Si
parla con icastica brevità di gotico, ma con ciò non si fa riferimento a un
fenomeno omogeneo né semplificabile nelle sue declinazioni territoriali e
stilistiche. Non è chiara neppure la sua estensione temporale. Di fatto, avendo
costituito per tre secoli una dominante nel linguaggio formale dell’arte, assai
più longeva quindi del romanico e del barocco, ha finito per contaminare una
zona così ampia della creatività moderna che limitarne l’esistenza a un’area
geografica e a un’epoca ci allontana dal suo vero volto. Il gotico, infatti,
più di ogni altra corrente è una somma di luoghi e di periodi storici, si nutre
di percorsi evolutivi cronologicamente differenziati, di scambi tra culture
nordiche e mediterranee, di caratteri e innovazioni recepiti dalle une o dalle
altre a fasi alterne, secondo le idee della politica, i traffici mercantili, la
sensibilità dei committenti. Né mancano le interruzioni, i momenti in cui la
scuola italiana – ci riferiamo qui alla pittura – sembra distanziarsi dai coevi
modelli francesi, tedeschi, fiamminghi, scrivere pagine in solitaria, per poi
tornare ad attingere da quei canoni. Perché il gotico è sì canonizzazione ma al
contempo ricerca, movimento, invenzione, slancio sperimentale. Tende a volersi
superare di continuo, ha uno sguardo rivolto fuori da se stesso, è aperto alle
capacità innovative di ogni singolo artista verso cui mostra tempi di reazione
sorprendenti. In questa grande fabbrica di sensibilità e ingegni più o meno
assiduamente dialoganti non mancò una profonda battuta d’arresto: la pestilenza
del 1348 che nei milioni di persone falcidiate si portò via anche buona parte
delle classi dirigenti e intellettuali nell’Europa di allora, aprendo un vacuum
che solo nei decenni successivi poté essere ricolmato. Ma non mancarono neppure
“città ideali” dove gli eventi favorirono la concentrazione delle migliori
personalità dedite all’arte. Fu così ad Avignone, in cui su insistenza del re
di Francia Filippo il Bello venne a stabilirsi nel 1309 papa Clemente V. Oltre a tutto il suo seguito, si spostarono con lui i più grandi, forse lo stesso
Giotto, sicuramente Simone Martini che qui lavorarono al fianco dei colleghi
francesi, catalani, boemi, inglesi. L’influenza della pittura senese, mediata
dal laboratorio avignonese, passò quindi nella regione dei Pirenei, in Aragona
e fino alla corte dell’imperatore Carlo IV, che allora sognava di coprire Praga
di gioielli così da non sfigurare nel confronto con Parigi né con le capitali
toscane della cultura. Semi che dopo la fosca epidemia di metà Trecento
tornarono a sbocciare, trovando nuova linfa proprio nei centri del nord che
diedero impulso alla stagione del “gotico internazionale”,
approssimativamente collocato lungo un ventennio, più o meno a partire dal 1400.
Si tratta di un raro parallelismo nelle tendenze creative delle diverse aree
europee che ha, è importante ricordarlo, una solida base di natura sociale: le
grandi famiglie di notabili che governavano il vecchio continente condividevano infatti gli stessi ideali cortesi, celebrati pure in letteratura. In questi
stessi anni viene eretto il Duomo di Milano (1386), che segna il trionfo in
Italia delle forme nordiche.
Del
resto, il gotico nasce in architettura e solo ben più tardi di un secolo inizia
a fiorire in pittura, con cui va intesa la produzione sacra su tavole lignee, quella
su vetro e su tela, ma anche la miniatura dei codici, il disegno degli arazzi.
Tutto però ha inizio dalle cattedrali, e in particolare in Francia dove i
criteri dell’alto gotico si materializzano a Chartres. Nella sua Madonna di Ognissanti
(1306-1310) Giotto dipinge la Madre assisa sotto un tabernacolo gotico, tra
guglie e fioroni caratterizzanti ormai da decenni il nuovo stile negli edifici
sacri francesi, ma che in Italia avevano trovato da poco un loro spazio di
rappresentazione nelle facciate del Duomo di Siena e di Orvieto. Contrariamente
alla vis polemica di Vasari che per ragioni di campanilismo liquida il gotico come
un esercizio disordinato di arte barbara, concepito in spregio ai modelli
antichi, questo poliedrico cosmo creativo scaturisce piuttosto da un confronto
serrato con l’antico, implicando uno studio preliminare di quei reperti. Non è
un caso, dunque, se nell’immaginario ottocentesco d’impronta neogotica, o più
latamente eclettica, le rovine occupano un posto tanto centrale per la
rinascita di una poetica che a quelle forme medievali guardava.
Per
quanto riguarda la pittura si è preteso di narrare una progressione ininterrotta
da Giotto a Michelangelo, mentre verosimilmente in Italia le vecchie tradizioni
si saldano sul nuovo linguaggio, lo abbiamo già detto, ora facendo scuola ora mediando
tra sé e gli elementi esterni, alla confluenza di uno stile mutevole, sempre
in cerca di superarsi. Né è ravvisabile in tale fermento un’omogeneità di
tecnica, a partire dall’uso del colore. I pigmenti sciolti in una
soluzione d’uovo affiancarono per molto tempo la pittura a olio. Sebbene i
teorici del XVI secolo in maniera fin troppo apodittica ascrivano ai fiamminghi
questa invenzione, si sa che gli impasti a base di olio erano già noti nel XIII
secolo, e prima che fossero perfezionati e soppiantassero la tempera trascorse un
tempo piuttosto lungo.
La
bottega d’arte nel medioevo aveva un’organizzazione meticolosa, al pari di
altri mestieri si sviluppava entro vere e proprie dinastie territoriali che ne consolidavano
i rapporti con la committenza. All’interno di questo contesto, abbastanza
gerarchico e poco incline alla mobilità sociale, vi erano però grandi
personalità che in parallelo coltivavano anche incarichi in proprio, fuori
dall’attività di bottega. È stato così ad esempio per Dürer. L’Italia si distinse
precocemente per l’abilità dei suoi “frescanti”, qui la pittura murale fin dai
primi anni del XIV ebbe infatti molto risalto, mentre i fiamminghi s’imposero
per la perfezione del dipinto su tavola. Tanto che nel Quattrocento prese piede
un florido mercato di queste opere, acquistate da ricchi e raffinati collezionisti
dei paesi mediterranei. Gli olandesi impiegavano moltissimo tempo per la
realizzazione di un solo pezzo, un lavoro di artigianato estremamente
scrupoloso che incarna tutta la differenza fra quel tipo di produzione rispetto
alla successiva cosiddetta “arte di massa”. Quando Andrea da Firenze (1343-1377)
fu chiamato ad affrescare Santa Maria Novella, il che richiese 156 giorni di
lavoro, dobbiamo immaginare un’organizzazione preliminare dettagliatissima e ben
strutturata, visto che l’esecuzione non permetteva margini di errore.
In
un’epoca di fermento politico, imprese economiche, ascesi religiosa, speculazione
metafisica, non sorprende che la cultura abbia avuto i suoi spazi di
esaltazione, raggiungendo vertici sommi, emblemi di collettività riunite dall’amore
per l’arte e che nell’arte cercavano un mezzo per rappresentarsi e un riscatto
spirituale.
(Di Claudia
Ciardi)
Giotto, Maestà (Madonna di Ognissanti), 1306-1310
Duccio di Buoninsegna, Pietro rinnega Gesù per la prima volta e Cristo viene portato davanti al sommo sacerdote, 1308-1311
Ambrogio Lorenzetti, Allegoria del buon governo, 1337-1340
Andrea da Firenze, Trionfo della Chiesa - Cappellone degli Spagnoli, Santa Maria Novella, 1367
*Colpisce la dettagliata veduta laterale di Santa Maria del Fiore. Qui ne
viene anzi anticipata la conclusione con la cupola, finita in realtà solo mezzo secolo più
tardi.
Berthélemy d’Eyck, Annunciazione, 1443-1444
(Primo da sinistra) Derick Baegert, L'evangelista Luca dipinge la Madonna, 1485
Bartolomé Bermejo, Vergine di Montserrat, 1482-1485
*Baegert ci mostra l'interno di uno studio di pittura dell'epoca (simbolicamente ad eseguire il ritratto è Luca, patrono dei pittore, mentre sullo sfondo è un angelo a preparare i pigmenti).
Testo consultato:
Robert Suckale, Matthias Weniger, Manfred Wundram, Gotico, Taschen, 2007
Robert Suckale, Matthias Weniger, Manfred Wundram, Gotico, Taschen, 2007
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