Per
il secondo trimestre del 2020 l’Ocse certifica il reddito delle famiglie
italiane a meno 7,2%. Nel medesimo periodo il Censis dichiara che sono a
rischio chiusura 460.000 imprese. Dati da bollettino di guerra che sicuramente
non sono ancora definitivi, in quanto manchevoli delle reali implicazioni delle
nuove misure restrittive in vigore da poco meno di due settimane, con conseguente
ulteriore rallentamento dei motori economici. La battuta d’arresto portata
dall’epidemia negli assetti mondiali ha aggravato un quadro reso instabile da
almeno un decennio di crisi, all’interno del quale la situazione greca ha
toccato il punto più basso, pagando al contempo il più alto prezzo in termini
di depauperamento sociale. Dal 2010 la Grecia vive in bilico, senza aspirazioni
né progetti di lungo termine, e poco ha significato l’uscita due anni fa dal
programma di austerity. La durata pluriennale di quei piani, l’introduzione
repentina di riforme che hanno determinato un taglio netto del potere
d’acquisto in ogni ceto, la conseguente prolungata contrazione dei meccanismi
produttivi hanno fatto saltare i residui e già fragilissimi equilibri interni,
gettando la popolazione in un tunnel depressivo, fatto di vulnerabilità e
mancanza di slancio, esponendo il paese al miglior offerente. La Cina ha saputo
introdursi sapientemente in queste crepe, prima stabilendo le proprie teste di
ponte al Pireo, fiore all’occhiello tra le infrastrutture greche ed hub
imprescindibile per il ripristino della via della seta. Poi firmando accordi per
la cessione di asset strategici essenziali, come ad esempio quello energetico.
Vanno peraltro in questa direzione le recenti aperture del neopremier Kyriakos
Mitsotakis, che dopo aver lanciato accuse al suo predecessore Tsipras sulla
svendita del paese a Francia e Germania, ha impresso una definitiva svolta a
oriente. L’Europa, in una sorta di tacita connivenza che suscita inquietudine,
ha lasciato fare, favorendo anzi questa tendenza proprio attraverso politiche
antifrastiche rispetto alla capacità di ricucire e ridare linfa al tessuto
sociale.
Tanto
per ricordare alcune misure che hanno fiaccato il popolo greco creando una
pericolosa infiltrazione in una delle frontiere mediterranee più delicate e nodali;
fronte all’Asia, spalle ai Balcani con tutto ciò che si sta giocando su queste
rotte. Tre bail-out che hanno disposto altrettante tranche di aiuti
economici secondo i dettami della Troika. Tali imposizioni si riassumono in
privatizzazioni e tagli a tutto il tagliabile. Un greco sorpreso a far legna
nei dintorni di Atene disse in quei giorni che ci vuol tempo per abituarsi alla
povertà; durante la guerra e nel dopoguerra avevano imparato a gestirla, ma
trovarcisi in mezzo da un giorno all’altro significa soccombere.
Dura
resistere, la voragine aveva iniziato a inghiottire centinaia di migliaia di
vite. Alla fine del 2018, quasi dieci anni dopo la cura da cavallo, il 35%
della popolazione era a rischio esclusione sociale (contro il 23% della media
europea, comunque un valore alto). Più di mezzo milione di greci, per lo più
giovani e neolaureati, ultimi figli di quella borghesia che per un po’ ha potuto
contare su qualche rendita di posizione pur ridotta dall’impatto della crisi,
sono emigrati. Il calo delle pensioni è stimato tra il 40% e il 60%. Il tasso di
natalità è tuttora in caduta libera, il più basso del vecchio continente. Il potere
d’acquisto delle famiglie evaporato per più di un 30% rispetto al periodo
pre-crisi. L’introduzione di un rigido controllo sui capitali ha comportato fra le
altre cose un limite giornaliero al prelievo pari a sessanta euro (rimosso solo a ottobre 2018 con la fine dell’ultimo programma di aiuti). Nei momenti più
foschi di quelle imposizioni economiche si vociferò di riformare
perfino l’alfabeto greco, troppo difficile, troppo fuori dal tempo, si disse.
Se questa non era un’intromissione che andava al di là del rimettere in sesto i
conti, come definirla allora? Alla resa economica si puntava anche attraverso
una sconcertante resa culturale.
Nel mentre,
cosa impensabile fino a pochi anni prima, dal maggio 2016 in accordo col Fondo
Monetario Internazionale iniziò una concertazione per l’alleggerimento del
debito greco, così da ridare respiro al paese. La questione ellenica si trascinava da
così tanto tempo che i creditori avevano cominciato a valutare questa azione.
Alleggerire significava ritardare le scadenze dei pagamenti sulle esposizioni
che la Grecia aveva nei confronti degli altri paesi europei. Per anni ciò è
stato politicamente impraticabile, in particolare per l’opposizione della Germania,
che temeva di creare un incentivo perverso ad altri paesi europei. E proprio riguardo il
debito tedesco, udite, udite: «Quanto ad affidabilità fiscale, la Germania ha
già fatto bancarotta quattro volte. Il suo miracolo economico deve molto al
taglio del debito postbellico ottenuto nel 1953. La sua crescita dopo
l’annessione della Germania est nel 1990 ha goduto della indiretta ma congrua
partecipazione europea al colossale trasferimento dei capitali verso i nuovi
Länder, tuttora in corso (una Transferunion interna). Infine, da quando esiste
l’euro Berlino non è mai stata sanzionata malgrado abbia violato almeno sei
volte le regole di austerità da essa reclamate – tra cui lo stesso patto di
stabilità – e abbia spesso ecceduto il limite del 60% fissato dai trattati per
il rapporto debito/pil (oggi è al 74,7%). Per tacere del formidabile surplus
della bilancia commerciale, squilibrio macroeconomico incompatibile coi
trattati». (Dall’editoriale di «Limes», n.7, 2015, pp. 21-22; un numero direi
canonico se ci si vuole documentare sulla crisi greca e le sue radici
storiche – peccato solo per l’assenza di voci femminili –
penso ad artiste, scrittrici, cantanti di rembetiko, in quanto il loro punto di
vista avrebbe dato un contributo essenziale all’analisi).
Per
ammissione dello stesso Jeroen Dijsselbloem, l’ex capo dell’Eurogruppo che
riunisce i ministri delle finanze dei diciannove Stati membri: «Sulle riforme
l’Unione Europea ha chiesto troppo al popolo greco in cambio del salvataggio.
La loro crisi è stata così profonda che non si può certo definirla un
successo».
Dunque,
se dopo l’introduzione della moneta unica il risparmio ha registrato
un’erosione costante negli anni – si è parlato in un precedente articolo dei
rapporti Ires per l’Italia – mancava un
casus belli, qualcosa che mettesse alla prova il sistema. E prima venne la
Grecia. Qui si è compreso, come mai in precedenza, che se vivere in un assetto
comunitario implica certamente la condivisione delle regole, quelle stesse
regole possono arrivare quasi a strangolare se la loro applicazione avviene in
esclusiva osservanza ai protocolli, senza essere concertate e mitigate sulla base del
problema da risolvere.
Un’Europa
che perde pezzi – lo si è visto con Brexit – non la paventata uscita della
Grecia, come si diceva all’indomani dell’esplosione del debito greco, ma quella
di un paese che nella storia ha sempre mal digerito l’attorialità continentale
della Germania e che una volta di più ha preferito guardare alla propria
alternativa in materia di commerci e prospettive politiche, il Commonwealth.
Un’Europa che annuncia un piano Marshall per fronteggiare la crisi innescata
dal coronavirus, ma che rischia fortemente di frammentarsi ancora, sui tempi,
l’entità degli aiuti, l’efficacia territoriale, veloce, precisa, consapevole
delle difese da mettere in campo, per ora oggetto soltanto di fantasiosi auspici. E sulla quale perciò alleggia, ancora una
volta, lo spettro di quei rapaci interessi esterni cui accennavamo nel
descrivere la condizione greca. Un’escalation, lo ripetiamo, che non nasce
all’inizio di quest’anno segnato dalla pandemia – anche se in molte analisi si
è voluta enfatizzare una cesura tra il prima e il dopo, tra numeri che apparivano
da boom economico se rapportati con i freni del lockdown, al punto da farci
dimenticare quell’incubo quasi ventennale della cosiddetta “recessione in
crescita”, su cui alcuni economisti più capaci e lungimiranti hanno provato a
richiamare la nostra attenzione. Incubo che in maniera subdola ha preparato
il terreno a un divario che se finora è stato in qualche misura relegato a
sacche della società indebolite, instupidite e non comunicanti fra loro, corre
pericolo, adesso, su numeri estesi e in rapido aumento, di uscire dal quel
“caos controllato” e fare massa critica. Critica, crisi. Torniamo alla nota
parola strapazzata dal dibattito contemporaneo.
Dal
greco κρίνω = separare, cernere, in senso più lato, discernere, giudicare,
valutare. Originariamente di derivazione agricola. Il verbo era infatti
utilizzato in riferimento alla trebbiatura, cioè all’attività conclusiva nella
raccolta del grano, consistente nella separazione della granella del frumento
dalla paglia e dalla pula. Da qui derivò sia il primo significato di
“separare”, sia quello traslato di “scegliere”. A differenza dell’antico in cui
descriveva un momento di passaggio, con le incertezze e aspettative che ciò
implicava, nell’uso moderno si è connotata negativamente in quanto indicherebbe
il peggiorare di una situazione. Ultimamente abbiamo sentito ripetere fino alla
noia che la crisi può essere un’opportunità. Un concetto nobile in sé, ma come
tutto ciò a cui si ricorre in misura eccessiva, purtroppo precocemente
ammantato di banalità. Visto che la Grecia può essere considerata in maniera
inconfutabile la prima esperienza di riassetto economico fronteggiata dall’Ue,
e dati gli esiti complessi e poco lusinghieri che ha avuto, giusto per usare un
eufemismo, c’è da chiedersi se l’Unione sia davvero pronta alle manovre di
largo respiro cui sarà chiamata per la nuova crisi acuita dall’epidemia e che
rischia di andare fuori controllo. In questi anni si è detto che c’è stata fin
troppa economia, forse invece non c’è n’è stata abbastanza. Mi spiego. Laddove
era necessario rimettere in discussione i modelli, la preferenza è stata accordata,
per pigrizia e insipienza, ma anche per non toccare certi interessi, a cose
note, alle lezioni del passato mentre i nodi che man mano abbiamo scoperto
disegnavano scenari inediti, in continuo mutamento. A un certo punto le
posizioni hanno iniziato a polarizzarsi, tra economisti osservanti dei metodi
tradizionali e studiosi propensi a innovare. Ne sono nate discussioni, polemiche anche accese, in alcuni casi aperture ma tardivamente e sempre senza raggiungere
obiettivi comuni. Avremmo dovuto essere incisivi, adattabili, visionari. E
soprattutto ritrovare uno slancio politico autentico fuori dalle agende preconfezionate,
impugnate a seconda del momento come fossero copioni intercambiabili. Il professor
Canfora ha più volte citato la lunga guerra del Peloponneso per descrivere le
dinamiche belliche di inizio Novecento. Non tanto due guerre separate da una
ventennale crisi economica, piuttosto un conflitto permanente, che per certi
versi rassomigliava alla sfibrante lotta intestina in cui la Grecia si dilaniò. Uno spunto che potrebbe tornare utile a descrivere anche le annose contrazioni e
contraddizioni di questo inizio millennio, di fronte alle quali finora ci siamo
arresi, subendole come fossero una necessità preordinata, anziché provare a convogliarle verso un orizzonte umanamente comprensivo e sostenibile.
Così
invece ci ritroviamo frastornati, stanchi e sguarniti davanti alle sfide che ci
attendono. La pressione scaricata sulle strutture
ospedaliere che sono in questo frangente i bastioni più esposti, è solo uno degli
indici che stanno marcando rosso e che ci avvisano che le nostre strutture,
quelle costruite a partire dal dopoguerra e l’impostazione che gli abbiamo dato,
sono compromesse.
Sviluppare strategie vincenti e vantaggiose comporta sacrifici e soprattutto
avere carattere per superare la tempesta, da cui non si uscirà se non
profondamente cambiati, il che non basta e non comporterebbe alcun moto in avanti senza il coraggio di prendere in mano questo cambiamento.
(Di Claudia Ciardi)
Per approfondire:
Tra Euro e Neuro. La tragedia greca spacca l’Europa, la Germania domina ma non
guida e si scontra con l’America, «Limes» 7, 2015
Il
rompicapo Atene sulle scelte di Draghi, «Corriere della Sera», 30 dicembre 2014
L’incognita Grecia scuote l’Europa, «Corriere della Sera», 30 giugno 2015
Il No greco spaventa l’Europa, «Corriere della Sera», 6 luglio 2015
La Grecia un anno dopo, «Il Post», agosto 2016
La Grecia è davvero uscita dalla crisi?, «Money», gennaio 2020
Weimar - La tentazione delle similitudini storiche
Marco Revelli, Poveri noi, Einaudi
Il rompicapo Atene - 2014
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