Un
leone ricolorato che rasenta il Kitsch. È un leone di Loutraki, che senza
sapere da dove venga e cosa sia, si direbbe uscito da un fotogramma
hollywoodiano sull’Egitto dei faraoni. O piuttosto che collocarsi nell’antica Grecia sembrerebbe essere più a suo agio accanto a una chimera o tra le pagine di un bestiario medioevale. Forse un po’ eccessivo ma se vogliamo
d’effetto, non c’è dubbio. Abituati a vedere l’antico come un film in bianco e
nero, la scoperta del colore su questi resti di civiltà, per noi
sostanzialmente acromatica, può essere destabilizzante e perfino inaccettabile.
Essendo le statue e i templi (greci e le loro copie romane) giunti fino a noi
privi della loro colorazione, siamo stati indotti a pensare che le opere d’arte
e d’architettura nel mondo classico ne fossero totalmente sprovviste. Anche grandi
storici dell’arte la pensavano così. Johann Winckelmann nel Settecento
stabilì i canoni della bellezza ideale individuandoli proprio nelle statue
greche decolorate dal tempo. Nulla di più lontano dalla realtà.
Nella mia
adolescenza, prima ancora di andare al liceo, mi sono capitati due libri
importanti sulla Grecia, importanti per me, in quanto hanno senz’altro
contribuito alla nascita di una philìa verso un mondo di cui non
sospettavo l’esistenza, un tesoro sepolto che mi folgorò, sensazione che ancora
dura. Uno fu il librino tascabile della traduzione dei lirici greci fatta da
Quasimodo – e qui ne ho parlato introducendo un bell’intervento della
classicista Alessia Rovina – l’altro, un manuale per
ragazzi sugli aspetti salienti della civiltà ellenica, con una porzione
rilevante del testo dedicata all’arte e splendide riproduzioni dell’Eretteo colorato,
di frontoni dalle luminose tonalità, di statue con panneggi e capigliature
variopinte.
L’esercizio
di ricostruzione della policromia sui manufatti antichi sprigiona non solo un
certo fascino estetico e psicologico ma è senz’altro utile a restituirci
un’immagine più veritiera di ciò che i nostri predecessori vedevano intorno a loro.
Da anni i ricercatori del British Museum di Londra e della Glittoteca di Monaco
di Baviera rielaborano al computer le immagini delle statue basandosi sulle
tracce di colore rinvenute, con grande insoddisfazione dei più “conservatori”. L’analisi
chimica ha rivelato che i colori più gettonati nell’antichità erano rosso, giallo, azzurro e
bianco, più le gradazioni derivate dalla loro unione. Nonostante l’azione del
tempo, restando allo spazio ellenico, numerose tracce sono state rinvenute sul frontone dell’antico tempio di
Afaia a Egina, sulla Kore con peplo o Peplophoros, e sui leoni di Loutraki, di
cui si diceva all’inizio. In scia a tali ricerche è in corso al Met di New York la
mostra «Chroma» che presenta una serie di ricostruzioni a colori di sculture
antiche del Prof. Dr. V. Brinkmann, capo del dipartimento di antichità presso
la Collezione di sculture Liebieghaus, e del Dr. U. Koch-Brinkmann, da anni impegnati
in questi studi, soprattutto sulla statuaria. Presentate insieme a opere
originali greche e romane che riproducono soggetti simili, le ricostruzioni
sono l’esito di una serie di raffronti e analisi, tra cui l’imaging 3D. Una materia
che può aprire nuove vie anche nell’indagine sui testi, stimolando nuove
interpretazioni e ragionamenti sulla parola, terreno complesso, perché ad esempio la
definizione greca del colore rimane spesso sfuggente, di sicuro lontana dai
criteri con cui le lingue moderne “osservano”.
Ricordo
per la mia tesi di aver passato in rassegna diversi aspetti del colore dal
lessico – con un’ampia ricognizione per l’appunto sui lessici antichi – alle
teorie cromatiche. Mi capitò anche un libro sulla funzione mitologica e rituale
del colore fra gli antichi greci, una densa e utilissima monografia dell’istituto
di Rustavi (la prima edizione in georgiano – esperienza di lettura davvero
eccentrica! – poi per fortuna recuperata in inglese). Nel mondo greco una delle
dimensioni che intervengono a definire il colore è quella emotiva e per noi
lettori dell’oggi – fra l’altro così bersagliati e saturati dalle immagini
(come non pensare all’analisi benjaminiana) è piuttosto arduo comprendere l’uso
di un certo aggettivo o sostantivo in riferimento alle sfumature di
un oggetto. Ci è difficile, più difficile che in altri ambiti, raggiungere quel
grado di straniamento così da riuscire a pensare in modo diverso; siamo troppo,
fin troppo calati nell’incantesimo accecante della grafica, nel gorgo pubblicitario
(e quando Benjamin scriveva si era solo all’inizio del grande stordimento
luminoso). E in ragione di ciò, anche le ricostruzioni del colore sull’arte
classica potrebbero talvolta risentire di sovrabbondanze e abbagli tutti nostri;
quegli effetti un po’ vicini al Kitsch che si sono richiamati con una certa
ironia ad incipit.
Ma
tornando alle lingue antiche, non sono pochi i casi di assoluta incertezza per
chi traduce, sebbene in linea di massima uno dei principi basilari per cui si
orienta l’idea greca del colore, oltre alla sfera sentimentale, è la luminosità. Altrettanto
interessante è una vistosa differenza tra la gamma cromatica greco-romana e
quella orientale. A Oriente – poi si potrebbe lungamente discutere
sull’orientalismo della Grecia, sulle sue infiltrazioni asiatiche, perché di
fatto l’Asia Minore era luogo conteso e patria di sorprendenti ibridazioni – l’azzurro,
il blu erano molto diffusi, dotati di alto valore simbolico, per lo più legati
alla sfera del sacro.
A
titolo d’esempio la Porta di Ishtar, oggi al Pergamon Museum di Berlino; il suo
rivestimento è interamente in mattoni smaltati di blu. Oppure, sul versante
della cultura egizia, la maschera di Tutankhamon o gli scarabei. Per quanto riguarda
la Mesopotamia la presenza del blu dipende dal fatto che questa regione si
trovasse lungo le vie commerciali che portavano i lapislazzuli dall’Afghanistan
verso l’occidente. Erano gli stessi mercanti mesopotamici a gestire questo
commercio, come ci è noto da documenti paleoassiri datati all’inizio del II
millennio a.C. I lapislazzuli erano costosi, dunque appannaggio dei regnanti:
gli oggetti d’arte che presentano un rivestimento in smalto blu o incrostazioni
di pietre dello stesso colore fanno parte del corredo di tombe reali o
principesche. Ciò vale anche per l’antico Egitto, dove i faraoni scambiavano l’oro
con le pietre preziose in arrivo da oriente.
Per
le città greche e la repubblica romana delle origini usare il blu prodotto dai
lapislazzuli sarebbe stato una spesa eccessiva e anche quando l’impero romano
fu abbastanza ricco da importare senza difficoltà pietre preziose, questo
commercio non vi attecchì. In età arcaica per i greci e i romani il blu era
stato un colore difficile da reperire e questo fu uno dei motivi fondamentali per
cui anche la parola stessa con cui riferirsi alla sua gamma cromatica tende a sfuggire
al vocabolario. La presenza più o meno affermata di un colore, la capacità di
produrlo con facilità e dunque di identificarlo con chiarezza, ebbe infatti una
grossa influenza sul lessico.
Una
storia affascinante e ancora da esplorare in molte delle sue declinazioni, che non
si ferma allo studio delle opere d’arte ma coinvolge gli usi della lingua, le
manifestazioni cultuali, i processi di stratificazione dell’immaginario
collettivo, le sensibilità dei singoli artisti, letterati, pensatori, in un’osmosi
estremamente ampia, che presuppone altrettanta versatilità negli
osservatori-lettori.
(Di Claudia Ciardi)
Ricostruzione di un tempio greco con Gorgone sul frontone
Urna con tracce di colore - Museo lapidario Maffeiano - Verona
Foto di Claudia Ciardi ©