Visualizzazione post con etichetta Taoismo. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Taoismo. Mostra tutti i post

28 novembre 2021

Anecdota botanica




Organismi ingegnosi dalle sorprendenti doti creative, in grado di sviluppare sistemi all’avanguardia per la loro conservazione e diffusione, vere e proprie creature pensanti, le piante sono gli esseri che più differiscono da noi ma dalle quali molti esempi potremmo trarre per dare finalmente spazio a modelli alternativi nella nostra società.
Un giorno un amico dopo avermi mostrato le figure del qi gong – una specie di danza in cui il respiro si armonizza completamente coi movimenti del corpo finché la propria energia interna e quella esterna fluiscono insieme – mi raccontò di aver avuto un’esperienza molto intensa. Una mattina presto, disponendosi a quel lungo esercizio di respirazione davanti alle montagne sentì di non appartenere più allo spazio in cui si trovava. Nel silenzio, man mano che completava i movimenti, aveva la percezione di essere trascinato via. Se si raggiunge un elevato grado di concentrazione, mi disse, si riesce a sentire cosa sta accadendo nel bosco in quel preciso momento. Questo racconto mi toccò subito moltissimo e non ne ho mai dubitato. Certo, immersi come siamo adesso in un’atmosfera tanto straniante che calpesta con spietato cinismo ogni pur minima concessione a un’idea di trascendenza, suona come qualcosa di inconcepibile. Tale episodio mi trasmise con straordinaria chiarezza quanto tutti i viventi siano legati in profondità. E vi ho riscontrato pure non poche assonanze con il ricordo di un evento culturale degli anni ’70, quando il libro La vita segreta delle piante di Peter Tompkins e Christopher Bird (edito in Italia da Il Saggiatore nel 2009) entrò nella classifica dei saggi più venduti stilata dal New Yorker. Il volume sosteneva l’idea che le piante fossero esseri senzienti, fini ascoltatrici di musica classica, artiste munite di una spiccata intelligenza tecnica (e torniamo pur sempre alla τέχνη, arte, in greco). Un misto di adattabilità, resistenza, lungimiranza “politica” che permette loro di volgere a proprio vantaggio situazioni complicate. E infine, anche un po’ sensitive. Il libro infatti rimarcava la caratteristica di percepire i pensieri di un essere umano con cui erano venute in contatto o che si era preso cura di loro perfino a centinaia di chilometri di distanza. Questo passaggio soprattutto mi riportava al concetto di unisono che l’esperienza appena descritta aveva con così tanta forza riversato in me. Se il fatto che il libro sia diventato un bestseller nel giro di qualche settimana si spiega come fenomeno di costume ascrivibile al diffondersi delle pratiche new age nella società americana, è pur vero che qualcosa di quell’impianto ha sfidato il tempo superando le aspre critiche degli scienziati di allora. Oltre al merito di aver guadagnato proseliti alla causa della botanica, nell’epoca delle macchine considerata non di rado uno studio da eccentrici, non è esagerato riscontrare nell’esposizione dei due scrittori il seme – quale metafora più appropriata! – di una disciplina che molti anni più tardi si è proposta di studiare le capacità sensibili delle piante, nota col nome di neurobiologia delle piante. Uno dei suoi più illuminati e illuminanti divulgatori è Stefano Mancuso, fisiologo vegetale dell’Università di Firenze, autore di libri capaci di avvicinare e coinvolgere lettori non specialisti, che esorto vivamente a leggere.
In un ipotetico parallelo tra società delle piante e società umana, le piante battono l’uomo stracciando quasi l’avversario. L’essere umano ha infatti la mania di accentrare, di creare organizzazioni verticistiche fino a perire sotto il peso dell’inutilità delle proprie strutture. Ciò vale per il regno animale in genere, con la differenza che l’uomo dà vita a sistemi complessi perché più complessa è la sua intelligenza. Solo che in natura l’intelligenza non è necessariamente un vantaggio. Gli esempi attraverso cui gli uomini in preda a un’ipertrofica volontà di dominare finiscono puntualmente per essere intossicati si sprecano. Un’altra mania tutta umana è quella di ammantarsi di una presunta superiorità di specie in base alla quale si potrebbero modificare gli equilibri di natura a proprio piacimento e senza conseguenze. Anche qui gli esempi di esperimenti finiti male non si contano. Vediamo brevemente cosa è successo quando gli Olandesi decisero che la pianta dei chiodi di garofano era inutile. Arrivati alle Isole Molucche, sua terra d’origine, distrussero tutti gli alberi di Eugenia per far posto ad altre colture e per liberare spazio da destinare ad altre attività. Come s’intuisce dal nome, questi vegetali sono ricchi di eugenolo che si estrae anche dagli oli essenziali di cannella, noce moscata, basilico, alloro e anice stellato giapponese; si tratta di un antibatterico potente, con proprietà antispasmodiche e anestetiche. Una volta eradicate tutte, sulle isole si abbatterono continue epidemie che le resero invivibili. La natura ha fatto capire ai coloni chi comandasse veramente.
Nel suo libro La nazione delle piante Stefano Mancuso descrive moltissime situazioni che mettono a nudo l’inadeguatezza umana. Illuminante il capitolo sulla crescita incontrollata degli apparati burocratici, che continuano a lievitare anche in assenza di reali opportunità di lavoro, fino all’autodistruzione, specchio dell’orizzonte gerarchico entro cui l’uomo si muove. Ecco cosa dice l’autore al riguardo: «Ogni organizzazione gerarchica, infatti, evolve una sua burocrazia, ossia un gruppo di persone la cui funzione è di trasformare in consuetudine il meccanismo di trasmissione dei comandi attraverso i diversi livelli della gerarchia. La trasmissione da un livello all’altro della catena gerarchica, oltre che essere inevitabilmente soggetta ad errori, richiede del tempo, eliminando così la velocità di azione, ossia l’unico vero vantaggio ascrivibile ad una organizzazione centralizzata». (articolo 3, pagina 35)
Il sistema centralistico e verticistico dei modi in cui l’essere umano tende ad amministrare ogni cosa, gli deriva da come amministra se stesso, un derivato biologico si direbbe: il cervello è il nostro organo centrale, è lui il regista di tutto, quello che ci permette di risolvere i problemi ma anche il grande responsabile dei nostri molti dissidi. Le piante invece non hanno nessun organo centrale, i loro sensi hanno uguale potere contrattuale distribuiti come sono su tutto il corpo. Il loro è un modello di società diffusa, in cui i centri di potere sono più di uno, dunque un cosmo policentrico che vive di decisioni collegiali, e se una parte è in pericolo o riporta un danno, ci sarà un doppio – supponiamo un duplicato del cuore, del cervello e della vista – che le permetterà di recuperare l’infortunio.
Anche in questo caso, dopo aver letto il libro di Mancuso e diversi articoli d’intonazione simile, mi è accaduto un episodio davvero bizzarro cui non avrei dato peso senza essermi documentata a queste fonti. La mia amarillys, regalo di unamica greca innamorata di questa pianta fin dalla gioventù, aveva avuto uno sviluppo velocissimo – cosa questa che mi era stata predetta qualora si fosse ambientata bene. Ero molto felice, significava dunque che le ero piaciuta, ma allo stesso tempo mi preoccupava che potesse soffrire per il peso eccessivo. Purtroppo non pensai a metterle dei sostegni e così una mattina ho trovato uno degli steli dove già si affacciava la prima fioritura, accasciato sullo stendino. Non aiutata da me, aveva provveduto da sola ad atterrare sul morbido. Dalla sua posizione era l’unico punto raggiungibile per non rischiare che lo stelo si spezzasse. Da come è andata, si potrebbe dire che l’amarillys abbia “visto” lo spazio, che abbia percepito cosa ci fosse intorno a lei, calandosi dove potesse stare al sicuro.
Siamo davvero di fronte a creature prodigiose, animate da gusto estetico e uno studio invidiabile della tecnica. Delle perfette menti artistiche rinascimentali. E a proposito di arte… Da tempo ci si interrogava su come, finite le glaciazioni, le foreste si fossero rapidamente diffuse in ogni parte del mondo, isole comprese. Fu un’istallazione a Central Park di Christo e della moglie Jeanne-Claude, i maggiori rappresentanti della Land Art, a ispirare la teoria di Henry Horn, biologo di Princeton. Nel lunghissimo porticato costituito da 7500 passaggi – una perfetta galleria del vento – lo studioso si accorse che alcuni semi alati erano in grado letteralmente di intercettare le correnti d’aria coprendo distanze all’apparenza inimmaginabili. Si trattava soprattutto di quelli dell’acero e del frassino, architetture eccezionali, veri oggetti di design, sbalorditivi congegni leonardeschi.
In conclusione, avvicinare la vita delle piante significa confrontarsi con tantissimi aspetti del nostro stesso universo intellettivo e creativo, scoprendo valori diversi e punti di vista che, se integrati o adottati per alcune forme di organizzazione, potrebbero rivelarsi molto più funzionali e per così dire moderni di quelli a cui ci vincolano le nostre consuetudini sociali.

 
(Di Claudia Ciardi)




*In copertina: Leonardo da Vinci, Annunciazione, 1472-1475 circa
dettaglio:
lalbero impossibile


*Per la rubrica
«Arboreto salvatico»


Riferimenti:

Michael Pollan, L'intelligenza delle piante, «The New Yorker», pubblicato in versione italiana su «Internazionale» n. 1042, 12-20 marzo 2014

Stefano Mancuso, La nazione delle piante, Laterza, 2019

Vittorio Caprioglio, Gli alberi ci insegnano ad avere radici e a volare,
«Salute naturale», numero 269, settembre 2021

30 agosto 2019

La metafisica delle nuvole di Ian Fisher


Classe 1983, canadese originario della Nuova Scozia, Ian Fisher è un rabdomante di nuvole. La serie “Atmosfere” raccoglie poderose formazioni di cumuli nembi sospese tra tempesta e quiete, solcate da tagli di luce che dilatano sorprendentemente lo spazio delle sue tele. Nubi che sembrano mimare battaglie di titani, epiche transumanze di stagioni e colori, uno smisurato caleidoscopio del sublime in natura. Cieli frammisti che suggeriscono profondità in cui viene voglia di perdersi, a guardarli s’intuisce qualcosa di contiguo all’infinito, maieutica per l’immaginazione.

Ian li definisce “cloudscapes”, paesaggi di nuvole. E in un gesto la sua mano ci trasporta verso una burrascosa bellezza, tentazione dei giochi d’infanzia tutti consacrati a queste isole d’aria. Ragionando sul figurativo e l’astratto dice: «Ho sempre amato l’astrazione, ma sono più figurativo come artista. Quel che offre d’interessante il cielo è che mi permette di creare qualcosa di rappresentativo, ma dato che è in continua evoluzione, ho la libertà di dipingerlo esattamente come voglio che sia, rendendolo più astratto». Da qui le sue atmosfere sempre sul punto di squarciarsi nel tentativo di afferrare altre dimensioni, nubi come rupi, montagne, geometrie mutevoli, come quando si osserva un’eclisse in uno specchio d’acqua. Traslazioni, correnti e suggestioni taoiste nei fuochi e nei contrasti delle campiture, fluidità dell’attimo che non vuole incidere se stesso ma sussurrare il vibrato di un passaggio sentimentale.     
Presente sulla scena artistica di Denver, dove lavora in pianta stabile, sta portando la sua creatività all’interno di diverse mostre collettive da Salt Lake City a Shanghai. Un ampio progetto itinerante, in sintonia col vagare delle nuvole, con cui spera di avvicinare al suo mondo ampi strati di pubblico. Le sue opere sono inoltre oggetto di esposizione alla Robischon Gallery e al Boulder Museum of Contemporary Art.

(Di Claudia Ciardi)


 * Atmosphere n. 46: incipit del post 

 * Sono tutti oli su tela 




Atmosphere n. 41



Atmosphere n. 43



Atmosphere n. 44



Atmosphere n. 63



Atmosphere n. 77


 

Dal greco νεφελοβάτης - chi cammina tra le nuvole; (in arte o in letteratura), un trasgressore, uno che rompe gli schemi.






9 settembre 2018

Henry D. Thoreau - Disobbedienza civile



Insieme a Walt Whitman e Nathaniel Hawthorne viene annoverato tra i grandi del cosiddetto rinascimento americano, portavoce di un’armonia di natura cui è chiamato l’individuo che vuole compiutamente realizzare la propria emancipazione culturale, contribuendo così al progresso della società in cui vive. Henry David Thoreau è filosofo, scrittore e insegnante, ma soprattutto uomo capace di “ordinari” gesti di ribellione, a riprova che ognuno, se vuole, può essere rivoluzionario anche e soprattutto nel suo agire quotidiano. Le sue due opere fondamentali, Walden o vita nei boschi e Disobbedienza civile, che ancora non smettono di incantare e porre interrogativi sulle odierne derive del progresso, nascono da un nobile rifiuto del mondo che, lungi da ogni sterile celebrazione dell’individualismo, è una sorta di via aurea per problematizzare la capacità di ciascuno di opporsi all’ingiustizia e a quanto, nelle decisioni pubbliche, non lo rappresenta. Dunque, si tratta di una riflessione profonda sull’inadeguatezza della nostra democrazia, ancora ferma a una fase non affinata. Già ai tempi della sua scrittura, circa metà dell’Ottocento, Thoreau sentiva che il voto non è una traduzione esatta della volontà collettiva, ma una sua riduzione in termini molto grossolani, e affinché possa esserci reale rappresentanza si sarebbe dovuta realizzare una crescita morale dell’intero organismo chiamato nazione, tale da essere capillarmente assimilata e, quindi, guidata con saggezza dalla classe politica. Ed è sintomatico che ad aprire Disobbedienza civile sia proprio la norma, peraltro già ben nota all’antica scuola di pensiero cinese, il taoismo, un tempo vero mentore d’imperatori illuminati, secondo cui meno il governante forza e obbliga coloro sui quali esercita il suo potere, più efficace sarà la sua azione.        
Tutto nacque dal fatto che nell’istituto in cui decise di insegnare si faceva ricorso, in modo piuttosto disinibito, alla punizione corporale degli studenti. In seguito alle sue proteste, che non vennero accolte, si trovò costretto a lasciare l’incarico. Aprì così col fratello un’altra scuola in cui non venivano inflitte punizioni e si faceva lezione all’aperto, camminando. Un Peripato all’americana fuori dagli angusti confini della città. Quando il fratello, suo principale sostegno e fonte d’ispirazione, morì prematuramente, Thoreau prese ad annotare su un diario i pensieri che gli aveva affidato durante gli anni trascorsi insieme e, con l’aiuto dell’amico dei tempi universitari, Ralph Waldo Emerson, continuò a divulgare le esperienze che avevano condiviso nell’insegnamento e nella vita di tutti i giorni. Più tardi Emerson, fondatore della rivista culturale “The Atlantic Montly”, gli avrebbe dato spazio come redattore, ed è proprio sulle pagine di questo giornale che vennero pubblicati alcuni dei suoi articoli più celebri. Uno su tutti “Walking”, celebrazione del camminare come principio di libertà, dimensione del pensiero in grado di innescare un cortocircuito mentale, primo vero passo in direzione d’un cambiamento. Il 4 luglio 1845, simbolicamente il giorno dell’indipendenza americana, decise di dare inizio al suo ritiro spirituale sulle sponde del lago Walden, in prossimità di Concord, sua città natale, con la voglia di dimostrare che è possibile sopravvivere con poco, rinunciando a buona parte del superfluo che ci viene spacciato per necessario, e che se ne guadagna in profondità di pensiero. Per poter riconoscere la bellezza di quello che abbiamo intorno, per fermare lo sguardo e il sentire sui mutamenti della natura e sui piccoli accidenti che sanno ben colmare il calice della quotidianità, bisogna avere il coraggio di liberarsi da quanto ci distoglie, rendendoci ferocemente insensati. Da qui scaturiscono le pagine di Disobbedienza civile e quelle altrettanto martellanti di La schiavitù nel Massachusetts.
L’indignazione è un fiume in piena che non vuol travolgere ma richiamare gli uomini alle proprie responsabilità di cittadini. Se anche un solo uomo è schiavo, sarà l’intera società ad essere condannata al servaggio e all’onta che ne deriva. Perché un paese è un corpo complesso fatto di tante membra e ai cittadini spetta il compito di mediare e incrementare le funzioni di ogni singola parte. Solo la volontà degli esseri umani, una volontà non passiva ma lucidamente indirizzata a far meglio e alla più ampia diffusione di questo meglio, permette di avanzare sul cammino della liberazione.
«Un buon governo aggiunge valore alla vita; un cattivo governo lo toglie. Possiamo permetterci che una ferrovia, così come una qualsiasi altra merce, perda un po’ del suo valore, si tratterebbe soltanto di vivere in modo più semplice e parsimonioso. Ma supponete che a perdere valore sia la vita stessa». Opera che educa, dunque, al valore della vita e a concepire in noi il bisogno di percorrerla in tutte le sue potenzialità.


(Di Claudia Ciardi)


Edizione consultata:

Henry D. Thoreau, Disobbedienza civile e La schiavitù nel Massachusetts
Einaudi, 2018.  

24 dicembre 2013

Am Schlachtensee



Foto di Claudia Ciardi ©

Am Schlachtensee

A Joseph Roth


La strada corre lungo il Mexikoplatz, una lingua verde a tratti quasi impudente per la fretta dei ciclisti. Ma io amo sorprenderne il volto gentile che si perde tra gli alberi e tenta di raccontare qualcosa come se facesse cadere dietro di sé molliche di pane, questo più di tutto mi seduce.
Prima dello Schlachtensee ci si ritrova su un’ampia curva, una morbida parentesi nell’astratto rettilineo che serra i pensieri alle fermate. Quindi lentamente affiora con le sue pagode ubriache il Mexikoplatz incagliato sul binario. Perfino la voce registrata del treno sembra per un attimo far posto a un’esotica imminente evasione, sbocciata tra le case come per gioco.
Ma per me, per me soltanto, evoca molto di più. Ben oltre l’idea del nuovo mondo giunto agli incroci della metropoli sta la vera stravaganza che me l’ha fatto immaginare assai prima di arrivarci. Parlo di un sogno in cui la città intorpidiva nell’abbaglio dell’inverno, e le strade erano poco più che una mistura confusa di orme lasciate dai passanti sulla neve. Così mi trovavo a bussare a porte e finestre, mentre le ore passavano e il tramonto trascinava con sé qualcosa di inesorabile.
Al Mexikoplatz ero infine perduta. La città, immobile e svuotata, giaceva in un riverbero azzurro che annunciava la sera. Tutto cospirava per scacciarmi, e anche l’impossibilità di rimanere, era chiaro, incarnava un’ipotesi fatale che sfiorava strani tasti della mia fantasia e una corda, cui sentivo appeso più di un episodio della mia vita. Queste sensazioni non mi hanno dato tregua neppure dopo, quando ho veramente visitato la piazza. La realtà si è messa a sparigliare le carte insinuando in quel che vedevo il dubbio di un’effettiva esistenza. Improvvisamente, la fontana, gli alberi, i vialetti secondari, le teste dei clienti nel bistrot reclamavano di essere guardati con intensità maggiore di quella che si riserva normalmente alle singole apparizioni. Già sapevano che da me avrebbero ottenuto più comprensione di quanta potessero offrirmi nell’istante in cui li ho sorpresi.
Il Mexikoplatz non si raggiunge per caso. Qui una camminata non si limita a uno spostamento nello spazio ma sembra preparare chi vi si avventura a un moto ulteriore. Per quanto mi riguarda è una tappa verso lo Schlachtensee coincidente con un sintomo del mio divagare, qualcosa di simile a un incontro che si è desiderato per molto, un oggetto indecifrabile che mentre si manifesta perde ogni potere di rivelazione e beffardamente ci rimanda ad altro. Come capita di bere e continuare ad aver sete, così ogni volta che cammino lì nei dintorni, non posso fare a meno di spingermi in avanti.
La curva docile e ombreggiata che conduce al lago e l’arco stesso che disegnano le sue rive leggermente scoscese mi ricordano il bel viale di platani che nella mia infanzia mi portava al mare. Le querce vegliano il sentiero, e il tramonto lo accende come il dorso di un drago addormentato. Di tanto in tanto un treno rotola sul binario e il bosco ne rimanda il sussulto smorzato, e qualcosa di quel battito metallico e primitivo resta per pochi attimi impigliato da qualche parte nel fitto della vegetazione. Anche il noleggio delle barche affiora senza clamore, la casetta dei due custodi appare come scaraventata in quel punto dalla distrazione di qualcuno; una staccionata di legno che invece di indicare un perimetro dà l’impressione di stare lì per assecondare le fantasticherie del viaggiatore. Se non fosse per le voci dei padroni in cui risuona un berlinese ruvido e sbrigativo, se non fosse per qualche infuocata lite a distanza tra rematori attardati e implacabili doganieri, tutto farebbe pensare a un avamposto lasciato deserto ormai da anni.
Ma non è questa ancora la meta del mio andare. Neppure qui, tra questo muro in ombra e la finestrella incollata al sottotetto, timida vedetta di una fiaba, neanche in quest’angolo riesco ancora ad avvistare un segno di quel che mi ha adescato. Da diverso tempo molte cose sembrano indicarmi un approdo seppur provvisorio ma in grado di rassicurare, che magari offra riposo, e io non so coglierlo o continuo a respingerlo, fatto è che le due cose sempre finiscono per allearsi e congiurano contro di me.
Ebbene, io sono caparbia, cerco ugualmente la mia via attraverso il coro di squillanti sirene che mi si para davanti. Non è facile superarlo, però un verso per guadagnare l’altra riva deve pur esserci. Questione di affidarsi a una buona corrente. E alla fine, a metà del lago, scorgo sopra un fitto canneto una selva di gioiose betulle scosse dal vento. Freme con la grazia di un tempio chiuso, un respiro che imparo subito e sento scendere dentro di me. Si potrebbe passare ore a contemplarla o anche un’intera vita. E il senso di aver compiuto qualcosa cancella ogni smarrimento. Per un po’ qui ci sarà pace, per un po’ si potrà restare.


(Di Claudia Ciardi)



                      

Links:

30 settembre 2013

Storie di eremiti


Red Pine (Bill Porter), La Via al Cielo. Incontri con eremiti cinesi
Ubaldini, 2013

Titolo originale:
Road to heaven. Encounters with Chinese Hermits
Counterpoint, Berkeley, 1993


Cover ©
Ubaldini di Roma offre quest'anno ai lettori italiani un affascinante libro sulla Cina. Saggio storico, politico e antropologico, il resoconto dell’americano Red Pine (pseudonimo di Bill Porter) approfondisce una materia poco nota al pubblico occidentale, ma forse di questi tempi non troppo popolare neppure presso quello orientale.

Come Alan Watts già preconizzava nel suo celebre scritto sul taoismo (La Via dell’acqua che scorre, Ubaldini, 1977), in Cina la dimestichezza con il linguaggio e le pratiche del progresso avrebbe quasi definitivamente sradicato la familiarità con gli antichi saperi. Sono pensieri simili a quelli espressi da Gao Xingjian che ho avuto il piacere di sentir parlare e conoscere qualche anno fa, poco dopo aver letto il suo capolavoro sulla Cina ‘perduta’, La montagna dell’anima, toccante pellegrinaggio di un ‘uomo senza qualità’ che nel corso della propria odissea orientale riflette sulle devastazioni del capitalismo.

Partito da Taiwan nei giorni delle agitazioni studentesche culminate nel massacro di Tienanmen, insieme al fotografo e compagno di avventure Steven Johnson, Pine raggiunge il Chungnan, l’ultima dimora degli eremiti. Figure chiave nella società cinese, custodi di saperi millenari, gli eremiti sono stati di volta in volta allontanati dal potere ufficiale e chiamati ad affiancarlo. Pine ci riporta alle origini di questa storia e precisamente nel sito neolitico di Panpo, a est di Sian, abitato fin dal quinto millennio a. C. e dove sono stati rinvenuti resti importanti di culture sciamaniche. Alla comparsa dell’urbanizzazione e della stratificazione sociale lo sciamanesimo entrò in crisi e la sua eredità venne gradualmente assorbita da uomini e donne che contestavano la burocrazia della corte e l’esercizio politico privo di virtù. Presso i cinesi gli eremiti hanno sempre goduto di una particolare venerazione in quanto depositari di quel passato spirituale che ha continuato a restare vivo anche in seguito all’avvento della civiltà.

«Quando gli imperatori, i re, i capi dei clan e i capofila della cultura arcaica cinese avevano bisogno di entrare in contatto con le forze naturali, con gli dèi oltre le mura cittadine e all’interno del cuore umano, essi si rivolgevano agli eremiti. Gli eremiti potevano parlare al cielo. Ne conoscevano i segni, ne parlavano il linguaggio. Gli eremiti erano sciamani e indovini, erboristi e medici, adepti dell’occulto e del manifesto. Il loro mondo era ben più vasto di quello circoscritto dalle mura della città. Distaccati dai valori imposti dal capriccio o dalla consuetudine, gli eremiti erano restati parte integrante della società cinese per la loro fedeltà ai valori più antichi della propria cultura».

Talora il potere si è rivolto a questi saggi per trarne consiglio, ritenendo che l’insegnamento taoista fosse l’unico in grado di ispirare il buon governo, e anche, caso affatto raro, per convincerli a interrompere il loro volontario esilio in mezzo alle montagne e a tornare in città nelle vesti di cortigiani, ministri o eredi del regno. La storia degli eremiti diviene dunque una straordinaria allegoria dell’opportunità di conciliare le opposte esigenze di isolamento e impegno pubblico, un dibattito che nella cultura cinese si è sempre rivelato estremamente vivace. Non sorprende quindi che la descrizione di questi tipi affascinanti di maghi, poeti, guaritori e profeti si accompagni a un dettagliato resoconto di storia delle dinastie imperiali e coevi sviluppi del pensiero taoista e buddhista. Durante la sua esplorazione dell’Huashan (Montagna Fiore) Red Pine ripercorre le orme dei primi maestri che qui si ritirarono e la misteriosa sacralità che da millenni circonda i loro romitori, nascondigli impervi destinati a restare inviolati, da cui osservare con distacco i rovesci delle epoche.

«Lo Huashan ebbe lo speciale potere di attrarre venerazione. La sua forma era unica fra le montagne. E scalarla richiedeva grande coraggio e grande desiderio, desiderio non della carne ma dello spirito. Perché lo Huashan fu uno dei primi centri spirituali della Cina, un luogo dove gli sciamani venivano in cerca di visioni».

La camminata di Pine registra i diversi ‘umori’ della montagna, dalla profanazione di numerosi santuari a opera delle Guardie Rosse alle preoccupazioni dei monaci che, nelle maggiori aperture concesse dal governo alla religione, leggono solo l’attaccamento a un utile economico: riempire i templi di visitatori. Mentre Pine stende i suoi appunti di viaggio, in molti santuari si procede infatti a lavori di restauro e ricostruzione. L’opera di ripristino comprende anche le capanne degli eremiti, la maggior parte abbandonate durante la Rivoluzione Culturale. Ma per tutti gli adepti sia delle pratiche taoiste che buddhiste, le quali proprio sui monti Chungnan si erano notevolmente estese, raggiungendo un pari livello di profondità ed elevazione, il pericolo incombente consiste nella dipendenza dai fondi governativi. Ricevere sostegni dal governo significa condannare a morte l’identità spirituale dei templi, semplicemente perché ogni sussidio genera un obbligo verso i programmi di Stato, che prevedono la riconversione dei siti in attrattive turistiche.

Nel ricordare le impressioni del buddhista Kao Ho-nien che visitò questi luoghi nel 1904, parlando della loro serenità e solitudine, Pine si interroga, alla fine dello stesso secolo, su quanto sia rimasto dell’atmosfera catturata da quell’attento pellegrino. Viene anche da chiederci, a distanza di altri vent’anni dal diario di Pine, cosa resti dei volti gentili e sorridenti che fanno capolino da queste pagine e se la situazione sull’Huashan come in altri luoghi di culto sia migliorata o soffra le conseguenze di sempre più radicali atteggiamenti consumistici. Grazie alla preziosa testimonianza di diversi monaci, raccolta per via, Pine ridisegna una geografia ‘sepolta’ dalla quale affiorano pressoché intatti racconti, tradizioni e sembianze. Alle vette del Chungnan, definito dagli antichi “l’avo di tutte le montagne”, appartengono esploratori che si sono spinti fino all’India, sfidando pericoli e poteri avversi, festeggiati al loro ritorno come eroi dagli imperatori cinesi; religiosi che, mettendo in gioco la propria vita, hanno difeso i templi dalle distruzioni delle Guardie Rosse; miti custodi impegnati nel salvataggio di un patrimonio culturale millenario insidiato da un nemico ancor più temibile della Rivoluzione Culturale, il materialismo. I maestri ottuagenari incontrati da Pine, scacciati dai loro eremitaggi sulle montagne a metà degli anni Cinquanta, manifestano non di rado una certa rassegnazione per l’aridità dei tempi e anche un senso che non è esagerato definire di sconforto riguardo il destino delle loro più segrete esperienze. Le storie di questi asceti rappresentano l’estremo presidio di una volontà diversa, orientata a valori alternativi e contrastanti rispetto all’agonismo, ai condizionamenti dettati dai desideri e dalla pratica del potere. Perciò, al di fuori del contesto cinese, le biografie degli eremiti divengono il segno di una necessità, probabilmente innata negli uomini, di agire lontano dal clamore, di saper essere interpreti e attori della società anche, e soprattutto, prendendo le distanze dai suoi insanabili conflitti. E forse, l’unica possibilità di esprimere un punto di vista in grado di incidere nel profondo e rovesciare i troppi pregiudizi che inibiscono l’azione, viene proprio, paradossalmente ma neppure così tanto, da chi più ha coltivato i semi dell’immobilità e della solitudine.

(Di Claudia Ciardi)

Anche su sololibri.net:
Red Pine, La Via al Cielo


* Foto di Claudia Ciardi © prese autorizzate dal personale della mostra



Testa maschile in bronzo della dinastia Shang (1600-1046 a. C.) 
Fossa sacrificale, sito di Sanxingdui, prov. Sichuan
Roma - Mostra di Palazzo Venezia, 2013 ©



Testa maschile in bronzo con maschera a lamina d’oro - dinastia Shang
Roma - Mostra di Palazzo Venezia, 2013 ©



La Montagna dell'anima di Gao Xingjian.
In copertina una sua illustrazione: Il volo della notte



Powered By Blogger

Claudia Ciardi autrice (LinkedIn)

Claudia Ciardi autrice (Tumblr)

Related Posts Plugin for WordPress, Blogger...