non placò gli animi ma semmai alimentò per più di un
decennio un forte risentimento contro quella classe nobiliare imposta dalla
restaurazione politica che tutto faceva tranne gli interessi dei popoli. Il
libro di Corréard e Savigny contribuì ad alimentare quel filone di cultura di
protesta che sarebbe sfociato nelle sollevazioni europee del ’48.
Quando
Géricault si apprestò a dipingere questa grande opera, sentì tutto il
peso della denuncia sociale che un simile soggetto recava sulle sue spalle. Terminato
da poco il proprio soggiorno in Italia, dove per un anno si era dedicato ad
approfondire dal vivo la tecnica di Michelangelo e Caravaggio, volle subito
fissare le idee per la sua grande tela su cui esercitare il vigore anatomico e la
potenza evocativa del chiaroscuro, tratti distintivi nell’opera dei due maestri
italiani. Rispetto al bozzetto preparato nel 1818, il quadro definitivo si
carica di un pathos a tinte fosche. Al centro è una folla umana su una zattera di fortuna, non solo in balia del mare, ma anche sbattuta e
annientata da una deriva psicologica che con i giorni – ne passarono ben tredici
prima che giungessero i soccorsi – condusse i superstiti all’abbrutimento, alla
perdita definitiva di ogni residua umanità.
Scene di ordinaria violenza. Malattia e agonia vissute nella promiscuità e nel terrore di esser gettati fuoribordo perché si era di peso agli altri. La morte attesa dai compagni affamati che talora si abbandonavano al cannibalismo. Una psicosi collettiva che alternava la speranza della salvezza alla più cupa disperazione.
Scene di ordinaria violenza. Malattia e agonia vissute nella promiscuità e nel terrore di esser gettati fuoribordo perché si era di peso agli altri. La morte attesa dai compagni affamati che talora si abbandonavano al cannibalismo. Una psicosi collettiva che alternava la speranza della salvezza alla più cupa disperazione.
Se
la cavarono in quindici, salvati dalla nave Argo che finalmente incrociò quegli
sventurati. Mentre nel bozzetto il veliero che pose fine alla tragedia si
scorge sullo sfondo, nella tela l’artista optò per una soluzione diversa, pur
lasciando intatta la composizione piramidale degli uomini rivolti
all’orizzonte, di vedetta. Qui la nave è praticamente
scomparsa, sussiste solo come un puntino infinitesimo in un’estrema lontananza,
tanto lontana da far pensare a un miraggio, mentre in primo piano un’onda
marina s’impone alla vista, obbligando a riflettere sulla precarietà della
condizione dei naufraghi, sul loro essere definitivamente perduti.
Géricault
ha proprio voluto mettere in scena questo senso di annientamento cui va
incontro l’uomo abbandonato a se stesso in mezzo a una forza di natura così
vasta e violenta. La composizione è attentamente studiata tanto da poter
dividere lo spazio in due piramidi, l’una tracciabile dai cadaveri sparsi sulle
assi dell’imbarcazione e culminante nel gruppo che spera di essere scorto dai
soccorritori, l’altra a partire dalle onde del mare sulla sinistra terminando all’albero che
sorregge la vela. È la cosiddetta direzione del mare che si oppone alla flebile
speranza dei superstiti. Quel mare sterminato, ribollente che
attornia la zattera ci trasmette tutta l’inquietudine del suo abbraccio
mortale.
Per
il suo lavoro il pittore condusse uno scrupolosa ricerca antropologica, andando
anche a intervistare alcuni degli uomini scampati al dramma. Presentato al
pubblico, il quadro fu investito da molte critiche a causa del crudo realismo
cui era orientato. In realtà si esprimeva così il filisteismo di chi non voleva
rassegnarsi a una denuncia tanto chiara di un episodio gravissimo del quale
erano stati responsabili comandanti impreparati raccomandati da governanti altrettanto
privi di rappresentanza.
Desiderando
sfuggire alla polemica e disgustato dall’atmosfera politica e culturale del suo
paese, Géricault si ritirò per un periodo in Inghilterra dove realizzò
un’importante serie di litografie. Al ritorno in patria rimeditò alcuni temi
della sua pittura, senza abbandonare la sua aspirazione alla denuncia sociale
che assunse il volto dei malati psichici della Salpetriere, dove venne
introdotto dall’amicizia col dottor Georget.
Un
anno prima di morire illustrò le opere di Byron. A raccoglierne l’eredità
artistica fu principalmente Eugène Delacroix, conosciuto nel 1817, e da allora
assiduo sostenitore e divulgatore dei suoi canoni.
(Di
Claudia Ciardi)
Bozzetto della zattera (1818)
Segnalazioni:
Il numero 133 (novembre 2017) di «Focus Storia» dedicato al centenario della Rivoluzione russa.
All’interno un interessante inserto sul naufragio della Medusa, immortalato da Théodore Géricault.
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