Fotografare l’antico significa porsi in un dialogo vivo con i segni del passato, con le tracce di un’umanità che ci pare talvolta lontanissima, inafferrabile perché da lei ci separano secoli o anche millenni. Eppure un mezzo così innovativo, questa prodigiosa scrittura fatta di luce, a contatto con i reperti delle civiltà inghiottite dalla storia sembra rivelare ancor più interamente il proprio incantesimo.
Il
lavoro di Luigi Spina sulle terrecotte votive sidicine si apre come una porta
sulle memorie di una cultura che ha lasciato tracce assai labili nella latinità,
dal momento in cui Roma, accrescendo la sua posizione, divenne la grande
accentratrice e livellatrice delle presenze italiche. Un soggetto sfuggente,
dunque, in quando difficile da collocare e da leggere. L’arte del fotografo,
che alla perizia tecnica, peraltro basata su scelte oggi considerate quasi fuori
dagli schemi – il banco ottico e la pellicola di grande formato – unisce tutta
la forza dello scavo introspettivo, ci restituisce espressioni e gesti su cui si azzera la distanza, di fronte ai quali restiamo immersi in una sorta di
estasi contemplativa che ce li rende incredibilmente contigui. Questo
progetto invita anche a considerare come il patrimonio archeologico possa
uscire dal rigore delle classificazioni e del racconto documentale, per attingere
ad altri livelli narrativi cui il medium della fotografia si presta con estrema
duttilità. Le ombre e le luci dell’immagine scattata, il taglio dato,
l’osservazione di un contesto non finalizzata all’opera scientifica del rilievo
ma incline a suscitare nessi emozionali – lo si vede bene qui nelle grandi
tavole dei paesaggi che Spina volutamente alterna ai suoi ritratti rituali – fanno
sì che un reperto assuma su di sé un’esistenza multiforme, viene da dire
metamorfica. La staticità di una storia conclusa, l’abbandono dettato dal
passaggio del tempo vengono annullati dalla fotografia, sono anzi capovolti,
mutati di segno, così da confluire in un nuovo perturbante impulso vitale. Guardando
questi visi, i panneggi di statue mutile, i giovani guerrieri, i frammenti di
bambini issati su spalle femminili rinasce un universo sensibile, un mosaico di
valori che hanno composto un’identità culturale che si credeva morta,
improvvisamente riaffiorati. Così il ritratto conduce fino a noi il respiro disperso
dell’umano.
La
dea Popluna, alter ego italico di Demetra, benefattrice del popolo, è la regina
indiscussa dell’immaginario che ruota intorno a questo frammento di civiltà. Donne-madri
e uomini-soldati, fin da giovanissimi avviati all’arte della guerra, ci dicono
di un territorio le cui sorti dipendevano per l’appunto dai buoni raccolti,
dalla fertilità femminile e dal saldo controllo delle vie d’accesso alle aree
appenniniche della Campania interna e del Sannio. I modelli figurativi vengono
dalla Grecia. Le korai, alla base delle rappresentazioni del mondo
etrusco italico tra il VI e il V secolo a. C., sono tuttavia intrepretate con tecniche
originali. La graduale assimilazione della maniera sidicina nel più vasto alveo
della cultura italica del periodo medio-repubblicano si leggerà proprio in un
maggiore allineamento allo stile greco-ellenistico. Ad esempio attraverso il
canone di Lisippo, cui si uniformarono le principali botteghe coroplastiche
dell’area italica, qui ben rintracciabile in alcune teste di Eracle.
La campagna di Luigi Spina s’inquadra peraltro in una stagione celebrativa importante per gli studi sui popoli italici e il loro confronto con la latinità. Nel 2006 si festeggiarono infatti gli ottanta anni di Werner Johannowsky, tra gli studiosi di punta delle aree campane, promotore di importanti e fortunate campagne di scavo, nell’ambito di un ritrovato impulso alla ricerca grazie al programma messo in atto dall’Istituto Archeologico Germanico di Roma. L’allora direttore Dieter Mertens scriveva: «Senza dubbio il nostro interesse scientifico nei confronti di questa tematica è influenzato da problemi attuali della nostra società, un fatto che tuttavia non costituisce uno svantaggio, in quanto rende lo sguardo ancora più acuto. Tuttavia la sola, pur rigorosa classificazione dei materiali, come anche l’esigenza di una comprensione storica delle evidenze archeologiche, non esauriscono il vasto campo dell’esperienza dell’antico. Così il volume che si presenta, al quale è affiancata una mostra documentaria, comprende le intense interpretazioni fotografiche di Luigi Spina che offrono un piacere estetico spesso dimenticato nei monumenti archeologici e nella loro presentazione».
Sono
considerazioni ancor più valide e incisive oggi, per noi che abbiamo
attraversato e stiamo attraversando un periodo così complesso, un percorso pieno
di insidie per i beni culturali, tra chiusure, alcune anche definitive
purtroppo, e varie forme di oblio che vengono a minacciare l’arte nella stagione
segnata dalla pandemia. Ora più che mai c’è bisogno di uno sguardo
sentimentale, di un modo di comunicare la bellezza che riaccenda la passione
per la vita, che spinga con ancor più energia l’avventura umana.
(Di
Claudia Ciardi)
Catalogo:
Luigi Spina, Ritratti rituali. Terrecotte figurate di Teanum Sidicinum, testi di Roberto Mutti e Francesco Sirano, Federico Motta editore, 2006.
Ritratti e figure votive
Dignitari e fanciulle - Una delle caratteristiche della coroplastica sidicina è la cura per i dettagli
Ritratti di dignitari con copricapo prodotti nella bottega locale sidicina (VI sec. a. C.)
Teste di Eracle eseguite secondo lo stile di Lisippo, ispirate in particolare al suo ritratto di Alessandro Magno
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