C’è un angolo
meraviglioso di Torino che attende, come molti altri luoghi del sapere in
Italia, di ridestarsi dal sonno della chiusura forzata di questo periodo e
tornare a incontrare al più presto i propri visitatori. Il Museo della Frutta
in Via Ormea, 47 è una realtà certamente meno frequentata ma capace di offrire
un’esperienza unica, dal punto di vista culturale e ancor più sensoriale.
Elogio a tutto tondo della natura, il suo cuore è la collezione pomologica di
Francesco Garnier Valletti (Giaveno 1808 - Torino 1889), eccentrica figura di
artigiano, artista, scienziato, collezionista. Un tipico ingegno ottocentesco
animato dalla curiosità, dall’amore per il sapere, da quella sana instancabile
filìa nei confronti del mondo. Questo spazio, inaugurato nel febbraio del 2007,
ha il merito di avvicinarci al tema della biodiversità, valorizzando
il lavoro della Stazione di Chimica Agraria dal 1871 ad oggi, nel contesto
dell’evoluzione della ricerca applicata all’agricoltura a Torino tra Otto e
Novecento. Su tali conoscenze è peraltro auspicabile una crescente e scrupolosa
attenzione in modo da generare una più estesa e approfondita riscoperta della progettualità
agraria. Soprattutto in considerazione che le attuali problematiche legate all’inquinamento,
all’intensività della resa dettata dalla produzione industriale ingigantiscono con
vertiginosa rapidità a danno di antiche e preziosissime conoscenze, ultimo
presidio di colture e culture locali sempre più avviate all’oblio. Si rende
dunque necessario un ritorno, un recupero del patrimonio materiale e
immateriale scaturito dai vecchi bioritmi, da strategie passate (ma affatto superate) e dall’amore di
generazioni tutte votate a preservare il territorio, a custodirne identità,
caratteri, letteralmente radici. Simili processi, ne siamo convinti, nascono e
rinascono anche aggirandosi per le sale accoglienti di luoghi come il nostro
museo, che in tal senso viene a porgerci doni augurali. Del resto, la densa
simbologia che investe la frutta fin dai miti dell’antichità non può far
pensare diversamente. Dal latino fruor/ frui – verbo deponente che significa
“godere”, “trarre piacere/utilità” – il
frutto è ciò che viene dalla terra, dagli alberi, dalle piante ma anche in
generale la prole, il figlio concepito, a testimonianza di come questa parola
raccolga in sé la forza generativa, lo spirito vitale che attraversa la natura.
La
mela è da sempre oggetto di discordia ma pure di riscatto. I pomi d’oro sono all’origine
della guerra tra Achei e Troiani e in latino “malum” indica sia il frutto del
melo che il male. Getta l’uomo nel peccato secondo le Scritture ma raffigurata nella
mano di Gesù infante o come albero alle
spalle della Madonna assume un significato di salvezza e redenzione. E ancora, una
melagrana è offerta da Ade a Persefone, figlia di Demetra, che cibandosene resta imprigionata nel regno dei morti. Il frutto reca dunque in sé la liminalità della
vita e del trapasso, oltre a incarnare il mistero della Resurrezione in ambito
cristiano. Il fico ha una simbologia simile a quella della melagrana. Giunto a
maturazione si spacca e lascia intravedere un interno rosso, pieno di piccoli
semi. Legato anch’esso alla Madre Terra allude alla fertilità somigliando nella
forma a un ventre gravido. E ancora il nocciolo indica fecondità e generazione,
pace e prosperità, nonché salvezza. La castagna, chiusa in un guscio di aculei
spinosi, evoca l’immagine della Passione di Gesù; simboleggia anche la castità,
contenendo nel suo nome la radice “casta”, ovvero “pura”. Sono solo pochissimi
accenni a una tradizione complessa, stratificata che coinvolge epoche e culture
molto diverse fra loro. Con il presente contributo chiudiamo per quest’anno il
ciclo delle nostre “botaniche”, nell’intento di suscitare una rinnovata curiosità
in tutti gli appassionati del tema e desiderando far risbocciare il seme di
pubblicazioni che hanno rappresentato momenti nodali nella storia dell’editoria, anche
qui con un’attenzione particolare, autentica ai contenuti, alla bellezza, alla poesia
di quanto si andava a stampare. Perciò si ripropone uno stralcio dell’articolo
di Daniele Regis contenuto nel volume che Allemandi aveva dedicato all’opera di Garnier Valletti, così da toccare ancora una volta con mano un pezzetto di quella
stagione culturale, sperando possa darci nuovi frutti.
(Di Claudia Ciardi)
«Uno scrigno di saperi classificati, uno spazio misconosciuto del migliore
positivismo sperimentale piemontese ed europeo di matrice illuminista che apre
all’infinita ricchezza delle cose, ad una natura «completata», riscoperta,
attraverso l’arte con la bellezza. Chi ha provato stanchezza per il positivismo
classificatorio non può qui non sentire l’entusiasmo, la libertà mentale, la
gioia dell’autodidatta, così mi immagino il Garnier-Valletti, dello
sperimentatore, costruttore attivo, artista artigiano e scienziato, virtuoso di un mestiere tra scultura e chimica dei colori. È un realismo, un
naturalismo esploratore, che si spinge così dentro alle cose, quasi presagisse,
nell’amore della conoscenza profonda, il timore dell’estinzione (dell’evanescenza
di specie meravigliose tanto esotiche oggi quanto in passato vicine e
quotidiane).
A questo Kosmos botanico artificiale, ordinato in una sorprendente nomenclatura pomologica sintetica, ed evocativa tra linguistica europea, botanica e agronomia, si sovrappongono altri ordini possibili, quelli della chimica, della letteratura, dei laboratori sperimentali. Da questi spazi ottocenteschi e contemporanei lo Zola dei Taccuini, o il Perec de Le cose avrebbero tratto fonte inesauribile: di quella attitudine analitica e curiosità esploratrice spero sia rimasta qualche traccia nelle settantatré immagini riprodotte nell’Atlante che segue.
Atlante che si apre simbolicamente nella splendida biblioteca (dove uno studioso di storia della chimica troverebbe il suo Eden), tra riviste e manuali rilegati di rosso scarlatto e verde marcio per la «Chemie Zentalbratt Zeit», color tabacco e incisioni in oro e fasce verde foresta per la «Fresenius Zeitschrift fur analytische Chemie»; su di un panno blu notte fa da corona il design del vetro per le manipolazioni chimiche rimasto pressoché immutato: densimetri e areometri pesa acidi, barometri ed alcolometri, pipette, beker, pompe a caduta, sostegni Bunsen, bicchieri tarali e matracci. Al centro si offrono alcune opere del Garnier-Valletti: la gigantesca Calebasse Carafon 735, pera gialla picchiettata di ruggine; le mele Tower of Glammis 168 rosso scarlatto e Admirable Raeskim 127; la pera Bergamotte d’été panachée 327, di un insolito giallo-arancio con striature verde chiaro brillante; e poi. la pesca Chereuse hative; le susine della Chiesa di un colore «imperiai purple», Jefferson verde giallo, primaticcia Principessa dal color di viola e. la piccola Regina Claudia giallo oro; e ancora le ciliegie Principessa 980 e Gran Gobet 971, con cartellini scritti a mano e annodali con un sottile filo rosso.
Tra scaffali, teche, numeri e nomi è un vegetare di pomi sferici e subsferici, costoluti, allungati, ombelicati, con teste piramidali allargate, con divisioni, calicine, con bucce lucenti, quasi verniciate, opache, lisce, ruvide, di mele giallo pallido, giallo aranciato, rosso sangue, rosso vino, rosso mattone, carminio violaceo, bianche e rosseggiaci, verde erbaceo, rosate, larvale di ruggine verso la parte esposta al sole, punteggiate, striate e sfumate di carminio, rosso porpora. La cura per i suoni e per le grafie ordina anche l’immagine: pere classificate secondo una tassonomia antropomorfica e sociale, che non si allontana dai quadri famigliari, che armonizza la botanica con la nostra voce, il nostro orecchio: ecco la Duchesse d’Angouléme Bronzee, Madame Favre, Petite Marguerite, Fideline, Lucie Delfosse, Fondante de Moulins (Lille), Chartreuse, Bonne de Zees e la Docteur Andry tutta lentiggini; e poi di mele dai nomi colorati, Rouge rayée o Rouge de Pryor, Blanche de Bournay o Caiuga Red Streak, Rouge de Bordeaux, Riga larga gialla, Boston Russet, Borovitscky e Bough, o dai suoni della zoologia, come la splendida Bec d’oie e poi ancora ciliegie duracine e tenerine, uva Foster’s White Seedling nera, fichi viola e gialli. E gli ortaggi: cipolle rosso scuro, gialle, rosa e rosso sangue, pomodori Lucullo e Hubert, barbabietole giganti da foraggio, bianche e rosse.
I passaggi sono segnati
dagli ambienti: ora domina un mappamondo verde e giallo dal treppiede di legno
su una teca, tra splendide librerie, stampe giapponesi, lampadari déco e copie
della «Gazzetta chimica italiana», dove la luce filtra gialla da una vetrata
Liberty, ora sono antiche bilance su grandi tavoli di legno dipinto di bianco
e pompe a vuoto torricelliano e a caduta di acqua e di mercurio con le boccette
colorate delle sostanze chimiche avvolte in una luce olandese ora gustaviana;
ancora un’antica teca con cassette di frutta e mirabili cristalli lavorati,
dalle etichette color giallo, contenenti disfacimenti dei frutti su di un
velluto sottobosco, intermezzi che arrischiano anche nuovi ordini delle scienze
naturali in nature morte fresche e variopinte, modeste copie di un Pensionante
dei Saraceni, di un Francisco de Zurbarán o di un Utrillo, un segno forse fragile
nella ripetizione del grande tema della pittura, ma tangibile,
dell’inesauribililà del racconto».
(Di Daniele Regis – Tratto da Il Museo della frutta, Umberto Allemandi &
C., 1996)
* Fotografie concesse per questo articolo da Daniele Regis ©
Museo della Frutta Natura – Natura morta – Opere di Garnier Valletti
Museo della Frutta, Composizione, Opere di Garnier Valletti
Museo della Frutta, Collezione Valletti - Mele
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Museo della Frutta - Iris Polito