A partire dalla recensione uscita sull’ultimo fascicolo di «Atti e rassegna tecnica», la rivista della Società degli ingegneri e architetti di Torino, si torna a parlare del lavoro di studio condotto sui documenti inediti dell’archivio schelliniano. Questo cantiere pluriennale, sotto la direzione scientifica di Daniele Regis, che ha la sua base nella multidisciplinarità e nell’incontro fra saperi politecnici – seguendo la lezione di Roberto Gabetti, vale a dire la consuetudine a frequentare e praticare arti e idee limitrofe o meno, purché poste in un rapporto di mutuo scambio o stimolate a esser tali – questo poliedrico centro che dal 2018 ha attratto ricercatori, artisti, menti aperte non ha affatto esaurito i suoi obiettivi.
Prova ne siano le diverse scritture che in questo inizio d’anno tornano a occuparsi di neogotico piemontese e dei suoi maggiori esponenti culturali, anche nel lunghissimo e altissimo filone della fotografia autoriale – si sta pubblicando un nuovo catalogo di Michele Pellegrino dove la lode al paesaggio, l’immersione panteistica nella natura rimandano per certi versi a questo stesso sentimento di malinconico congedo, di legame interrotto con una naturalezza mancata e mancante che è tra i grandi temi della riscoperta del gotico nel XIX secolo. E ne stiamo continuando a divulgare i contenuti in alcuni articoli di prossima uscita.
Intanto colgo l’occasione del ritorno al volume collettaneo edito da Sagep nel 2021, per riproporre il testo integrale della mia lezione pubblica tenuta lo scorso dicembre sui nuclei principali della mia ricerca. Un affascinante crocevia dove gli autori della letteratura antica dialogano con l’arte e l’architettura dell’Ottocento.
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Scrivere l’architettura. Schellino e la lezione degli antichi
Per
rispondere alla domanda di Andrea Longhi, direttore della rivista «Atti e
rassegna tecnica», che ringrazio per il tempo dedicato alla lettura del mio
contributo, vorrei prima ripercorrere brevemente le tappe di questo mio studio.
Quando
ho iniziato a occuparmi delle miscellanee schelliniane non potevo pensare che
mi sarei trovata immersa in così tanti puntuali riferimenti alla letteratura
antica. Ricordo lo stupore del momento in cui ho avuto sotto gli occhi l’elenco
di autori greci e latini specialisti in trattati sull’arte dell’agricoltura.
Vero e proprio catálogos (κατάλογος), nel senso etimologico greco, una lista
paradigmatica di personaggi e fatti notevoli considerati rappresentativi per un
tema d’interesse.
Al
di là dell’aspetto contenutistico che evidentemente per Giovanni Battista
Schellino era rilevante, data la sua formazione e i modi del suo stesso operare
in un territorio che idealmente considerava una sorta di ager publicus nel
senso dei latini e che come tale andava curato attraverso il proprio lavoro,
c’è un risvolto morale non minoritario che anzi si intreccia profondamente alla
visione progettuale dell’architetto doglianese.
Prendersi
cura del territorio, ognuno col proprio sapere e mestiere, significa essere
coscienti di un ruolo attivo nella società, della necessità di essere parte
organica di un tutto, di offrire un contributo che valga per il qui e ora ma
sia anche di pubblica utilità per il futuro. Tanto più che Schellino fu a lungo
consigliere comunale a Dogliani, dunque vero e proprio civis impegnato a tempo
pieno a servire e preservare la comunità come costruttore di edifici materiali
e spirituali.
Man
mano che mi addentravo nello studio delle miscellanee, raccolte che per
struttura, caratteri e temi privilegiati ho posto in contiguità e perciò
proposto di analizzare insieme, mi divenne evidente che la messe di citazioni
letterarie, in larga parte orientate ai volgarizzamenti dei classici, non era
un semplice e meccanico esercizio di copia lasciato al tempo libero. Poteva
certo prendere le mosse dai momenti di pausa, di intimo raccoglimento di questo
ingegnoso progettista, ma non era qualcosa di astratto, di avulso dalla realtà
vissuta. Appariva invece chiaro che quelle frasi che una dopo l’altra
riempivano con disciplina e continuità tanti fogli manoscritti, non erano tra
loro svincolate ma si richiamavano all’insegna di valori, immaginazioni, ideali
fortemente sentiti dal loro copista.
Quindi,
venendo alla domanda formulata dal dottor Longhi, se i materiali poetici e narrativi
raccolti e rielaborati da Schellino siano da interpretare o come chiavi di
lettura funzionali al lavoro di costruttore oppure siano esclusivi attestati di
una cultura letteraria estesa, se vogliamo un riverbero di quello sfaccettato
eclettismo sapienziale di cui il nostro architetto è completamente imbevuto,
rispondo che le due cose non si escludono fra loro. Longhi si riferisce in
particolare a un passaggio del mio articolo che desidero qui riportare: «Le
parole, per Schellino, sono forme di architettura in potenza, strumenti
attraverso cui edificare, mattoni dell’immaginazione, segnacoli in grado di
enunciare e rivelare la trama delle sue suggestioni».
Nel
momento in cui qualcosa di ciò che legge colpisce la sua mente, la mano corre
subito ad annotarla. I rapporti tra scrittura e ars operandi sono certo più
evidenti laddove la citazione proviene da un manuale di tecnica o da uno dei
tanti opuscoli divulgativi su arti e mestieri che nell’Ottocento trovarono
larghissima diffusione. È il caso della frase attribuita a Celeste Clericetti,
saggista interessato al gotico e in particolare ai lasciti della presenza
longobarda in Italia, di cui ho ipotizzato una conoscenza piuttosto attenta da
parte di Schellino. Ma pure nelle fonti più propriamente letterarie,
interpretabili come elementi a cui la sensibilità schelliniana guarda con
l’atteggiamento reverenziale del lettore curioso e appassionato, si colgono
potenzialità valide all’integrazione in un progetto di architettura. Autentiche
tessere di un mosaico selezionate sulla base di un disegno interiore, coerente
per quanto poliedrico con l’opera edificata sul territorio.
E
qui si aprirebbe anche uno stimolante dibattito sul rapporto tra arte e
scrittura che personalmente mi coinvolge molto, al quale ho finora dedicato e
sto dedicando diverse delle mie ricerche. Se vogliamo attingere ancora a un
exemplum, che direi tra i più rappresentativi in tal senso, rimanderei al
lavoro di ristrutturazione del Castello Allara Nigra a Novello, la cui
committente era per l’appunto una letterata. Questo incarico svolto nell’arco
di un decennio dal 1870 al 1880 circa, accompagnato da un rapporto di amicizia
e reciproca intesa culturale, può considerarsi forse per quel che riguarda
Schellino la massima espressione plastica del dialogo fra i due mondi creativi
cui accennavo.
Dunque,
architettura come scrittura di uno spazio, come polo di un immaginario che si
nutre di altri immaginari, contaminandoli e venendone contaminata. Per
Schellino, autodidatta, versatile, ingegnoso, la disciplina umana nel lavoro,
nei rapporti col prossimo, nell’osservanza di una dirittura morale, era un
carattere imprescindibile sia per la liberazione di energie positive utili allo
sviluppo armonico della società sia per fronteggiare l’industrializzazione,
veicolo di molteplici opportunità ma anche del rischio di uno sradicamento nei
contesti d’impatto.
Vengo
dunque alla seconda parte della domanda di Longhi, in una certa misura già
risolta all’inizio di questa mia dissertazione. Le miscellanee, compilate
presumibilmente in età avanzata, risentono non poco dello sguardo rivolto a uno
squilibrio crescente nella società, e nelle campagne più che altrove. Le Langhe
con le loro tradizioni antiche, legate ai tempi lunghi dei rituali agresti,
lontane dalle principali vie di comunicazione che attraevano i grandi flussi di
genti e di cose, rischiavano di esser tagliate fuori qualora avessero mancato
l’incontro col carro del progresso ma anche, nella velocità e voracità
dell’assorbimento, di perdere i propri riferimenti culturali.
Di
nuovo il parallelo con gli scrittori del mondo antico impegnati a parlare della
vita nei campi quale fondamento della virtus del buon cittadino si fa nitido.
Come poteva Schellino non sentirsi compenetrato dalla vicinanza sentimentale a
questo sistema di valori e ai loro messaggeri? A Roma le lotte politiche fra i
triumviri aprirono un lungo periodo di incertezza, segnato da anni di guerra
civile, anni che devastarono il territorio, impoverirono la popolazione e
sancirono la fine della repubblica. Scrittori come Varrone e Virgilio intesero
nelle loro opere mettere in guardia dalla disgregazione derivante da una
cittadinanza divisa, da un potere che aveva perso di vista il bene collettivo,
che aveva completamente smarrito il quadro morale necessario alla convivenza
pacifica e proficua degli esseri umani. C’è evidentemente una condivisione
simpatetica fra Schellino e la saggezza di queste antiche voci. Guide in un
periodo storico che correva gli stessi pericoli, autori che rassicuravano e
ammonivano sui cammini da intraprendere per un rinnovamento senza strappi,
senza cadute, senza sconfessare la propria storia e identità.
Chiudo
auspicando che dagli studi fin qui compiuti intorno alla personalità di
Giovanni Battista Schellino possa crearsi un polo di ricerca e di scambi in
tempi che speriamo vicini, più sereni e più adatti alle manifestazioni
culturali libere, largamente partecipate, orientate a una collaborazione
multidisciplinare ad ampio raggio. Per i numerosi spunti che i progetti schelliniani
sono capaci di suggerire a chi vi si confronta, per l’alto valore che le sue
costruzioni esprimono avendo contribuito in modo significativo alla conoscenza
culturale del neogotico e delle Langhe, c’è da augurarsi che l’invito a
costituire un centro studi di respiro nazionale e internazionale possa
finalmente e degnamente essere raccolto.
(Di
Claudia Ciardi, dicembre 2021)
«Atti e rassegna tecnica» LXXV numero 3, dicembre 2021-giugno 2022, ospita una
recensione del volume collettaneo su Schellino pubblicato da Sagep, pp. 108-109.
Qui il mio intervento disponibile anche come audio lezione
Per una panoramica del progetto si rimanda al seguente articolo:
Nel segno di Schellino e di Dante