C’è
una riflessione molto bella che viene da Architettura dell’eclettismo, la
monografia forse più emblematica di Roberto Gabetti, un testo che ha
letteralmente aperto una via nuova di studi su questa cifra stilistica e le sue
ramificazioni territoriali, nella geografia del Piemonte, ma anche nel segno di
influssi e prestiti internazionali. Una frase citata da Daniele Regis per la
sua introduzione all’opera fotografica del grande maestro piemontese, suo autentico, assiduo padre intellettuale, che testimonia alla perfezione l’idea di architettura e
i modi in cui l’osservazione si trasforma in esperienza: «i caratteri
essenziali dell’architettura devono essere percepiti attraverso il meccanismo
della memoria: e non solo otticamente, ma con tutti i nostri strumenti
sensoriali e mnemonici».
Da qui si evince l’intensità che l’architetto
torinese conferiva allo sguardo, uno strumento per penetrare a fondo
connessioni, richiami, stratificazioni, una capacità del vedere, del saper
cogliere, scomponendo e ricomponendo l’edificio, le strutture, i materiali e i
gesti che l’hanno prima creato e poi abitato, quasi fossimo al cospetto di un
organismo vivo che prosegue la sua esistenza autonoma nel tempo del paesaggio e
del consorzio umano che si rinnova. Un metodo che proprio nella lettura delle
opere di Schellino rivela tutta la sua efficacia interpretativa, e verrebbe da
dire emotiva, perché per Gabetti soffermarsi su un’opera significa non
escluderla dal contesto, e la complessità, l’ambizione dei progetti
schelliniani vive e genera intorno a sé una fitta trama di correlazioni, sempre
aperte a viste, metamorfosi, sogni ulteriori. Perciò ho scelto di mettere in
copertina l’ingresso al cimitero monumentale di Dogliani, paese di Langa che ho
esplorato anche nella mia ricognizione d’archivio sull’estroso geometra-architetto;
incipit emblematico perché qui il percorso di Gabetti fotografo tornerà quando
ormai il ciclo sembrava essersi concluso. Certo, la mitica Leica protagonista
degli scatti avventurosi qui riportati dal 1946-1967, non c’era più – sarà il
turno della Hasselblad prestata da Aimaro Isola – ma tra il 1970 e il ’72
Gabetti sente l’esigenza di tornare a quella poetica della Langa per la
preparazione degli apparati iconografici, insieme a Mulas, dell’Architettura
dell’eclettismo. E ci sarà infine modo di discutere ancora di questi temi,
del senso di un cammino fotografico esaurito da tempo, eppure sempre operante
nelle scelte, nel fraseggio, nell’intreccio dei successivi progetti, in
occasione dell’atlante realizzato da Regis sulle architetture di Gabetti e
Isola; ancora uno spazio in cui la fotografia, la visione dal vero, cerca di
accendere legami, riportare in luce spunti, citazioni, modi di operare e,
viceversa, chiarire l’inizio di un’idea, cosa abbia presieduto a una
realizzazione.
Se
infatti l’architettura è conoscenza, stando al titolo scelto da Gabetti e Isola
per la XVI Triennale di Milano (catalogo Alinari, 1981), anche la fotografia lo
è, in quanto strumento che può confermare gli esiti (costruzioni, libri) a
seguito di un lungo lavoro di ricerca attraverso le immagini. È ciò su cui
ripetutamente torna lo scritto introduttivo di Regis, in quanto l’attenta
rilettura e comparazione delle opere potrebbe confermare il primato della
fotografia, la sua preesistenza come innesco. Caso emblematico durante le
ricognizioni delle architetture antonelliane meno note delle origini a Soliva e
Castagnola, nel novarese, l’incontro con i taragn, le impressionanti strutture
rurali valsesiane, risalenti al Medioevo. Ne sarebbe nato uno studio
affascinante sulla cura storica, scientifica, l’interesse sentimentale e di
ricerca per i borghi conservati, tipico del modo di procedere gabettiano, che da
un singolo elemento minore, perfino trascurabile, avulso rispetto ai miti del
moderno, trae un disegno ampio, coinvolgente, approfondito nello spazio e nel
tempo, un quadro delle identità che dal locale giungono ad abbracciare culture
vaste, extraterritoriali.
Il
curatore, Sisto Giriodi, che ci tiene a presentare la galleria di Gabetti qui
raccolta come un qualcosa che riflette lo spirito del progetto, lontano da
tecnicismi e astrazioni, per guidarci a questa doppia lettura di testi e
immagini, in cui i due componenti risultano peraltro intercambiabili, cita un
pensiero di Louis Kahn: «Sono affascinato dagli inizi, perché chinarsi sugli
inizi è emozionante, come veder spuntare una piantina che diventerà un albero,
la fila dei tentativi che portano ai grandi esiti». Non c’è cosa più vera e
toccante. La grande poesia si condensa nel mentre qualcosa sta prendendo forma,
si raccoglie in quel che va preparandosi ed è lì che si concentra, subito prima
di manifestarsi. E in
effetti questi inizi sono rivelatori di una poesia sommessa e al contempo
ostinata che anima l’intero impianto del racconto di Gabetti con delle costanti
che tornano ad ogni esplorazione, si tratti di un tour amatoriale o dello studio
ricognitivo per un concorso. Il superamento delle regole formali nella fotografia
di architettura dettate dagli Alinari, il rilievo dato al contesto – così nella
celebre presa delle cinque cupole di San Marco o nei diversi scatti “aerei”
dedicati a città o campagne; e ancora la ricerca della presenza umana, tanto
che delinea una vera e propria antropologia dei luoghi sul doppio fronte del “vissuto”
depositato sulle strutture – l’evocazione del tempo, lo stratificarsi della
storia – e delle “strutture vissute”, in quanto animate da presenze che ci
parlano di una quotidianità istantanea, trascorrente.
Ma c’è anche un’acuta lettura dei cambiamenti
in atto, non necessariamente di segno negativo. Gabetti è propenso a comporre
dei quadri aperti, su cui non smettiamo di interrogarci, in grado di generare
opere ulteriori; è anche il carattere delle sue architetture e della sua
produzione saggistica. Così quando in uno scatto lascia collidere l’antico che
sopravvive immobile nello sfondo dei palazzi medievali, col moderno, una selva
di vetture che occupa un piazzale storico di un centro urbano, in questo
intreccio di caldo e di freddo, di architettura fatta a mano e architettura
fatta a macchina, prima di tutto ci tiene a registrare la dinamica in atto, a
proporla al nostro sguardo per un’analisi. In qualche caso la critica però si
fa più aspra. A Firenze, ad esempio, dal fulcro meraviglioso di Santa Maria del
Fiore a cui dedica scatti caleidoscopici scomponendo il rivestimento in marmo
come un panno vibrante sulla struttura, si volge allo scempio dei palazzoni
nuovi, incombenti sul lungarno. I vuoti dei danni di guerra così malamente e
affrettatamente occultati da condomini alieni al tessuto urbano sono riassunti
in due fotografie dedicate a due diversi quartieri, uno ancora armonico con le case
tutte simili, i tetti in tegole; l’altro pieno di abitazioni nuove, alte, bianche che
hanno preso il posto di quelle crollate sotto i bombardamenti. Quello delle
distruzioni belliche è un tema che lo coinvolge molto sul piano emotivo, e su
cui si spende fin dall’inizio delle proprie committenze, tanto che tra i suoi primi incarichi vi sono il recupero dell’ospedale di San Rocco nel Verbano e quello
delle Porte Palatine a Torino. In quest’ultimo caso si tratta anche del primo confronto
con l’antico, altro polo prediletto intorno al quale è destinata a snodarsi la sua
progettualità. Che questo “gioco” di richiamo e sovrapposizione tra epoche
diverse eserciti su di lui una notevole attrattiva, si può comprendere da un
bellissimo scatto coevo alla committenza palatina, dunque nel ’51, ad Aosta,
dove l’imperatore Augusto è ripreso dall’alto in un singolare gesto simpatetico
rivolto alla città medievale, sorta per l’appunto sul vecchio castrum.
Fioccano
precocemente anche i grandi incarichi, dalla progettazione per la nuova Gam al
Palazzo della Borsa. Il gruppo di lavoro è quello ormai rodato, Aimaro Isola,
Giorgio Raineri e il fratello Giuseppe Gabetti, ingegnere calcolatore. Non
hanno ancora trent’anni e sono già avviati a lasciare un segno nella storia
dell’architettura italiana. Dai primi cantieri INA a queste prestigiose
committenze, emerge tutto l’affiatamento del gruppo e l’aver saputo elaborare
un linguaggio personale, fuori dalla scia del modernismo, una sintassi in grado
di accogliere al suo interno i saperi delle maestranze locali, le abilità
artigiane, le tecniche del costruire tradizionale. Un’opposizione allo
sradicamento, al livellamento culturale che in architettura avrebbe presto
mostrato il suo volto di gorgone pietrificante, distaccato, schierato contro l’umano.
È lo stesso spirito di restituzione a una grazia, a una storia locale che anima il
progetto della bottega d’Erasmo (1956-’57), ma anche quella paziente
campionatura di strutture “minori”, eppure alla base di tracce identitarie.
Così i balconi a spigolo che somigliano ad antri fiabeschi, le scale in ferro,
le stranianti marquise in ferro e vetro sulla riviera ligure, o il liberty
esorbitante delle facciate milanesi, come le sue chiese gotiche assediate dalle
macchine, oppure una fornace, un solido lontano dalla leggerezza di altre
strutture cui solitamente propende, ma altrettanto esemplificativo di quella
poesia artigiana del territorio, di quell’umanità del gesto che fabbrica e
preserva.
Gabetti
ha svolto un’opera di narrativa paziente che oltre alle fotografie può essere rintracciata nei libretti preparatori delle strisce di provini raccolti e montati da
Riccardo Moncalvo nel suo laboratorio. Moncalvo, l’altro nume tutelare della
fotografia piemontese, il maestro di tutti, l’uomo che con le sue immagini ha
attraversato il secolo, celebre anche per gli scatti al patrimonio artistico – si
pensi alle sue sequenze dedicate alla grande mostra del Barocco del 1963 – legato
a Gabetti da stima, amicizia, interessi tematici condivisi.
Come
si vede, è una storia molto articolata, fatta di tanti personaggi di prim’ordine
della Torino del dopoguerra, menti geniali, accese dalla voglia di ricostruire e
lasciare un segno, ma ben consapevoli dell’importanza delle radici storiche,
proprio perché quelle radici la guerra aveva brutalmente scempiato. E con la
ricostruzione si rischiava di perdere altro ancora. Roberto Gabetti è stato
postmodernista molto prima che si cominciasse a contestare l’avanguardia
storica. Il suo linguaggio, il suo rifiuto delle mode venivano dallo studio,
dallo sguardo affettivo, dalla conoscenza, il concetto chiave di cui s’è detto in
apertura, intono al quale Daniele Regis sceglie non a caso di articolare le sue
dense pagine di tributo al maestro e di ingresso dell’osservatore a questo
vitalissimo microcosmo di fotografie.
Sfogliando
queste foto si scopre un continuum, quasi la volontà di fissare delle tessere
in un mosaico che andrà componendosi nell’arco di un’intera vita, anche quando
l’esercizio della fotografia, scrupolosamente svolto per circa un ventennio con
questa Leica delle meraviglie, la macchina dei reportage che qui viene a
narrare lo spazio e le sue costruzioni, pare esaurito. Dal ritratto del
Camposanto di Pisa, quasi architettura piovuta sul prato da un altro mondo, edificio
multiforme e per certi versi alienante che sembra mutare di continuo sotto il nostro sguardo, alle
porte dei borghi o alle rovine di archi romani sommersi dalla vegetazione, a
scale e scalinate catturate in inquadrature alla Escher – con tutta la carica simbolica che questi
elementi recano in sé – si coglie una continuità progettuale coerente e
originale. Stando che l’originale qui guarda per l’appunto alle origini.
(Di Claudia Ciardi)
Edizione commentata:
Sisto Giriodi, Roberto Gabetti archietto e fotografo, introduzione di Daniele Regis, Il Quadrante, Lindau, novembre 2020
A Firenze
Murazzano (Cuneo)
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