26 aprile 2015

Intervista ad Alibi


Da circa tre anni il collettivo di «Alibi Rivista» coordinato da Ciro Maiello offre sulla scena letteraria un’interessante raccolta di voci che si caratterizzano per la loro volontà di produrre qualcosa fuori dagli schemi. È stato quindi un grande piacere per me prendere parte ai lavori dell’ultimo numero. Al di là della pubblicazione infatti, si è instaurato un clima molto positivo di confronto e stimolo alla scrittura.
Questa fucina particolarmente vivace, pur nelle non poche difficoltà organizzative che attraversa, mi ha ricordato la mia prima esperienza redazionale nei panni di studentessa di lettere, quando si portava avanti con mezzi più che precari, per non dire improbabili, una fanzine sui generis sdoganata come avanguardia. Parola che su di me esercitava a quei tempi una strana attrazione, poi in seguito molto ridimensionata, o meglio ridefinita con maggiore cognizione dei fatti. Tra noi c’era chiaramente una certa ingenuità nell’utilizzo del termine, che si rifletteva sulla linea editoriale stessa, e però resta intatto l’atteggiamento spontaneo con cui cercavamo di esprimere le nostre idee.
L’invito di Alibi a rimettere mano a due mie prose risalenti al 2010, frutto di un lavoro attorno al Finnegans di Joyce, mi ha di nuovo messo in contatto con le esperienze maturate insieme a quel progetto le quali poi, in maniera abbastanza bizzarra, si sono tradotte nella stesura dello “Slum pastiche”. Potete leggere al riguardo uno stralcio della mia nota editoriale all’interno di un recente intervento da me dedicato all’attività di scrivere e tradurre. Per il resto rimando al numero elettronico di Alibi, acquistabile in versione cartacea su Lulu.com, e alla nostra breve intervista qui di seguito.



Parlando del vostro progetto, tra i modelli letterari cui vi ispirate, salta fuori il nome di Queneau. Dato che il suo modo di narrare riscuote un considerevole interesse anche da parte mia, penso che la sua voce sia il miglior punto di partenza per il nostro confronto. Nel suo capolavoro I fiori blu si legge: «L'istruzione! Vede cos'è l'istruzione, signore? S'impara quel tanto a scuola, si fatica, e non poco, per imparare quel tanto a scuola, e poi, vent'anni dopo, o magari prima, non è più così, le cose sono cambiate, non... se ne sa più niente. Allora non valeva la pena. È per questo che mi piace più pensare che imparare». Trovo questa frase illuminante, soprattutto per quanto riguarda l'epoca che stiamo attraversando. L'affermazione di Queneau fa senz'altro storcere il naso a chi difende il nozionismo a tutti i costi. Eppure, quella che si presenta in veste di contraddizione - come diavolo è possibile pensare senza essersi prima dedicati all'apprendimento? - è invece un inno a liberarsi da una pseudocultura, per lo più inservibile all'azione. Insomma, Queneau sembra dirci: sapere meno ma sapere meglio, sviluppare cioè una consapevolezza dietro e dentro i concetti che assimiliamo. Qual è la vostra opinione al riguardo?

La cosa importante, a nostro parere, è sapere dove cercare e come scegliere gli strumenti giusti, utili nel proprio percorso, non portarseli addosso, appesantirsi. Il nozionismo nudo e crudo è difeso da coloro che hanno ingabbiato il proprio pensare in una scatolina di abitudine e convenienza, assuefatti al ritornello, alla ripetizione protettiva, la routine che è un comodo sofà che però rende facile il sonno; che vivano pure con la fissità di un ghigno sul volto. Noi siamo con Queneau, anzi di più, non è solo una questione di "più pensare che imparare", ma di imparare a pensare. Penetrare i concetti, sviluppare una capacità di analisi, avere delle opinioni. La scuola, in tutto questo, ha un ruolo fondamentale. Ovviamente, con radicali cambiamenti. Una nostra prima proposta, adottare nelle scuole primarie gli "Esercizi di stile" come libro di testo imprescindibile.

Le società occidentali, anche se sarebbe più corretto dire globali, perché il modello esportato è ormai riconoscibile in buona parte del mondo, hanno nella diffusione e consumo di informazioni (sotto forma di immagini, slogan, sunti destinati ai social network) il loro tratto distintivo.
L'antropologo Marc Augé in un passo del suo importante saggio, Rovine e macerie, a tale proposito scrive: «Assistiamo oggi a un appiattimento del tempo e a una sovversione dello spazio che investono la materia prima del viaggio e la scrittura. […] Le tecnologie della comunicazione pretendono di abolire qualsiasi distanza, di eludere gli ostacoli del tempo e dello spazio, di dissolvere le oscurità del linguaggio, il mistero delle parole, le difficoltà dei rapporti, le incertezze dell’identità o le esitazioni del pensiero. […] Il rinvio di sé agli altri e degli altri a sé, in cui consiste idealmente la definizione del viaggio e della scrittura, è minacciato dall’illusione di saper tutto, di aver visto tutto e di non aver più niente da scoprire: minacciato dal regno dell’evidenza e dalla tirannia del presente. E tuttavia, anche se ce ne rendiamo conto solo in modo effimero e intuitivo, vi sono, nel mondo che ci circonda e in ciascuno di noi, zone di resistenza all’evidenza. Lo scopo del viaggio, lo scopo della ricerca letteraria, dovrebbe essere, ed è talvolta, l’esplorazione di queste zone di resistenza».
Preso atto di tali dinamiche, per l'antropologo francese non si tratta tanto di addomesticarle, quanto di opporvi una vera e propria cultura di resistenza. La sensazione, tuttavia, è che siamo talmente immersi in questo processo da fare fatica a uscirne, quantomeno a sviluppare una coscienza capace di alimentare in noi linguaggi alternativi. Mi piacerebbe ascoltare un vostra riflessione.

Ogni artista, e nella fattispecie ogni pensatore o letterato, ha scandagliato le zone di resistenza all'evidenza proprie del suo tempo, lottando contro una cultura dell'evidenza. Oggi il letterato ha di fronte un nemico più subdolo. Dal discorso teniamo fuori i narratori, o meglio i romanzieri, volendo scomodare Walter Benjamin. Costoro sono immersi nell'evidenza fino al collo, ricreando copie su copie dell'ovvio che ci circonda. Viviamo in un mondo globalizzato, culturalmente sterile. Se l'uomo, nella sua accezione più ampia, è profondamente disorientato, senza una forza culturale che lo guidi, e oramai assuefatto e indolente a ogni forma di opposizione, il letterato deve impegnarsi a mettere in campo tutte le possibili azioni di contrasto e alle zone di evidenza contrapporre zone di dubbio. Una coesistenza, quindi, di azione (resistenza) e immobilismo (resa) non può non esserci, addirittura è necessaria a ché l'universo umano esista. Ognuno ha il proprio spazio socioculturale in cui esprimere la propria identità. Per creare la propria esperienza umana che è storia, ma anche rovina.

Mi collego alla domanda precedente per esplorare con voi un'altra dicotomia radicata nella nostra contemporaneità. Se da una parte si evocano le scienze e le loro applicazioni come essenziali per il miglioramento della nostra qualità di vita, dall'altro è pur vero che la presenza immanente della tecnologia nel quotidiano sembra freddare i rapporti umani, imbrigliandoli in un contesto meccanicistico. I dispositivi di cui ci serviamo per comunicare moltiplicano i nostri contatti, quindi in teoria ci avvicinano a un maggior numero di persone, ma la velocità di tali scambi spesso non riesce a spingersi oltre un livello superficiale. Si tratta di una pesante forma di omologazione e a risentirne, è inevitabile, sono le nostre modalità espressive: le parole stesse divengono prevedibili, scontate, 'pesantemente vuote'.
In base alla vostra esperienza di cercatori di linguaggi nuovi cosa potreste dire al riguardo?

Le parole hanno le nostre bocche, ecco il dispositivo. Senza altri mezzi, senza mezzi termini. Nessun surrogato. La tecnologia andrebbe usata come aiuto, ché tale deve essere. Raggiungere la notizia, informarsi, scandagliare, arricchire il pensiero. Ben venga, allora. Ma i rapporti umani non si possono ridurre a una schermata. Oggigiorno, purtroppo, è così. Social-misantropi ai quali basta sbirciare dalla loro finestra-schermo un post o conoscere il tuo "stato", poi si passa avanti. Ci si riduce alla didascalia di se stessi. L'atrofia del linguaggio, dello scambio verbale, è deriva dell'uomo, senza scomodare la letteratura. L'indagine sociale però la lasciamo ad altri. Noi guardiamo sgomenti il declino culturale. Non si legge più, o pochissimo. Ne prendiamo atto, ed è un duro colpo per chi, come noi, ritiene l'arte delle lettere un bene prezioso. Pertanto, stringiamo il cerchio intorno a chi il linguaggio lo frequenta. Ed eccoci a proporgliene di nuovi, inusuali. Anche il libro è una finestra. Avrà le ante di legno un po' scricchiolanti, ma la vista è magnifica. Noi cerchiamo di offrire allo sguardo più ampie prospettive.

Qual è la vostra idea di avanguardia? È ancora possibile, secondo voi, un discorso avanguardista nelle arti o si rischia di cadere in una serialità anche nell'affermare di essere "altro" da quel che c'è o c'è stato?

Prima di tutto, riteniamo necessaria una distinzione tra avanguardia come etichetta e avanguardia come concetto. Appiccicare un bollino che sancisce l'appartenenza a un gruppo non ci interessa. La molteplicità nell'unicità di un identificativo oggi non è più praticata e non è nostra intenzione riproporla. Meglio la singolarità nella pluralità espressiva. Un egoismo collettivo, a significare voci autonome accomunate dalla stessa urgenza di ricerca, di sperimentazione, e non dal riconoscersi in un nome. Non c'è serialità quando si è "altro" dall'altro.

Dopo circa tre anni passati sul campo alla ricerca di voci fuori dal coro, in contrasto con una creatività troppo semplice, troppo poco avvezza a giocare coi modelli e sporcarsi le mani, insomma guardando al vostro laboratorio e fuori, quali sono i margini reali di sopravvivenza di una scrittura veramente diversa nel doppio senso della sua origine e originalità?

Le difficoltà sono palesi, ma la materia prima non manca. Molti sono gli autori che mettono in campo una creatività non omologata. Ne abbiamo avuto coscienza a mano a mano che il nostro progetto andava avanti. All'inizio eravamo alquanto scettici. Credevamo difficile trovare le cosiddette voci "fuori dal coro", noi che siamo appassionati lettori delle avanguardie passate, di chi, in un certo qual modo, in un coro c'era, in un'identità comune esprimendo un dissenso, in quella risonanza di idee. Ci siamo dovuti ricredere, pur consapevoli che la nostra è una "sopravvivenza" a margine delle produzioni di consumo di un'editoria da intrattenimento. Ma la rete, ecco uno dei lati positivi della tecnologia, ci permette di esserci ed essere raggiunti da coloro, autori o lettori che siano, che vibrano alle nostre stesse frequenze.


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