Il
significato primario di storia è narrazione. Dunque, nella parola è il rimando
all’atto di raccontare, di esporre degli avvenimenti, conservandoli in uno
spazio di maggiore o minore vicinanza alla realtà.
Ecateo
di Mileto, Erodoto di Alicarnasso, Tucidide di Atene sono i fondatori della
storiografia, non a caso in quella irripetibile culla delle arti che è stata la
cultura greca antica. A partire dai primi narratori, singolari personalità di viandanti
e collezionisti di testimonianze, scrittori, geografi e antropologi per i quali
la conoscenza dei fenomeni e il loro depositarsi nell’edificio della memoria passava
da una ricognizione attraverso luoghi e caratteri, il dibattito sul punto di vista da adottare, sulla maggiore o minore obiettività di colui che si dà il compito di raccogliere e catalogare non ha mai conosciuto posa. Un filo tenace unisce i tre
grandi nomi alle origini del racconto storiografico, perché in ognuno si ritrovano
questi aspetti, in ognuno ridefiniti secondo rapporti di forza diversi eppure
compresenti. E da ciascuno di questi sguardi gettati sull’affollarsi degli eventi si ricava un’immagine della
vita che lo storico cerca di ordinare, di condurre
nell’alveo di una comprensione razionale cosicché la metafisica del tempo
ricada sul nostro presente nei tratti di un’idea appena più organica.
C’è
dunque qualcosa di vero nell’affermazione “historia magistra vitae”, che in taluni suscita insofferenza, se come non manca di ricordarci Leonardo
Sciascia «anche il luogo comune è, per quanto ripugnante all’intelligenza, una
forma della verità cui all’altro
estremo, specularmente, corrisponde il paradosso: forma della verità cui
l’intelligenza arride». L’appassionante rilettura della guerra del Peloponneso
firmata dallo storico Jules Isaac nel suo celebre saggio-romanzo Gli
oligarchi dove sulla narrazione antica si allungano le ombre della seconda
guerra mondiale, si muove magnificamente fra le increspature di una simile
dicotomia.
E
c’è da chiedersi cosa cercasse Shelley nell’idillio del Valdarno, ai piedi di
una cascata dove amava bagnarsi nudo, prediligendo proprio la lettura di
Erodoto, quasi che quelle pagine meglio gli facessero compenetrare la
beatitudine del luogo. Così ce lo descrive Hofmannsthal nei suoi appunti, un
fermo immagine in cui la sacralità dell’antico saluta l’apparizione della
poesia, il prodigio di un romanticismo pagano iscritto nella saggezza del passato
e nell’eterna presenza della natura. Che per il grande poeta la scelta del
libro in cui specchiarsi nei giorni del suo avventuroso pellegrinaggio
interiore cada proprio sulle Storie di Erodoto, non è un dettaglio da
sorvolare. Questo indizio è semmai la via per scendere
in un’anima, per fluire nei battiti di una vita che in quei giorni
celebrava in sé armonia e bellezza.
Come
ci spiega Alessia Rovina nel suo intervento, rileggere i maestri antichi e
Tucidide in particolare significa porsi in ascolto di una tradizione altissima,
fondatrice del nostro stesso modo di vedere il mondo e di coglierne gli
sviluppi, ma è anche aprirsi alla possibilità d’immaginarlo, di vincere insidie
e sfide, tanto più in questa fase così complessa, per molti aspetti
contraddittoria, che pure schiude già i cammini ai quali altre narrazioni saranno
destinate.
(Di
Claudia Ciardi)
Erma MANN - Erodoto/Tucidide
Museo Archeologico di Napoli
*copertina proposta da Alessia Rovina
Tucidide, compagno eloquente
Di
Alessia Rovina
Per la rubrica «L’Argonauta»
Quando
frequentavo il liceo scoprii una pellicola per me divenuta poi classica,
talvolta argomento unico di conversazione per rispondere alle insistenze di chi
si ostinava ad etichettare come “non convenzionali” i miei studi. Era Il
paziente inglese, trasposizione filmica del 1996 dell’omonimo romanzo di
Michael Ondaatje, vincitore di 9 premi Oscar e numerosi altri riconoscimenti,
dovuti non solo alle interpretazioni di grandissimi attori come Ralph Fiennes e
Juliette Binoche, ma anche al procedere poetico di fotogrammi e sentimenti, in
un presente doloroso che continua a declinarsi al passato. La mia commozione
era rivolta al protagonista, il conte László Almásy. Attraversare un deserto,
ascoltare e far proprie leggende e tradizioni di luoghi senza geografia,
ammalarsi dell’incapacità di amare, accettare, sempre e comunque, di lasciarsi
penetrare e purificare dall’unico vero e tenace compagno sempre fedelmente
riposto nella bisaccia: Erodoto. Sono proprio le Ἱστορίαι narrate dal pater
historiae di Alicarnasso a curare
l’animo dell’aviatore, sia quando è pervaso dall’ossessione per una passione
struggente sia quando si avvicina al morire. Erodoto, compagno inseparabile.
Ecco,
sin dall’antichità il nome di Erodoto era immancabilmente associato a quello di
un altro illustre storico, Tucidide, come ben dimostra la doppia erma del II
secolo d. C. conservata al MANN. Rivalità, compenetrazione, differenza di
stili, favole che si scontrano con calcoli più razionali, di tutte queste
elucubrazioni moderne una sola cosa resta: entrambe queste menti ci insegnano a
guardare con occhi differenti l’agire umano nel corso storico. La mia
personalissima scelta di trattare in questa sede di Tucidide scaturisce sia dalla
passione che mi lega alla vicenda della Guerra del Peloponneso – momento che, come ogni battaglia, crea
immancabili cesure, ma che in questa situazione produsse una crepa estremamente
significativa nel mondo antico – sia dalla necessità, in questo attimo tanto
confuso e tanto… Turbolento, di avere una modalità di lettura del presente, una
sorta di bussola, in un Viaggio che percorriamo e in cui troppo semplice è
smarrirsi. È noto che uno dei grandi meriti intellettuali dell’autore della
nostra più completa fonte della Guerra del Peloponneso sino al 411 a. C.
risieda nella penetrazione dell’ἀληθεστάτη πρόφασις , la “ragione più vera” che
portò al conflitto, presentato come sostanzialmente inevitabile non solo per il
timore spartano, ma anche per la via di sproporzionalità – vocabolo desueto ma
che rende bene l’idea – imboccata da Atene. La patria del nostro, pur talvolta
ammantata di quella regale munificenza a cui le fonti ci hanno adusati, non è
immune dalla lettura profonda che lo storico opera, sviscerando lungo la
trattazione l’epopea e l’autodistruzione del vero e proprio Impero. Da potenza
leader nella sconfitta del nemico Persiano, da fulgida culla della più alta
cultura e del più fine pensiero che saranno capaci di scardinare, ammaliare e
conquistare quasi tutte le genti d’Oriente e d’Occidente, a πόλις tiranna,
pronta al massacro ed alla punizione dinnanzi a rifiuti pur minimi, dinnanzi ad
ogni segno di indipendenza. Infine, scellerata ed affamata potenza in preda
alla furente estasi della conquista, vittima in ultima istanza della stessa
ostinata ricerca di gloria che l’aveva portata al vertice. Uno è sempre stato
il grande interrogativo: per quale ragione Atene perse il conflitto? L’analisi
à rebours di Tucidide identifica come errore massimo sostanzialmente un evento:
la spedizione in Sicilia del 415 a. C., la cui capitale importanza viene resa
anche in un utilizzo verbale tutto peculiare all’interno della narrazione
storiografica. È difatti proprio in relazione a questa decisione che Tucidide spende
una parola per lui rarissima, ἔρως, stante ad indicare una scelleratezza, una
follia irrazionale che guida il consesso Ateniese nel compimento di questa
impresa, tutto generato dalla fame insensata di conquiste e potere e dalla
cieca convinzione che ogni impresa compiuta sarebbe stata destinata al
successo.
Nel
caotico vorticare di opinioni, nell’affanno della ripresa, nello sguardo che
aggira gli ostacoli per proiettarsi già al di là verso obiettivi sempre più
elevati ed inarrivabili, una sempre eterna scossa ci può venire dalla grande
storiografia antica, anche in virtù dei cruciali avvenimenti in corso, certa
crepa e cesura nel corso internazionale e personale, e sicuramente può venire
da Tucidide, con quella veritiera concezione della natura umana sempre uguale a
se stessa, il cui unico giovamento può essere la costante e lucida disamina del
presente, e del passato.
(Di Alessia Rovina, classicista e studiosa di teatro)