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31 maggio 2021

Invisibili incanti


Sul filo di apparizioni incerte, momentanee cui talora capita di sentirsi più vicini, lievi tracce disseminate nel vivere che a volte riusciamo a cogliere e salvare scendendo a un maggior grado di profondità, nascono gli invisibili incanti di Filomena Ciavarella. Versi che ritraggono la meraviglia di delicati prodigi – lo schiudersi di un fiore, il cadere lento della luce all’imbrunire, certi aromi di un’ora – una silenziosa epica quotidiana apparentemente senza importanza, ma che proprio attraverso la sua intangibile trama gettata sulla realtà ne rivela l’intima sostanza.

Se infatti la parola incantare, da cui deriva l’italiano incantesimo, è un cantare dentro e sopra le cose per rianimarle e suscitarle a una qualità benefica, germinante, precognitiva, questo carattere appartiene senza dubbio alla scrittura dell’autrice, che ora lambisce i toni di una preghiera, ora tocca le formule di una benedizione o il mistero di un sogno in veglia.

Classe 1965, insegnante di filosofia e traduttrice di alcuni grandi nomi della letteratura anglosassone, tra cui Emily Dickinson e William Butler Yeats, Filomena Ciavarella costruisce sui contatti tra linguaggio filosofico e poetico la base delle propria ricerca, un dialogo serrato quanto stimolante che ha la virtù di riportarci al nucleo delle parole, alla loro genesi stratificata, poliedrica, metamorfica. E proprio in questo rigoroso andare alle radici del “séma” (σῆμα), all’unità minima significante che è avvolta dalle leggere ma tenaci tessiture del dubbio e della rivelazione, consiste il rifiuto di un comunicare istantaneo, affrettato, ripetitivo che finisce per svuotare tutto di senso.

Rita Bompadre con la sua attenta lettura ci introduce alla scoperta di questa meritevole opera, invitandoci a seguire l’autrice, molto attiva anche nel contesto internazionale, in un costante impegno per la diffusione della poesia.

(Di Claudia Ciardi)



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Versi per l’invisibile di Filomena Ciavarella (Transeuropa Edizioni, 2020) è una raccolta poetica che segue il destino del filamento indelebile dell’anima, il retaggio celebrativo dei sentimenti, nascosti e protetti nell’impercettibile speranza della comprensione umana, dilatati nel limite dell’inclinazione delicata della poetessa che difende la persuasione di vivere oltre la mediazione delle sconfitte e la consapevolezza dell’angoscia.
I versi ricompongono laceranti sofferenze, indicano il senso compiuto e puro di ogni confessione emotiva, analizzano le traiettorie primordiali dell’autobiografia, ispirata e conservata nel giudizio del profondo vissuto, trasportano il bagaglio sentimentale della poetessa alla stabilità dei ricordi e percepiscono la resistenza dei rapporti affettivi.
La qualità espressiva della poesia è funzione e proprietà esistenziale, estende pagine diffuse nel prolungato e accorato elogio all’amore, nella generosa consistenza della memoria e nell’istintiva intimità di luoghi, di persone amate e di assenze sofferte. La poetessa destina la sua viva maturità nell’evidenza dei valori smarriti in cammino e in pena per l’allontanamento continuo delle voci partecipi, condanna la freddezza del distacco sostenendo la tenerezza, ripercorre la vicinanza ritrovata con rara poesia. La suggestiva ossessione del sentire e della passione guida i pensieri, allinea la spontanea complicità della presenza amorosa, dona l’interiorità e la corposità di ogni intesa sensibile.
Una poesia dedicata al raccoglimento nella concentrazione del silenzio e nella benedizione degli avvenimenti privati, dove la parola diventa la forma di comunione assoluta con i legami vitali più duraturi. Il fine universale e sensoriale delle poesie di Filomena Ciavarella rafforza la percezione della libertà creatrice e mantiene la stabilità delle sensazioni nell’azione immanente dell’agire in nome dei desideri per superare gli ostacoli.
Versi per l’invisibile trasforma il passaggio transitorio della causalità dei comportamenti umani adeguando l’analisi delle conseguenze nella loro graduale sparizione dalla regione dell’indifferenza. L’invisibile è la dimensione di ogni lieve sguardo sulla inafferrabile lontananza. La poetessa dedica la natura estetica della sua poetica alla conciliazione del senso, all’insieme strutturato degli intenti di esplorazione, incisivi e contenutistici, incoraggiando l’aspetto della conoscenza e la rappresentazione della realtà.
Una poesia naturale, un’esigenza quotidiana di bellezza, in cui la materializzazione delle paure e la manifestazione delle visioni interiori permettono di consumare la parola scritta nell’istinto alla ricorrenza della vita. Nella tormentosa incertezza del futuro l’oscillazione inavvertibile del tempo muove la curva della poesia nello spirito rivelato della memoria, sconfinando la distanza di una consuetudine disincantata nella volontà dei versi e nel continuo attraversamento di ogni ombra, nella superficie di ogni coinvolgimento.

(Di Rita Bompadre – Centro di Lettura “Arturo Piatti”)

***

Filomena Ciavarella, Versi per l’invisibile, Transeuropa Edizioni, 2020

***

 

Testi selezionati da Rita Bompadre, tratti da Versi per l’invisibile:


Serraglio d’amore

Un lieve serraglio d’amore
mette il laccio al tramonto
come una bella di notte
che nel suo intimo chiude
l’ultimo raggio di luce
E nella sua gemma preziosa
attende,
attende silenziosa
la nascente aurora.


Incerta bellezza

Incerta è la bellezza
È un filo d’erba nella stanza
Non lontana da te
Tenue come piuma al vento
Prima di volare via
Ancor più candida nella memoria
Da quando l’invisibile
l’ha presa con sé.

 

Lettera d’amore


Le voci sonore all’imbrunire
Fanno eco dove si svuota
l’estasi nel lento cadere
della luce
in uno splendido
volo su bianche ali
di cigni nella notte
Si rivelano antiche
danze di tempi andati
nel vento odoroso di menta
sulle scie che primavera
lascia nel suo canto innocente
È la più bella lettera d’amore
che il tramonto consegna
all’oscurità.

 

Il cerchio fra le dita


Tra le dita teniamo
il cerchio
per rendere l’ignoto
al suo arco
Lo accarezziamo,
fino a quando si leverà
in un luogo senza – luogo
e la matassa troverà il filo
come fiore sotto il cielo
E la folgore ardente il senso
sulla vela del sudario.

 

Fu così che si son piantate le viole

Fu così che si son piantate le viole
Sono vive nel deserto della notte
I petali raggiano l’inafferrabile
Sulla soglia tremano
nel giorno
che sempre si smarrisce.

Ed è così che si son piantate le viole
negli occhi fermano
la notte
arrivano da un fiume millenario
sulle strane pendici
dell’invisibile.

22 novembre 2016

Heidegger nella Grecia sequestrata





Con Paolo Zignani, amico e collaboratore occasionale di questo blog, mi sono data nelle ultime settimane un compito interessante e per nulla semplice: rileggere il resoconto scritto da Martin Heidegger in occasione del suo primo viaggio in Grecia. Il filosofo, fin dal titolo, avvisa il lettore. Non addomesticherà il suo peregrinare nelle forme accondiscendenti e un po’ assonnate della consueta narrazione diaristica – men che meno assecondandone derive consumiste più che familiari a noi figli sballottati dalla globalizzazione – ma ci offrirà una permanenza (in tedesco Aufenthalt). Stilettata filologica non da poco, che c’impone il tempo della sosta, cioè apre la spazialità a una precisa dimensione cognitiva. Lo spazio, dunque, come incubatore di pensiero. In scia con quel che il filosofo teorizza negli Holzwege, sentieri come vie di conoscenza; che si perdano o meno, favorendo la nostra stessa attitudine all’incompiutezza, è del tutto secondario, anzi forse perfino più coerente del palesarsi di una meta.
Si tratta in questo caso di una memoria assai densa. Non inganni la brevità del testo; la Grecia e il fraseggio che Heidegger costruisce attorno ai suoi monumenti danno luogo a un’architettura complessa che implica, da parte del lettore, più di un ritorno. E mi riprometto, infatti, di dedicare un ulteriore intervento proprio ai contenuti di questo affascinante librino che, allinizio del millennio, ci interroga senza vedersi superato in alcuna sua proposta. 
Negli ultimi anni, ci siamo abituati a veder entrare la Grecia nel nostro orizzonte di europei in preda a crampi identitari, parlandone unicamente in funzione delle nostre crescenti isteresi. Pertanto, facendo violenza a quel che la Grecia ha significato sotto il profilo culturale e che tuttora significa. Anzi, la Grecia sembra inserirsi esattamente in queste crepe occidentali, non come immagine in grado di rassicurare, cosa che invece ci si aspetterebbe da una culla di civiltà, ma semmai contribuendo all’inquietudine. E di ciò siamo responsabili noi in prima persona.
Prendiamo l’ultimo incontro politico in terra ellenica. Il presidente americano, reduce dalla sconfitta della sua candidata alle elezioni, ha inteso rafforzare la sua immagine di paladino della democrazia, scattando una foto di circostanza sull’Acropoli. Su di lui incombeva la responsabilità di una disfatta in patria e lo spettro, mai esorcizzato, di un popolo messo a dura prova dall’austerità, proprio lì, ai piedi di quella millenaria bellezza monumentale. Stridente il messaggio che si è voluto lanciare, tanto più che al tavolo del giorno dopo, a Berlino, Tsipras era già uscito di scena, relegato nelle sue turbolenze egee. L’ho trovata una scelta sbagliatissima e diciamo pure offensiva. Rilanciare la democrazia significa, adesso soprattutto, portare Tsipras ad ogni tavolo. Mentre la Grecia continua a dividere e a mettere in rilievo tutte le nostre imbarazzanti contraddizioni.
Tra le tante riflessioni che Zignani mi ha inviato nel corso della stesura del suo articolo, vorrei condividere un passaggio in particolare, perché esemplificativo dell’orientamento di quanto ha scritto: «La Grecia è stata, per così dire, sequestrata. L’industria del sapere prende il posto dell’autenticità e l’inautenticità non perde occasione per esprimere la sua tipica “dittatura” (è la traduzione di Pietro Chiodi). Secondo me quei riferimenti all’essere sociale e ai suoi modi d’essere, e al mondo del lavoro (curiosamente ce ne sono) si fanno più significativi negli anni successivi. È un argomento forte. Heidegger cercava anche lui una terza via non capitalista né sovietica per un’ontologia che avesse anche un senso per la vita. Si può parlare di una qualche forma di “critica sociale” da parte di Heidegger? Per me sì. Non credo che per Heidegger possiamo solo raccontare: quel suo vitalismo, che detesta tanto la storiografia, la cultura fatta con le tradizioni culturali e i libri polverosi, vuol prendere possesso della vita autenticamente; l’ontologia intende stravolgere la vecchia metafisica».
Per quanto mi riguarda, ha colpito la mia attenzione il fatto che il filosofo tedesco parli della Grecia, tutta, come isola. In questo suo viaggio persegue una rappresentazione “isolana”. Ora diciamo che il territorio ellenico è in buona misura insulare ma non è comunque solo questo. E tuttavia il punto di vista del viaggiatore nordico si concentra su tale “metafisico” peregrinare isola per isola, ognuna con la propria grecità e stratificazione storica. Quasi che i singoli approdi siano chiamati a dare concreta visualizzazione all’avventura del pensiero in cerca del proprio centro.
Tra gli altri, il passaggio sull’asiatico è forse il più notevole. A quel punto della lettura lo snodo oriente-occidente staglia la Grecia nella sua perenne dimensione di ponte, inteso ancora una volta in senso conoscitivo.


(Introduzione di Claudia Ciardi)


Heidegger nella Grecia sequestrata
di Paolo Zignani

Heidegger aveva messo tra parentesi la Grecia reale, per sostituirla con la poesia di Hölderlin e con sofisticate interpretazioni dei filosofi ateniesi, e il contraccolpo sopravviene implacabile, per la necessità di un intervento personale, un’intrusione dell’ontico capace di causare uno dei cortocircuiti che la sua filosofia, per quanto anti-idealistica, sa sprigionare nell'urto con la realtà. Il filosofo ha sentito il bisogno di andare oltre, preso dalla speranza di un nuovo inizio, che la sua filosofia non poteva dare. Di qui la necessità di un impegno personale, ma privatamente, in viaggio con la moglie. C’è un’ansia nel pensiero di Heidegger, che non vuole fare della filosofia ma dedicarsi all’essere. Invece, di nuovo, incontra una dittatura. Il desiderio di emancipazione – insopprimibile - ha necessità di rinnovarsi, altrimenti prevarrà la furia autodistruttiva dell’umanità.
L'unica dittatura denunciata da Martin Heidegger è stata quella dell'inautenticità, che si può esercitare solo perché la questione dell'essere è stata accantonata, in uno scenario tormentato. Kant poneva, in una famosa pagina della Critica della ragion pura, fra Analitica e Dialettica trascendentale, l'esistenza di un'isola della verità, dove vigono le norme dell'intelletto puro, circondata dall'oceano tempestoso delle parvenze. La condizione umana sembra molto più complicata in “Essere e tempo”. L'estraniazione è il modo di essere del Si, che è la dimensione della vita quotidiana impersonale: espropriato da sé per la sua debolezza, l'uomo, quando sopporta d'essere autentico, si apre a un qui e a un con chi fare storia: lo attende però una difficile battaglia. Strappato dalle sue radici, perso tra le cose, strumentalizzato dalla tecnica, l'uomo si accorge di far parte di un mondo in cui non è altro che un oggetto, un mezzo, a causa dell'organizzazione economica, politica e sociale, in una dittatura impersonale, implicita, che distrae continuamente e impone discontinuità all'Esserci, autoaffermandosi spontaneamente senza bisogno di legittimazione e di motivazione. Heidegger descrive nei suoi tratti ontologici la disponibilità umana alla sottomissione inconsapevole e anonima, con la sottrazione della Cura. Permane la tendenza al mimetismo del Si inautentico privo di sé. L'analisi del dominio della tecnica, però, nella "Questione della tecnica" (1953) dimostra che l'estraniazione è ben più vistosa e accompagnata dalla consapevolezza dello sfruttamento della natura, esseri umani compresi. L'inautentico inoltre sostituisce l'autentico e viceversa, questo è l'evento che avviene in un ritmo di cadute e riappropriazioni imprevedibili: uno scambio, non tra due realtà diverse e nemmeno in una relazione di circolarità ermeneutica che passi per organizzazione della conoscenza, nascondendo in realtà conflittualità non s'appianano. E' forse l'autentico a descrivere questi processi, ma una simile meta-fenomenologia non viene a parola. Senza l'autenticità l'Esserci si smarrisce: l'autenticità si fonda però su un discutibile concetto di storicità. Tra l'individuo e la storia non c'è infatti una relazione così diretta e immediata, se non nella prospettiva difficilmente comunicabile dell'individuo e delle sue relazioni: le autenticità come possono "comunicare", nella storicità comune, se non mediante la storiografia? Heidegger segue invece un vitalismo antistoriografico. La storicità comune incontra così il limite di una storicità autentica ma privata e incomunicabile. L'Esserci è un essere storico, e tuttavia in quanto mortale progetto gettato, non può far altro che aprirsi alla scelta delle possibilità tramandate, senza che la storiografia debba per forza occuparsene: l'autentico può non far rumore e non lasciare alcuna traccia. L'inautenticità invece è molto più organizzata e aggressiva, è pubblica, di massa, priva di soggettività, lavora inconsapevolmente per l'industrializzazione del mondo, mentre l'autenticità, malgrado il carattere originario e imprescindibile dell'essere-assieme - entra in azione soltanto nello scenario della vita individuale e rende soltanto possibile l'essere assieme storico autentico. La dittatura dell'inautentico produce una storiografia, che riesce a sostituire agevolmente, commercialmente, la storicità autentica e la conoscenza autentica che l'accompagna e che non necessariamente diventa storiografia dominante. L'ontologia esistenziale è inoltre un ritmo che si ripete, con due fasi che si alternano con variabilità imprevedibile. Quando l'Esserci diventa se stesso si ritrova ad appartenere all'Essere e deve affrontare la propria storicità prendendo la "decisione anticipatrice". Il -ci viene annullato in questa autenticità. L'Esserci viene richiamato nella storia, ovvero nell'istante in cui si confronta con le possibilità che gli vengono tramandate. Inevitabilmente l'Esserci ricade nel -ci, dove dovrà disperdersi tra le cose fino a quando la chiamata della cura, un silenzio angoscioso, lo riporterà di nuovo al suo destino di essere storico. Con questo ritmo l'Esserci si sposta nelle e fra le dimensioni della temporalità deformandosi come il tempo stesso. Struttura precaria ma complessa che si riconfigura continuamente, l'Esserci si realizza nell'anonimato di massa e poi si appropria di sè, annullando però la vita quotidiana. L'Esserci passa dalla dittatura del Si anonimo alla "decisione" (il suo destino) che lo rende libero e autentico. La chiamata della cura lo modifica all'improvviso. E' un flusso di modalità temporali ed esistenziali che si intrecciano congiungendo futuro e passato e abbandonando l'idea metafisica di soggettività sostanziale e di temporalità lineare.
Allora perché visitare la Grecia, se è la storicità autentica a farci comprendere il linguaggio in cui abitiamo, il linguaggio dell'Aletheia? Se è silenziosa la chiamata della Cura, perché il silenzio diventa lingua greca? Se poi la poesia di Hölderlin disvela l'eredità dell'antica Grecia, perché partire fra i turisti? Quando Heidegger nel 1964 visita per la prima volta la Grecia, la trova per così dire sequestrata, interpretata, come sostituita con una copia, invasa da un esercito nemico. Heidegger è inevitabilmente critico, viste le premesse, verso il sistema economico-politico nel diario di viaggio che dedica alla moglie: "Una potenza estranea aveva preso possesso di quella terra con il sistema delle prenotazioni e dei viaggi organizzati". E' l'industria del turismo che s'impone e allontana da "ciò che è", rendendo "incapaci di pensare alla frattura che separa l'oggi dallo ieri e di riconoscere il destino che regna nello spazio di questa frattura". "La tecnica moderna e, con essa, l'industrializzazione del mondo attuatasi con l'ausilio della scienza, si apprestano, con il loro elemento inarrestabile [Unaufhaltsames] a dissolvere ogni possibilità di soggiorno [Aufenthalt]". Non resta alcun luogo nel mondo industrializzato, amministrato, dominato dalla pianificazione calcolante, non c'è possibilità di pensare l'elemento greco, addirittura ci si sente in ogni luogo a casa propria; ma in che modo? Con l'aiuto della tecnica, come chi scatta fotografie "rinunciando alla propria memoria per sostituirla con un prodotto della tecnica". L'uomo è sostituito, messo da parte, la sua esperienza e la sua storia non servono più, soprattutto non è utile la sua decisione, la sua esistenza personale, caratterizzata e vitale. Oggi non si può soggiornare, dimorare, abitare, l'Esserci è nel mondo ma senza esperienza reale. Non si può nemmeno evitare di confrontarsi con la violenza dell'essenza della tecnica. Torna il confronto anche con l'elemento asiatico (pag. 38 di "Soggiorni. Viaggio in Grecia", ed. Guanda), ovvero probabilmente l'Unione sovietica e il rischio di una guerra atomica che distrugga l'umanità. Inevitabile quindi che la “chiamata” della Cura assuma un’altra forma.
L'industrializzazione, oggi, dopo Heidegger, è ancora più invasiva: ha conquistato ogni attività, l'elaborazione e diffusione del sapere, ha trasformato l'economia e ogni esperienza del mondo, occupato il tempo libero, colonizzato la socialità, trasformandola con dei programmi informatici. Sembra ad Heidegger che occuparsi della Grecia antica sia qualcosa di irreale. L'industrializzazione oggi appare più differenziata e caotica, capace di generare o sostenere nuove singolarità, meno trionfante eppure ancor meno contrastata. Heidegger non vede la crisi dell'industrializzazione stessa, una crisi continua, vede l'uomo "misero e confuso", in balia di un "progresso senza futuro". L'industrializzazione si rivolge a un consumatore che ha le stesse caratteristiche dell'inautenticità. L'inautenticità infatti fa sì che l'individuo sia sradicato, privo di un suo tempo e luogo, attivo anonimamente, confuso con gli altri, solo in una dimensione universale, in cui ogni tempo e luogo si equivalgono: è il fenomeno dello sradicamento, una delle categorie "abusive", non dichiarate, non fenomenologiche ma storico-culturali, che ricorrono clandestinamente in "Essere e tempo". 
Il § 27: «Nell'utilizzazione di pubblici mezzi di trasporto, nell'impiego di mezzi d'informazione [giornali n.d.r.] ognuno è altro fra gli altri. Questo esser- 'l'un con l'altro' omologa completamente il proprio esserci al modo d'essere "degli altri", e fa in modo che gli altri scompaiano ancora più nella loro diversità e nella loro distinzione. In questa non vistosità e non-constatabilità il Si dispiega la sua autentica dittatura» (pag. 185 trad. Marini, Oscar Mondadori) .
È questa la dittatura segnalata da Heidegger, che estrania e sradica l'Esserci, anche se l'inautenticità è tutt'altro che un fenomeno negativo: è la modalità forse prevalente ma provvisoria, destinata a uno scambio ritmico e imprevedibile con l'autenticità, possibile solo nell'intreccio di modalità temporali differenti e simultanee. La "chiamata della Cura" però è silenziosa. L'autenticità può interrompere il flusso delle chiacchiere in solo modo, con il silenzio. L'inautentico non ha territorio ed è sradicato, essenzialmente, dalla storia, perché la temporalità autentica gli rimane estranea. L'autentico invece ripete la possibilità ereditata nella lotta comune (paragrafi 72-75): la storicità autentica svela l'essere nel mondo autentico. Solo l'autentico ha un rapporto con territorio. È la temporalità autentica a disvelare l'ambiente in cui si trova l'Esserci. La storicità semmai si attua con questa lotta alla tecnica, nel tentativo che potrebbe ripartire dall'elemento greco, ammesso che si possa manifestare in modo genuino. L'inautentico mette l'uomo in balia dell'industria, del Gestell, della “imposizione”: Heidegger non vuole istituire il collegamento, che violerebbe la purezza della descrizione fenomenologica delle strutture esistenziali. Di fatto però, nel viaggio in Grecia, la curiosità dei turisti rende ancora più invasiva l'industria del turismo e l'esperienza della percezione dei monumenti di Atene diventa impossibile. L'inautenticità si rivela allineata all'industrializzazione del mondo. L'inautenticità consuma prodotti industriali, vive come deve vivere un consumatore, innanzitutto di informazioni. L'industria consente a ciascuno di produrre copie dell'ente alla mano, assecondando così l'avidità di possesso del Si inautentico, che vuol aver già visto e saputo tutto, in modo che nulla resti nascosto e misterioso. Non essendo nessuno, desoggettivato, è pervaso da un desiderio incontrollato e pantagruelico. È un desiderio di dominio: l'individuo desidera sentirsi al sicuro, avendo il controllo del suo mondo, poiché conosce ormai tutto. Il Si inautentico vuole impadronirsi di un mondo ma vive in una finzione e l'industria gliene fornisce i mezzi tecnici. Quel che conta però è che ciò che è visto è posseduto, lo si può quindi riprodurre: la tecnica è già attiva nel Si. L'industria così si afferma grazie a una volontà ben precisa di strumentalizzare le tendenze dell'inautentico: l'autenticità invece non incontra il mercato. E l'economia appassiona l'inautentico.
Soggiorni. Viaggio in Grecia. A pag. 49: «Ciò che oggi chiamiamo mondo è lo sterminato groviglio delle apparecchiature tecniche di informazione, che si è imposto alla physis intatta prendendone totalmente possesso, ed è ormai possibile conoscere la natura e intervenire sul suo funzionamento solo secondo un calcolo».
Heidegger prende le mosse dal vitalismo e dalla necessità di un'esperienza e di una decisione personali, non dal bisogno di una documentazione storiografica accurata. Questa eccezionalità dell'individuo si trova però a confronto con sistemi sociali ed economici organizzati per rivolgersi a un pubblico di massa. Il mondo è espropriato da una potenza anonima che funziona automaticamente, proprio come l'Esserci perde se stesso nell'inautenticità, che lo consegna a un gioco infinito e tuttavia insensato di rimandi da un ente intramondano all'altro. Questa pianificazione calcolante è tanto umana che disumana: l'Esserci si intrappola nel sistema razionale che ha creato con la forza della ragione. Il mondo vuoto di senso, abbandonato dagli dèi, dove i templi greci non riescono a esprimere l'elemento greco nella compagine delle percezioni, è proprio il mondo creato dagli uomini. L'umanità si auto-aliena, si auto-espropria, inconsapevolmente, seguendo semplicemente il proprio modo di vivere quotidianamente, che la allontana dall'Essere, dalla physis, dalla Grecia antica. Nulla è accaduto per colpa dolosa né per caso: Heidegger individua un'assunzione di responsabilità, non accusa un dominio ostile o una moderna forza di tirannia. La forza di questa desolazione è l'anonimato, il protagonismo di una folla coinvolta dalle operazioni degli apparati industriali che hanno trasformato il mondo in un meccanismo che a nessuno appartiene se non alla razionalità. Ma davvero non c'è un colpevole? Non c'è sfruttamento e tirannia? Sfruttamento e tirannia, classi dominanti, fanno parte della ratio dispiegata. Così il mondo è sparito: l'Essere è assente, quindi anche l'uomo perde senso, dominato dal suo razionalismo. L'inautenticità, modalità esistenziale, rende insuperabile l'industrializzazione con la quale si declina spontaneamente.


(Di Paolo Zignani)



Edizione consigliata:

Martin Heidegger,
Soggiorni. Viaggio in Grecia,
Guanda editore, 2012


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4 dicembre 2014

Holzwege - Questione di sentieri





La seguente riflessione nasce attorno a una frase di paternità ignota che, va detto, non è proprio un esempio di chiarezza anzi, posto che si venga in qualche modo rassicurati sul senso, non è del tutto condivisibile, ma invitante comunque a sviluppare un ragionamento sul camminare.
«Sulle montagne si possono trovare centinaia di sentieri che portano tutti nella stessa direzione, non importa quale decidiate di prendere. L'unica perdita di tempo è quella di colui che cammina in lungo e in largo, dicendo a quelli che incontra che il suo sentiero è sbagliato».
Riporto le voci dei tre commentatori sotto forma di variabili. 

x: Perplesso.
y: A che proposito? 
x: Riguardo la temerarietà delle affermazioni.
z: Che si imbocchi il sentiero "giusto" o quello "sbagliato", il passaggio delle nubi sulle montagne non delude mai.
x: L’errore grave di questo scritto è che nella natura le parole giusto e sbagliato sono senza virgolette.
y: Sbagliato senza virgolette, la parola "giusto" non c'è. Ho cercato questo scritto un po' dappertutto ma non ho trovato una vera e propria fonte.
z: Le virgolette stanno a indicare la relatività di due concetti che, come dici tu, non sono per l'appunto dati in natura e neanche nella vita dell'essere umano. Cosa sia giusto o sbagliato nessuno lo sa, il bello è mettersi in cammino.
x: Veramente ho scritto proprio il contrario. Ma va bene.
In natura se si prende il sentiero giusto si torna a casa. Se si piglia lo sbagliato è meglio, se c’è nebbia, avere il sacco a pelo. In Italia escono ogni anno 13000 titoli nuovi circa.
[L'incauta “z” aveva avuto l’ardire di presentarsi poco prima come soggetto in forze all’editoria]
z: Lo dirò senz’altro al mio editore. Quanto ai sentieri, mi è capitato più di una volta di imboccare quelli sbagliati, ma quando ormai pensavo di essermi persa, ogni volta mi sono ritrovata in un luogo assai migliore.

Al di là del tono di fondo piuttosto pugnace, e la materia non mi pare cosa su cui accalorarsi, questo breve confronto mi ha stimolata a scriverne. È evidente che “z” gioca sul filo della metafora. Assurdo sarebbe infatti prendere alla lettera la frase citata all’inizio. I sentieri in montagna non vanno affatto nella stessa direzione, alcuni si perdono nel nulla, altri sono semplicemente impraticabili per le ragioni più diverse. Invece, postulando che alla base dell’affermazione vi sia l’idea che il viaggio è bello per sé, e dunque vale la pena affrontarlo, anche se questo comporta incertezza e forse perfino incoscienza, allora l’insieme del discorso diviene più congruente. Nell’identico procedere dei sentieri verso la meta, bisogna leggere, credo, quel pungolo a mettersi in strada che l’essere umano, qualsiasi sia l’epoca o la latitudine di provenienza, possiede come uno dei suoi istinti. 
È curioso che nel dialogo riportato, la necessità di accogliere sotto forma di metafora quanto si dice non venga presa in considerazione. Ma vi è pure un ulteriore aspetto che sollecita a soffermarsi sulle parole. “Giusto” e “sbagliato”, virgolettati per introdurre alla via metaforica, sono certamente due concetti basati sull’esperienza umana. Quindi, anche fuor di metafora, dire che in natura le virgolette non ci sono equivale a sostenere che il cielo è azzurro; sì, azzurro al nostro occhio. La natura, dal suo punto di vista, non contempla affatto questi due concetti. L’uomo con il fraintendimento che ne deriva, glieli affibbia in totale disinvoltura. Del resto è l’unico modo che ha per immaginarla. Considerarla anche solo parte del suo ragionare, per quanto polo opposto e incomprensibile e depositario di forze minacciose, implica da parte sua l’inserimento in un sistema di pensiero che da se stesso volge all’esterno.
L’uomo traccia le sue strade, interiori e reali, ovunque ritenga opportuno, a volte non senza forzature o aggressioni; anzi proprio da questo atteggiamento spesso manchevole della ricerca di una complicità con la natura, ossia di far arretrare se stesso, vengono nefaste conseguenze. Dunque, socraticamente parlando, cosa sono il giusto e lo sbagliato in assoluto l’uomo non è in grado di saperlo. Cosa siano per la natura è domanda priva di fondamento, perché presuppone vestire la natura di panni che non può indossare.
E siccome, benché s’illuda, la riflessione umana è necessariamente limitata, sarà pure il caso di non interrogarsi troppo su quelle vie che, almeno in apparenza, non ci portano a nessuna meta. Ce le ha descritte magnificamente Martin Heidegger, battezzandole Holzwege, alla lettera “sentieri del legno”, in quanto servono ai boscaioli a portare la legna fuori dal bosco e quindi si interrompono dove gli alberi sono stati tagliati. Con tale metafora Heidegger voleva affermare che non esiste un’unica via per pensare, ma che tutte hanno una loro utilità e legittimità.

(Di Claudia Ciardi)


Torre di Caprona - Monti Pisani

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