Charlie
Chaplin aveva capito tutto. Nel 1936 il suo film Tempi moderni,
capolavoro legato all’ultima apparizione del personaggio di Charlot,
sbeffeggiava i ritmi della catena di montaggio, l’alienazione prodotta dalla fabbrica,
il disagio sociale e psicologico in cui versavano i più sfruttati fra gli operai. Analisi della massa nel suo spaccato più problematico di diseredati
e working poors in lotta per la sopravvivenza. Già
in un’intervista del 1931 l’attore dichiarava: «I macchinari che consentono di
risparmiare manodopera ed altre invenzioni moderne non sono stati fatti per
ricavare profitto ma per assistere l’umanità nella ricerca della felicità. La
speranza per il futuro dipende da cambiamenti radicali per far fronte a questa
situazione. I benestanti non vogliono che la situazione presente cambi».
E
dunque, nella nostra società ipertecnologica che finalmente potrebbe (e
bisognerà lo faccia) guardare a forme di affrancamento da tipologie di lavoro
ripetitive, usuranti, deprimenti, siamo piuttosto inclini a un uso coercitivo di
tali conquiste, potenziando sistemi di controllo del lavoratore, obbligato,
minacciato, tenuto in bilico tra nuovo caporalato, tracciamenti, tutele riviste
al ribasso.
Agosto
si chiude con l’immagine dei dipendenti Ikea sprovvisti di green pass fatti
accomodare fuori dai locali mensa, seduti per terra a consumare il pranzo. Ciò
che ho scritto una ventina di giorni fa, sul rischio di esiti discriminatori, sul
fatto che questo strumento nato per dare regole di viaggio sicure e uniformi in
UE si frammentasse in una miriade di utilizzi pretestuosi, generando
sovrapposizioni, confusione e situazioni paradossali, eccolo sotto i nostri occhi – e alla fin fine proprio quello
per cui era stato concepito ha incontrato semmai una blanda applicazione, tra chi è rientrato da
paesi a rischio senza essere testato e automobilisti che sono riusciti a bucare
i confini senza particolari problemi (come nel caso della frontiera
Italia-Svizzera). Nel
frattempo si ragiona sull’estensione del pass, cercando di arrivare almeno a
fine anno. Evidenze scientifiche o necessità strategica? Come ricominciare a vaccinare il
personale sanitario che ha il pass in scadenza a ottobre, presumibilmente alle
soglie di un’altra stagione in emergenza? Numeri che cambiano ancora. Le cosiddette
prove scientifiche solo a seguire. Forse.
La
pervasività dei numeri ci accompagna ormai da due anni. Quasi che elencare
delle cifre fosse sufficiente a conferire maggiore autorevolezza a quel che si
dichiara. Sì, certo, i numeri sono importanti ma occorre analizzarli, definirli
con precisione nel contesto cui si riferiscono, raffrontarli, cose che invece
si continuano a fare piuttosto di rado. Ognuno porta le sue cifre e ne astrae
le proprie evidenze, quando anche il più limitato ed elementare esercizio
statistico richiederebbe invece tempi lunghi e campioni molto più compositi. Ma
questi due anni, se da una parte son venuti a imporre battute d’arresto,
cesure, divieti, sembrano aver esasperato non di poco la fretta del giudizio,
che si concede appena un paio di mesi o solo una, due settimane per rivedere
parametri, tendenze, discutere benefici, decidere interventi che produrranno
conseguenze e che per questo andrebbero stabiliti con criteri inclusivi e possibilmente
coerenti.
Se
la società è un corpo armonico, che come tale occorre si sviluppi e consolidi
in tutte le sue parti – così è già nella buona teoria politica degli antichi –
produrre frammentazione non si direbbe per nulla un buon affare.
L’esercizio
ragionieristico pare aver sostituito progetti di ampio respiro che prevedano un ruolo
consolidato e di responsabile investimento da parte delle banche. A parte la
cessione del quinto, l’indebitamento costante di stipendiati e pensionati, il
ricorso al prestito indotto dal sistema in cui viviamo – e non pagare
adeguatamente le persone ben rientra in questo disegno – cos’è intervenuto di diverso dal 2019 ad
oggi? È cambiata forse impostazione?
Eppure ci sono tanti economisti, studiosi di nuove teorie del mercato e ricercatori
impegnati in diversi ambiti disciplinari, in quei settori dove si stanno
producendo i veri cambiamenti – scientifici, tecnologici, umanistici – che
spingono per una riconsiderazione drastica di una gestione che ormai appare
avvitata su se stessa. Chi parla di redditi universali, della presa d’atto
necessaria che ci sono masse escluse dai meccanismi produttivi destinate a
crescere, della crisi dei meccanismi di domanda e offerta finora alla base del
nostro sistema – pur già con tutte le contraddizioni e divari del caso, anche
in tempi all’apparenza non sospetti – non è un pazzo. Lo si può paragonare a un
Necker che ammoniva Luigi XVI sulle necessità di non procrastinare un
intervento finanziario per redistribuire risorse nel paese, mediando con gli Stati Generali. Si
sarebbe evitato il dissesto. In Germania la SPD sta parlando senza tabù di
patrimoniale – da sempre bollata come strumento della sinistra, precisamente
vetero comunista, per rimediare a malversazioni di vario tipo. Comunque la si
pensi, favorevoli o contrari, nella situazione in cui siamo io credo che non
sia rimandabile l’atto di redistribuire delle risorse. Qualora non sia la
patrimoniale, occorre pensare a uno strumento valido, condiviso, rapido che
ponga rimedio. Se proseguiamo con i falsi moralismi all’indirizzo dei fannulloni, vetero
comunisti, anarchici, disadattati che non sanno trovarsi un lavoro… possiamo anche
accomodarci, tanto sempre tutto andrà in quell’altra direzione. Oltre i Necker
del momento. E in Francia peraltro andò in un certo modo.
Tra
coloro che premono e raccomandano azioni decise si contano ormai soggetti che
per appartenenze, percorsi formativi, convinzioni politiche rappresentano una
nutrita ed eclettica trasversalità. Difficile quindi incasellare simili teorie
in scia a un certa scuola di sinistra o di destra, qualora anche si abbiano
pregiudizi in tal senso. L’unica scuola possibile in un quadro così
preoccupante è quella che chiama alla responsabilità sociale.
Detto ciò, a leggere e ascoltare i cavilli su cui si disquisisce da quando ci
siamo rinchiusi nel perimetro dell’emergenza pandemica totale, viene il capogiro.
Ma torniamo al cozzare delle cifre. I numeri a tamburo battente di contagiati,
tamponi, rt, indici, contro indici, istituti che predicono una cosa, centri di
ricerca che ne ipotizzano un’altra. Scenario in continua evoluzione, si sente
dire, giustificando così l’accatastarsi quotidiano delle percentuali, paesi
dove molto si è vaccinato in cui il contagio si ripresenta massivo, protocolli
che vengono costantemente ritoccati, decreti che s’incalzano fra loro,
categorie divise sul da farsi. Mancano tuttavia letture di più largo respiro,
un modo più rassicurante e direi corretto di aggregare i dati, di metterli in
condizione di essere davvero comprensibili, dando diverse risposte in più alle troppe
domande che vengono lasciate in sospeso.
Nei
giorni scorsi, entrato in vigore il pass nei musei, si sono inseguiti subito diversi
articoli, alcuni trionfalisti altri invece che lasciavano largo a disdette nei
parchi archeologici, perdite, cali. Per leggere il disappunto della direttrice
del museo Archimede di Siracusa ho dovuto cercare con il lanternino. Insomma, è
evidente che si teneva a snocciolare a caldo un po’ di cifre raccolte in biglietteria per confezionare velocemente qualche pezzo. A
ferragosto nei musei civici di Firenze ci sono stati 1759 biglietti in più – e la
stampa parlava di un boom da green pass. Al Colosseo invece si riportava un
lieve calo nell’ordine di 3000 ingressi mancati. Allora, prendendo i numeri così, se è un
boom avere 2000 biglietti in più per un polo museale articolato in diverse offerte, dovrebbe essere un sonoro flop perderne 3000 per un solo monumento.
La mia è una provocazione per dire che senza analisi più rigorose delle diverse realtà museali – ognuna rappresentando un microcosmo a parte, con le sue caratteristiche distintive –
senza concedersi un po’ di tempo per osservare le tendenze, comparandole infine
con le perdite dell’anno scorso, non si può parlare né di recuperi né tantomeno
di exploit.
Appendice
sulla situazione torinese che vivo e conosco da tempo. Anche qui articoli su un
30% in più di ingressi nei musei. Tutto questo focus affrettato e trionfale su
Torino, cioè su una metropoli che da anni, anche ante covid, è scissa da polarizzazioni
in cerca di nuove rappresentanze politiche, era assolutamente atteso. La città
dove si sono viste le prime piazze di protesta sociale proprio in queste ultime
settimane, con migliaia di adesioni, la città che cerca risposte a un divario
tra periferia e centro, in cui da tempo si creano laboratori, progetti
orientati al riutilizzo di spazi e beni comuni, dove il corpo civico diviso su
tante questioni – la Tav, altro elemento di scontro in cui pure non sono
mancate le occasioni per denigrare pubblicamente i contestatori – sta forse
provando a tracciare vie diverse, alternative a un certo ordine economico che produce ricchezza solo per pochi e lascia per strada tutti gli
altri. Ecco, qui si sono creati più che altrove elementi di frizione; perciò
certe letture non sorprendono. Lo stesso tono petulante in cui questi articoli
massimamente rosei e positivi si sono susseguiti nel giro di pochi giorni, solleva qualche dubbio. A fare da pendant i titoli altrettanto serrati sulle
piazze sempre più vuote: ma sabato 14, week-end di ferragosto, erano scese in
strada più di mille persone. Cosa assolutamente inedita per la compassata
Torino. E si torna alle analisi, alla necessità di leggere con minore vizio
pregiudiziale i contesti, qualora si voglia informare, cioè offrire un racconto
che dica veramente qualcosa.
La
polarità boom/calo nei musei è comparabile coi dati del turismo, trattandosi
del resto di settori che si trainano fra loro. Anche qui una bella ridda,
che si riassume nel siparietto che ha visto Federalberghi di Cremona smentire i
dati diffusi dall’ufficio turismo del comune, scoprendo evidentemente un’ulteriore
situazione di conflitto tra attori legati da interessi diversi. Se da una parte
il comune cerca di limitare i danni diffondendo attraverso i suoi organi un’immagine
di ottimistica ripresa, la portavoce degli albergatori ed esercenti nel settore
ha descritto uno scenario desolante, in cui stentano perfino i pernottamenti
per motivi di lavoro, dunque raccontando un tessuto urbano fermo, che non
produce scambi né legati agli affari né allo svago: «Cremona ha una nuova
attrazione turistica: l’infopoint del Comune. Ne prendiamo atto. Lo deduciamo
dai toni trionfalistici del report sulla attività dell’ufficio di Piazza del
Comune che annuncia numeri record per gli accessi.
Ci
sono quasi più turisti lì che negli alberghi. I numeri testimoniano –
nonostante le cifre siano dell’ordine delle centinaia, dunque un campione poco
significativo – di un successo non solo in luglio, ma anche in questa prima
settimana di agosto (in sette giorni sono stati registrati tanti utenti quanti
ce ne erano stati nell’intero mese di luglio del 2020, ben quattrocento
persone). Sarebbe più interessante e oggettivo avere dati sulle occupazioni
alberghiere o sui biglietti venduti nei musei, solo per cercare qualche
indicatore più attendibile o comunque complementare a questo dato.
Non
è la prima volta che l’infopoint parla di turismo in forte crescita. Anzi,
questi spot rassicuranti, sui media locali, sono ormai una regola a cui ci
siamo abituati. Più plausibile l’analisi che ne fanno web e carta stampata: è
un turismo di passaggio, un mordi e fuggi di qualche ora che porta poco o nulla
alla città. In realtà la città è deserta e molti alberghi tra Cremona e il
circondario sono chiusi (anche quelli che non lo avevano mai fatto in passato)
perché, senza prenotazioni, si hanno solo i costi di gestione». (Alessandra Cattaruzzi,
presidente Federalberghi Cremona, 11 agosto 2021).
Infine,
guardando fuori dall’Italia e diciamo, dall’Europa, dato che la Brexit sembra
ormai acquisita. Quest’estate abbiamo visto immagini di supermercati del Regno
Unito con scaffali vuoti, dei quali si sono riportate le difficoltà di
approvvigionamento. Ci sono persone che abitano in certi quartieri londinesi
che parlano di negozi dove scarseggia la merce, mentre in altri la
distribuzione risulta regolare. Nelle grandi catene di fast food – McDonald’s,
Nando’s, Kfc – mancano diversi prodotti dal menù, come il pollo e i frullati. Anche in questo caso emerge tutta la fragilità sistemica cui si
accennava all’inizio, laddove queste aziende prosperavano su margini di
guadagno dovuti in larga parte alle basse remunerazioni dei camionisti est
europei (che con Brexit hanno battuto in ritirata). Poi ci sono certamente i
problemi logistici dati dall’infinito covid. E qualcos’altro che lascia ancor meno
tranquilli, perché sembra vacillare l’intero edificio della libera circolazione
delle merci, della domanda e dell’offerta – come si diceva all’inizio – insomma
di quei fondamenti che abbiamo dato per acquisiti finora. In attesa che qualcosa
di diverso prenda posto nei vuoti che si aprono, non si annunciano tempi facili. E il problema non è il panino ipercalorico che non trovi più al
fast food, ma tutto ciò che serve davvero al vivere quotidiano.
In ultimo. Segnalo i 60 miliardi persi in borsa nella prima metà di agosto dai produttori di vaccini. Non un’inezia. Fa scalpore che in piena pubblicistica “vaccino a tutti i costi”, un signore che non è proprio il primo venuto nell’ambiente delle analisi di mercato e dei rischi, Geoffrey Meachan, analista per Bofa-Merryll Lynch, si sia reso protagonista di un downgrade ai danni di Moderna e Biontech, definendo ridicole le quotazioni raggiunte dalle due società. Tentativo di ridimensionare una bolla finanziaria made in Big Pharma? Anche qui, speriamo se ne possa capire qualcosa in più, magari attraverso ulteriori report.
Concludendo,
se si danno solo i numeri, la realtà non ci parla né con maggiore né con minore
forza. Ci trasmette solo quel che vogliamo vedere. Cifre impugnate dagli uni
per trionfare, dagli altri per controbattere. Poi abbassandosi il polverone
rimane tutta l’incertezza che stiamo vivendo. Ci si aspetta
piuttosto che queste cifre vengano restituite a un contesto dialogante con
diverse altre istanze, raccontandole dandosi un po’ più di tempo e non sull’onda
emotiva del momento. Magari provando con un po’ di obiettività a capirne
qualcosa in più. Che poi dare i numeri, dipende come, vuol dire non starci
neanche tanto con la testa.
(Di
Claudia Ciardi)