Cappella Sansevero - Napoli
Quando alla conferenza stampa di fine luglio ho sentito la parola musei nell’elenco dei
luoghi “interdetti”, a meno di avere in tasca il pass, ho pensato di aver
capito male. Quindi sono andata a rileggermi il provvedimento e in effetti l’interdizione
era confermata. Ma ho continuato a pensare di non aver capito. Io non ho capito.
Già veniamo da quasi due anni di serrate, con una caduta verticale degli
introiti solo nel comparto mostre che si attesta fra un 70-80%. E, per quanto abbia
provato a interrogarmi, non trovo ad oggi una spiegazione razionale su quelle
chiusure totali vergognosamente protratte fino allo scorso aprile. Piuttosto le
brevi riaperture estive del 2020 sembravano un buon viatico: distanziamento e
dispositivi di protezione individuali avevano ben funzionato con un timido
ritorno di pubblico, un po’ di ricadute positive nelle città d’arte, sprazzi di normalità.
Non
voglio far polemica, perché già solo l’idea che le frequenti, rovinose contrapposizioni
che da anni viviamo, di natura politica, sociale, economica, culturale per l’appunto,
siano ora entrate a volto scoperto anche nei luoghi della condivisione, della
bellezza, della libertà spirituale per eccellenza mi crea disagio. Le deleterie
conseguenze di questa decisione si avvertono fin nei toni infuriati degli ammessi
e degli esclusi, e questa rabbia è una sconfitta e ci fa male, ci fa male, ci
fa male. Se avvicinarsi al patrimonio artistico è un atto d’amore, un modo per lasciar respirare l’anima, per rinnovare quel legame sacrosanto con le tracce, le
testimonianze del passato, come possiamo adesso conservare questa condizione di
serenità, di felice vicinanza, di innalzamento quando incontriamo l’arte,
sapendo che tali divisioni ci avvelenano, ci abbattono e infine ci distolgono?
Sugli effetti concreti di norme così restrittive nella cultura rimando al
circostanziato articolo di Isabella Ruggiero scritto per «Finestre sull’arte».
Sui pericoli cui va incontro lo stato di diritto, cito invece la conclusione dell’articolo
a firma di Francesco Simeone su «Exibart»: «Chi può decidere
quali individui possono fruire di un servizio, non le modalità ma la stessa
ammissibilità? Nel caso specifico, di un servizio considerato unanimemente
fondamentale per lo sviluppo dell’identità delle persone e dei popoli. A questo
punto, anche il settore della cultura, ispirato ai principi universali della
condivisione e dell’orizzontalità dei propri beni, si rende, in un senso o
nell’altro, luogo di una “gerarchia”, tra gli ammessi e non ammessi.
Solitamente considerato pacificatore – tranne che per certi aspetti comunque
specifici nell’ambito della museografia e relativamente recenti, come nel caso
del colonialismo o dell’egemonia di genere di certe collezioni – anche il museo
diventa lo spazio di una contesa tra schieramenti opposti. Il
museo è solo una delle espressioni territoriali dello Stato che, attraverso la
sua burocrazia, si faceva garante della possibilità di accesso ai beni in egual
misura per tutti. Assisteremo alla trasformazione in uno Stato “erogatore”,
cioè in un ente che distribuisce o interdice l’accesso a quegli stessi beni?
Ricondurre la questione a una necessità sanitaria e contingente non renderebbe
giustizia alla portata enorme del momento che stiamo vivendo, che lascerà
tracce profondissime tanto negli ordinamenti giuridici che nella percezione
degli individui e nei comportamenti e nelle abitudini collettive, nelle
categorie di giudizio delle persone verso le altre persone e della società di
oggi e di domani».
Per
quanto riguarda l’emergenza sanitaria, che rischia di diventare il paravento di
ogni forzatura – e questo non è certo avere a cuore la salute pubblica – mi
limito a dire che qualche dubbio viene; sono considerazioni che in parte
riprendono quanto puntualmente esposto nel citato articolo di Isabella e che
hanno portato il direttore Fabrizio Masucci del museo Sansevero di Napoli a
dimettersi.
Due
cose su cui varrebbe la pena che la comunità scientifica fosse più chiara e in
base alle quali, di conseguenza, bisognerebbe modulare il peso di certe
decisioni. La prima riguarda la contagiosità anche fra chi è vaccinato – dunque
non è esclusa la circolazione del virus tra persone vaccinate che si ritrovino
all’interno di un luogo (e allora come possiamo dire che quest’arma sia l’unica
disponibile se non ci garantisce dal fermare il contagio?). Lo ha detto con
autorevolezza Antony Fauci pochi giorni fa. Ci è stato annunciato esplicitamente che
non possono esistere spazi covid-free.
Secondo
punto, tutt’altro che subordinato. Il report ISS n. 3 del 27 luglio 2021
ammette che vi sono ancora pochi studi che hanno valutato l’efficacia dei
vaccini, ossia la capacità effettiva, capillare di far argine contro il
presentarsi delle varianti: «proprio perché basato su vaccinazioni effettuate
fino a metà giugno (e fino a metà maggio per valutare l’impatto su ricoveri,
ricoveri in terapia intensiva e decessi) il rapporto non permette neanche di
fare valutazioni di impatto sull’attuale diffusione della variante delta,
caratterizzata da una maggiore trasmissibilità, e per la quale ancora ci sono
pochi studi che hanno valutato l’efficacia dei vaccini». Naturalmente non è il
mio ambito ma se si cerca di misurare le parole, di mettere le dichiarazioni sotto
una giusta luce, esce molta incertezza la quale anziché trovare una sponda
dialettica, un’integrazione di punti di vista, si manifesta invece in un
assoluto rigore decisionale, non mitigato né disposto a includere punti di
vista differenti, tutto teso ad andare in velocità, a seminare imposizioni
anche contraddittorie se non controproducenti – perché gli esiti economici bisognerà
vederli e le ottimistiche proiezioni (toni che si sono sempre ripetuti in
questi micidiali anni di stagflazione) vanno osservate alla prova dei fatti. In
economia puoi darti a tutti gli annunci che vuoi, poi a un certo punto fai i conti
con la realtà.
L’arte
dei piccoli pass, compiuti uno dietro l’altro in un’inesorabile frenesia autolesiva, seminando
permessi che poi infine alimentano altre interdizioni e conflitti sociali e tensioni,
mi lascia perplessa e preoccupata. In generale non è la mia visione politica,
men che meno economica. Qui tutto è tristemente avulso dalla poesia né la filosofia
dissente né l’arte acquista forza. Bastasse un lasciapassare per risolvere i
problemi di cui soffre il nostro patrimonio culturale o la difficoltà dei
nostri più giovani ad avere accesso a degni, solidi percorsi formativi o ancora
a dare alle nostre aspettative di donne e uomini lo slancio atteso…
L’arte è la scintilla della libertà spirituale dell’uomo, ne è la massima
espressione. Dunque è importante che resti libera e liberamente accessibile.
Dante ci ha mostrato che la via breve non esiste. Al tentativo di attraversare
la selva si finisce per rinunciare. Il viaggio sarebbe in apparenza più agevole ma anche meno avventuroso. Il viaggio invece vuole impartire i suoi
tempi, seminare i propri insegnamenti, comportando un accrescimento morale. Siccome
le belve non si possono aggirare, occorre andare altrove, scendere per
meritare l’ascesa. E in ciò superare le paure e acquisire conoscenza e, infine,
solamente così imparare a pensare e a vivere.
(Di Claudia Ciardi)
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