Riprendiamo
il viaggio argonautico seguendo la rotta della pietas. Corrispondente all’italiano “pietà”, nella cultura romana almeno fino all’epoca imperiale conservò il suo
significato originario, talvolta usato anche nella nostra lingua; ad esempio nell’espressione
la “pietas” di Enea, con riferimento al protagonista virgiliano. Nel linguaggio
letterario, più vicino dunque al latino, indica una disposizione dell’animo a provare affetto, devozione, rispetto reverenziale
per ciò che è considerato sacro: i genitori, la patria, le memorie per le proprie
tradizioni familiari e civiche. Nella teologia morale la virtù, considerata
parte della giustizia, per cui si tributa il doveroso e conveniente ossequio e
la debita reverenza ai congiunti per sangue, ai proprî concittadini e al prossimo
in generale.
Sentimento
della misericordia e della comprensione, viene in soccorso all’essere umano per
riscattarlo dall’efferato volgere dei tempi e consolarlo. Usare pietà significa
infatti lenire le ferite e tendere una mano. Quale più attesa e nobilitante
salvezza per l’uomo che sperimenta i rovesci del vivere, i colpi degli eventi,
se non la possibilità di ritrovare se stesso, di avvertire di nuovo in sé la
vaga ombra di quegli stati d’animo in cui avere riparo e avvicinare i propri
simili che si credevano ormai allontanati, dispersi.
«La
pietà nei confronti degli uomini era ciò che veniva sentito dai poeti dopo le
grandi crisi, ad esempio dopo la Guerra del Peloponneso: coltiviamola il più possibile
anche noi», così ci esorta Alessia in una sua recente riflessione,
richiamando alla memoria uno dei fatti storici che forse più sono in grado di
raccontarci in tema di lacerazioni interne, disgregazione sociale, crisi degli
ideali, insanabile impoverimento materiale e culturale causato dal protrarsi del
conflitto oltre ogni umana sopportazione. Il momento che stiamo attraversando
non è meno complesso, in quanto segnato da pesanti incertezze e inevitabili
battute d’arresto nel modus operandi delle strutture che reggono la nostra
organizzazione. L’epidemia rischia di precipitarci in una conflittualità permanente,
che in parte stiamo già sperimentando. I medesimi argomenti che attengono alla nostra
salute, alle possibili strategie di uscita dall’emergenza sono oggetto di
scontro, di faziosità, in buona sostanza di fitte incomprensioni. Prendiamo la delicatissima
questione del vaccino. Prima dei tanti e disorientanti annunci, a mio avviso,
si sarebbe dovuti provvedere alla divulgazione dei risultati su organi
accreditati per l’informazione scientifica. Quindi procedendo a comparare i dati dare gli strumenti a esperti e non per formulare un giudizio svincolato, limpido, sereno se possibile. Di recente mi ha colpito
l’intervento dell’Ordine dei medici e chirurghi di Forlì-Cesena (bollettino del
20 novembre) che ha diffuso un articolo approfondito su quanto – e non è poco! –
non sappiamo per poter dire con certezza che disponiamo di un vaccino efficace.
Non ultimo il campione dei testati. Allo stato attuale si rasenta a malapena il centinaio di volontari. Anche un campione di 30.000 sarebbe ancora
un numerino; magari con 300.000 si potrebbero avere delle evidenze tali da sbilanciarsi
un po’ di più sui risultati. Ma oggi non siamo neppure lontanamente in vista di
tali cifre.
Illudere
su cure e prevenzione, lo ha detto in diversi interventi lo psichiatra Paolo Crepet – con
cui tuttavia dissento circa le posizioni di obbligo del vaccino, anche per le ragioni che ho appena esposto –
rischia di innescare un pericoloso risentimento che si sommerebbe a un malessere
più ampio. In momenti storici che si annunciano opachi e discontinui ci
vogliono trasparenza e messaggi chiari da destinare alla collettività. Né la
prossimità alla morte che l’epidemia impone sembra allentare le nostre ansie innescate dalla sveltezza consumistica. La preoccupazione di oggi a quanto pare non è l’umano che recede, ma il tempo perso,
irrecuperabile al nostro dimenarci in superficie. Anche qui Paolo Crepet è
stato tra i pochi a commentare le illuse pulsioni in cui da mesi ormai esorcizziamo
il quotidiano morire, mostrando tutta la contraddizione che grava sui nostri
comportamenti. Certo, non è restando aggrappati a questa contraddizione che ne
usciremo.
Piuttosto
sono le risorse della mente, gli strumenti del pensiero razionale e la poesia,
il coraggio della poesia, veicolo di polarità inversa in confronto alle
derive del mondo opaco, appiattito, ridotto a superficie, sono queste le cose
che possono tirarci fuori dalla lunga guerra. È nel riparo sicuro di queste
cose che germoglierà la pietas. Dunque,
al modo della giovane brigata che si ritirò a novellare per cercare scampo dalla
peste, lasciamo spazio alla narrazione, al potere curativo della narrazione, e
ascoltiamo le toccanti parole scelte da Alessia per il suo contributo.
(Di
Claudia Ciardi)
Michelangelo - Pietà Rondanini
Di
Alessia Rovina
Per la rubrica «L’Argonauta»
Come
tradurre un concetto, quello abusato e dunque immancabilmente travisato di pietas,
che lo stesso, grandissimo, Alfonso Traina definisce come «intraducibile»? [A.
Traina, sub voce “pietas”, Enciclopedia virgiliana, IV] Come riportare
alla sua valenza originaria ciò che il nostro umano bisogno di comunicare ci
presenta come parola, e che invece è – come lo stesso grande latinista tiene a
precisare – un sentimento? E poi, quale pietas proviamo noi,
oggi, avventori spaesati di strade in cui la pietra d’inciampo quotidiana è
sempre quella del rischio di assuefarci ai dolori altrui, ai corpi
martirizzati, alle atrocità, all’odio, nella furia che serializza l’agonia e la
miseria? Ebbene, nella più totale apertura, diamoci il permesso di indugiare
sugli immortali capolavori letterari che ci sono stati donati, e permettiamo
alle parole dei nostri mirabili antenati di interrogare i nostri cuori.
Virgilio,
nella composizione del secondo libro della sua straordinaria Eneide,
riporta il racconto della notte funesta che vide il giovane Enea perdere nel
rogo la sua patria, costringendolo a fuggire radunando i suoi affetti, non
prima di essersi scontrato con lo scoramento dell’anziano padre, Anchise,
deciso ad indugiare nella tristezza d’un fato inesorabile. Per prodigioso
intervento divino, però, la decisione del padre di Enea muta, e si pone la
necessità di riparare al più presto sul monte sacro. Nella tempestività di tale
decisione, il giovane indugia benevolo, e il Poeta così soavemente canta:
ergo age, care pater, cervici imponere nostrae;
ipse subibo umeris nec me labor iste gravabit;
quo res cumque cadent, unum et commune periclum,
una salus ambobus erit.
Publius Vergilius Maro, Aeneis, II, 707-710
Ecco
la pietas tanto celebre di Enea, il quale invita il padre a salirgli in
spalla, giacché la necessaria fatica fisica, «labor», comportata da questo
gesto non gli sarà gravosa, perché, a conclusione, «uno e comune il
pericolo,/ una salvezza ci sarà per entrambi». Nella morale che non cede al
moralismo il genio virgiliano lascia aperte anche al nostro occhio le crepe che
dilaniano Enea: la sua pietas totale, esercitata verso i parenti, verso i
compagni, verso la patria, verso gli dèi, impone spesso il sacrificio di una di
queste stesse componenti – la conseguenza più drammaticamente ricordata sappiamo
essere l’epilogo della relazione con Didone, ma che in realtà accompagna nel
suo languore accadimenti che si estendono per tutto il poema – ma soprattutto
il sacrificio di sé.
Non
esiste constatazione più tranchant: l’insorgere incontrollato di quel
sentimento tanto profondo, tanto difficile da sperimentare così puramente,
comporta necessariamente la rinuncia di qualcosa di noi. In che cosa questo
coincida, a ciascuno di noi scoprirlo.
La
bufera sta infuriando, e ogni superbia si scioglie sotto il cielo plumbeo della
Britannia. Re Lear, magnifico ritratto immanente e trascendente tratteggiato da
Shakespeare nell’omonima tragedia del 1605-1606, dopo i suoi accessi di vanità
senile che riescono nel devastare il cuore dell’unica figlia fedele, Cordelia,
riesce a ritornare uomo solo nel momento in cui sperimenta la nuda pietas
nei confronti del Fool, il Matto di corte, metafora della sua stessa
follia, resa eccellentemente da una delle pagine più alte del teatro, in cui il
vecchio sovrano, chino e tremante, rivolge al sé stesso che vede dall’esterno
queste parole:
Comincio a perdere il cervello. Vieni,
ragazzo mio. Come stai, ragazzo?
Hai freddo?
Ho freddo anch’io. Dov’è
questa paglia, amico? L’arte del bisogno è strana
e può rendere preziose cose vili.
Andiamo. Alla tua capanna!
Povero Matto e furfante,
nel mio cuore
c’è una parte che ancora soffre per te.
[traduzione di A. Lombardo]
W. Shakespeare, Re Lear, atto III, scena II
L’autentica vita di Re Lear, libera dalle angustie delle logiche del potere, pare avere principio proprio nel momento in cui egli ha compassione di se stesso, proprio come accade ad Ivan Il’ič poco prima di morire: un lampo di conoscenza di sé che rende essenziali ed irrinunciabili proprio gli ultimi istanti di vita. Vorrei significativamente concludere questo nostro breve riflettere sulla pietas letteraria con le parole del Manzoni, in quanto, dopo la mia angoscia di ex-liceale sopraffatta dalla monumentalità del ramo del lago di Como, riscopro solo ora l’inesplicabile altezza della prosa manzoniana, nonché la profonda bellezza spirituale, in grado di far percepire realmente l’inestimabile valore di ogni umanità ferita e accolta. Appena introdotto l’innominato, Federigo gli andò incontro, con un volto premuroso e sereno, e con le braccia aperte, come a una persona desiderata, e fece subito cenno al cappellano che uscisse: il quale ubbidì. […] «oh!» disse: «che preziosa visita è questa! E quanto vi devo esser grato d’una sì buona risoluzione; quantunque per me abbia un po’ del rimprovero!». «Rimprovero!» esclamò il signore maravigliato, ma raddolcito da quelle parole e da quel fare, e contento che il cardinale avesse rotto il ghiaccio, e avviato un discorso qualunque. «Certo, m’è un rimprovero,» riprese questo, «ch’io mi sia lasciato prevenir da voi; quando, da tanto tempo, da tante volte, avrei dovuto venir da voi io.». «Da me, voi! Sapete chi sono? V’hanno detto bene il mio nome?». […] «Dio grande e buono!» esclamò Federigo, alzando gli occhi e le mani al cielo: «che ho fatto io, servo inutile, pastore sonnolento, perché Voi mi chiamaste a questo convito di grazia, perché mi faceste degno d’assistere a un sì giocondo prodigio!» […] Così dicendo, stese le braccia attorno al collo dell’innominato; il quale, dopo aver tentato di sottrarsi, e resistito un momento, cedette, come vinto da quell’impeto di carità, abbracciò anche lui il cardinale, e abbandonò sull’omero di lui il suo volto tremante e mutato. Le sue lacrime ardenti cadevano sulla porpora incontaminata di Federigo; e le mani incolpevoli di questo stringevano affettuosamente quelle membra, premevano quella casacca, avvezza a portar l’armi della violenza e del tradimento.».
A. Manzoni, I Promessi Sposi, cap. XXIII
Auguro
a tutti quanti noi innominati di imparare a cedere, in nome di quella pura pietas
che porta il nostro nome, «madre o mantice dell’amore» [G. Leopardi, Zibaldone,
3607].
(Di Alessia Rovina, classicista e studiosa di teatro, novembre 2020
account
twitter: @rovina_alessia)