21 novembre 2015

L'università del dissenso



Qualche rigo per introdurre l’articolo citato nel mio precedente contributo. Come già detto, l’attualità delle riflessioni di questo pezzo basta a meritare la loro riproposta. La forma in cui è stato scritto, nove anni or sono, permette al tema di parlare ancora con chiarezza. Il fatto che si prenda spunto da un testo sessantottino ha un valore accidentale; il ragionamento degli studiosi chiamati in causa trova infatti una sua consistenza ben al di là delle fitte retoriche costruite intorno alla protesta. Resta innegabile che un generale ripensamento di certi apparati non sarebbe emerso senza quella sfaccettata sollevazione di coscienze, dove aspetti senz’altro puerili convivevano con una dissidenza più meditata. Ho avuto la fortuna di farmi spiegare il Sessantotto da chi lo aveva vissuto, anche se forse il racconto più sincero è venuto dal mio primo compagno, che da ragazzo organizzò i mercatini rossi nelle periferie della città e passò le nottate a ciclostilare volantini. Si prese qualche manganellata e non fece carriera politica. Quasi tre decenni dopo, quando io l’ho conosciuto, ne parlava all’ombra della sua sterminata biblioteca come un’avventura giovanile, rivendicandone tuttavia il fondamentale contribuito allo svecchiamento del sistema. Di fronte alla mia perplessità, mi ripeteva che qualcosa era stato smosso, qualcosa che oggi, insieme a molto altro, si tende a dare per scontato. 
Anche in queste stesse ore. Mentre ascoltiamo ovunque l’invito a custodire i “valori occidentali”, dimentichiamo che non si tratta di assiomi, ignorando peraltro la lunga e traumatica vicenda della loro conquista, ma anche l’altrettanto turbolenta fase della loro discussione interna ed esterna. Sulle scissioni del nostro tempo, troppo spesso descritto nei termini di una asintomatica variabile, indegna perfino di un manuale di fisica, riporto alcune frasi che Thomas Mann, attaccato in modo pretestuoso da alcuni giornalisti americani, dedicò alla polemica che lo coinvolse nel 1951. Mi sembrano emblematiche di come il confronto democratico, sviato ad arte da personaggi di dubbia caratura morale, ma evidentemente molto comodi quando ci si prepara a una “caccia alle streghe” in piena regola, corra il rischio di finire in un pantano di irrazionalità dove vengono gettati tutti, tranne quelli che soffiano sul fuoco.
   
«…Mi viene dato del bugiardo solo perché il signor Tillinger crede unicamente alle sue “streghe”. Ho replicato a lui e al «Freeman», e posso contare sul fatto che la stampa riporterà immediatamente la mia risposta. Certo, tutto ciò rimane un’infamia sintomatica, tanto quanto una truce sciocchezza. Rinnegati ex comunisti ed ex spioni sovietici, esperti traditori – senza alcuna eccezione! – si ergono e sono accettati quali paladini della democrazia. Gente incapace di distinguere il nero dal bianco e che, almeno presumibilmente, ritiene i trucchi più primitivi della propaganda comunista migliore moneta della parola di un uomo, d’integrità finora indiscussa; questa è la gente chiamata a difendere la decenza e la libertà. Non sono comunista e non lo sono mai stato. Nemmeno sono suo compagno di viaggio, né potrei mai esserlo, lì dove il viaggio finisce nel totalitarismo. In quest’occasione, però, voglia essere dichiarato che in questo paese, di cui diventare cittadino è stato per me un onore, l’odio per i comunisti – isterico, irrazionale e cieco – rappresenta un pericolo di gran lunga più terribile del comunismo all’interno; si appare in procinto di cadere e di abbandonarsi completamente alla follia persecutrice e al furore persecutorio; tutto questo non solo non potrà condurre a nulla di buono, bensì, se al più presto non si riflette, condurrà al peggio». (Thomas Mann, Io constato…)

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Molte delle argomentazioni qui evidenziate vengono da un vivace libro di storia politica, L’università del dissenso, Einaudi, a cura di Theodore Roszak, dato alle stampe nel clima di protesta del ’68. Distanziandosi dagli entusiasmi gratuiti che quel periodo suscitò e che sono alla base di una sua impolitica mitizzazione, questo volume si configura come un osservatorio attento allo stallo culturale della società statunitense nel decennio che va dai Sessanta ai Settanta, difficoltà ancora insuperata e che, anzi, rappresenta tutt’oggi un elemento di crisi profonda del mondo occidentale.

Vorrei cominciare questa mia riflessione con le parole di Louis Kampf, un professore americano controcorrente che, negli anni ’60-’70, insieme a pochi altri colleghi, mantenne uno sguardo lucido su quello che stava succedendo nel mondo accademico del suo paese, rilevando la pesante compromissione delle sfere più alte della cultura con la crescente aggressività dell’imperialismo statunitense.
«Al congresso dell’anno scorso [si tratta della Modern Language Association] mi sentii quasi sopraffatto dal pensiero del Vietnam. Vedevo, al posto dei miei colleghi accademici, fantasmi di contadini vietnamiti bruciati dal napalm. C’era qualcuno, in tutto il congresso, che se ne preoccupava? C’era qualcuno, fra coloro che in quel momento leggevano le loro comunicazioni, che metteva il suo lavoro in rapporto a questo problema? Qualcuno la cui umanità entrasse a far parte dell’abilità tecnica? A un certo punto mi trovai immerso nella seguente fantasia: se tutti questi 15 mila congressisti, infuriati per la carneficina che sta avvenendo nel Vietnam, decidessero di occupare la Casa Bianca…»
Il sistema americano, bisognoso di reclutare nel minor tempo possibile persone che mostrassero di abbracciare in maniera acritica le ideologie dominanti, aveva cominciato a costruire, con particolare incremento nel secondo dopoguerra, la propria strategia di mercenariato, volto all’accrescimento dei ranghi di un’élite che ratificasse senza sollevare problemi e polemiche di natura sociale e morale, le decisioni governative. L’allettamento principale, attraverso cui lo Stato si assicurava la collaborazione incondizionata dei soggetti reclutati, erano i soldi. Le continue promesse di carriere, premi, avanzamenti, vacanze, crearono una competizione esasperata tra chi faceva parte o si accingeva a frequentare le roccaforti della cultura americana.
Le aspirazioni carrieristiche dei singoli distolsero sempre più dai reali compiti critici della cultura e distrussero soprattutto i legami tra gli uomini che detenevano un sapere più alto rispetto alla media e che, fino a un certo momento, avevano quantomeno tentato di interpretare i loro rapporti alla luce se non di un attivismo sociale, almeno di un’idea di impegno morale nei confronti della collettività.
I legami all’interno dei componenti della classe dirigente e dei corpi accademici vennero destinati al mantenimento di vuoti formalismi e apparenze, ai quali i singoli mostravano di adempiere entusiasticamente, ancora una volta per trarre ulteriori vantaggi personali. In questo rincorrersi di egoistiche aspettative, l’impegno culturale militante andava a farsi benedire, le facoltà scientifiche conoscevano tempi d’oro grazie a lauti finanziamenti, perché da quelle ci si attendeva l’innovazione, soprattutto a livello di tecnologie belliche, che avrebbero guidato alla conquista del mondo e portato prosperità al paese, mentre gli umanisti alloggiavano in soffitta. Ci si doveva assicurare che non venissero fuori dei novelli philosophes che tanto avevano insistito sulla militanza delle lettere; era necessario che queste discipline fossero relegate in uno spazio estetizzante, poco visibile, ma ben lustro e accogliente, quanto bastava per tenere mansueti i suoi abitatori. 
Gli allettamenti monetari hanno funzionato davvero bene in questa prospettiva. Louis Kampf rilevava come l’evanescenza del mondo accademico, comprato dai vertici dello Stato, costituisse un’enorme problema politico, dal momento che la cultura rinunciava così ad una necessaria dimensione di indipendenza e al proprio compito di discussione critica dei problemi della società.
Theodore Roszak, nome importante della retroguardia accademica americana, si è soffermato sul fenomeno della ricerca, di come questa, ripiegata su se stessa e svuotata di molte finalità concrete, aveva prodotto splendidi risultati specialistici, destinati ad arricchire molte scaffalature di biblioteche. Ma sulla validità delle tante compilazioni c’era molto da dire. Quante servivano a tenere i singoli inchiodati alle sedie dei loro studi, impegnati in cose che irrimediabilmente li avrebbero distolti dalla realtà effettuale? 
Ora, è lecito avere opinioni diverse sulla ricerca, e io personalmente che sono onnivora di letture non ho difficoltà ad ammettere che a un certo punto un qualche studioso, per elaborare la propria teoria, avrà bisogno di ripescare precedenti lavori che si pensavano avviati a un definitivo anonimato. Ma la questione che pongono Kampf e Roszak riguarda l’urgenza morale di un risveglio dal torpore in cui abbiamo condannato le ricadute concrete del nostro sapere (e dunque saper fare!), visto che molte delle problematiche dell’università americana sollevate trenta, quarant’anni fa, restano ancora insolute.
Mi riferisco ad esempio allo scandalo che si consuma attorno alle lettere. A che serve lo studio della letteratura, se non si trae dai suoi testi un insegnamento morale e non lo si trasmette alla collettività? La funzione degli studi umanistici pare arrestarsi al compito di far apparire un po’ meno rozzi gli uomini di scienza, in generale riducendosi a corollario di qualcos’altro. Che le università siano diventate in molti casi l’incubatore di una vacuità culturale e, per conseguenza, professionale è un triste dato oggettivo. La crisi dell’occupazione viene in buona parte da una debolezza estrema, per così dire dialettica, del sistema scolastico. 
Si è senza dubbio registrata negli ultimi anni una preoccupante acutizzazione dei processi di svendita culturale, e si è incrementata la rinuncia a formare persone consapevoli e dotate di una coscienza critica. Mi pare quindi che gli appelli dei due intellettuali citati siano, a oggi, disattesi.
Quando si rinuncia alla cultura e all’insegnamento morale che racchiude, quando non ci si sofferma più ad analizzare i fenomeni e si perde contatto con gli strumenti che a ciò servono, si butta via la possibilità di criticare le nostre stesse azioni.
Ed è per questo, forse, che abbiamo una quantità elevatissima di studi sui danni della deforestazione, ma stiamo cancellando dalla faccia della terra le foreste primarie, come in Camerun e in Borneo. E gli studenti non bloccano le lezioni per parlare insieme ai professori delle stragi del Libano, della guerra in Iraq o per analizzare le cause del pericolo terrorista, ma pensano a quanti crediti stanno accumulando con i corsi e gli esami.
Si svegli chi può!

(Di Claudia Ciardi – agosto 2006)

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1 commento:

  1. Ho trovato molto interessante la riflessione dello storico Ernesto Galli della Loggia riguardo l'emorragia di iscritti negli atenei italiani. Finalmente qualcuno si pronuncia con chiarezza sulla situazione, e l'insieme è tutt'altro che confortante. Ecco alcune cifre citate dal professore: meno 20% gli immatricolati nell'ultimo quinquennio, dato che va di pari passo con l'assottigliamento del corpo docente, meno 17 %, nel medesimo periodo; spesa statale per borse di studio ferma da dieci anni a 160 milioni di euro, dunque, sottolinea a ragione della Loggia, in calo se considerata in termini reali. Non sorprende, a corollario di ciò, che l'Italia sia ultima in Europa per numero di laureati. Buttarla sempre e solo sulla crisi economica, il tappeto magico sotto il quale si riesce a nascondere tutto, sa di cattiva coscienza. Della Loggia evidenzia deficit strutturali del nostro ordinamento universitario, su cui grava anche l'ulteriore cesura nord-sud. Vizi e carenze che si trascinano irrisolti da decenni, aggravando un quadro di sicuro compromesso anche dalla riduzione fisiologica dei fondi, stavolta sì, a causa della congiuntura sfavorevole.
    Aggiungerei, e mi auguro che il professore torni presto a discutere anche questo aspetto, che nel contesto italiano, dove il merito si premia molto poco, lo studente si trovi a essere alquanto disincentivato a imbarcarsi in un'avventura pluriennale che non gli assicura né una formazione competitiva rispetto ai colleghi europei né uno sbocco lavorativo. Inoltre a me pare che i docenti in Italia, disincentivati a loro volta dalla condizione poco propizia in cui operano, ma questo intendiamoci non li assolve, si sentano sempre meno responsabili verso lo studente.
    Se tra i loro allievi qualcuno è particolarmente dotato non si prendono la briga - sinonimo di grattacapi - di spingerlo avanti, vuoi perché non hanno loro stessi la caratura e il peso accademico per farlo, vuoi per un misto di pigrizia e rassegnazione che li fa guardare sconsolatamente alla loro stessa carriera.
    Anche su queste cose, che non sono di poco conto, e che si saldano nei casi più gravi sulle liturgie dello scambismo clientelare e del favore fatto al figlio di tizio che fu ricercatore e stimato collega o amministratore o segretario d'ambasciata e quindi "a me conviene" elargire a lui anziché altrove, insomma anche qui bisogna avere il coraggio di sanzionare e interrompere la viziosità. Difficile, certo, perché i meccanismi baronali generalmente vanno insieme al nonnismo politico.
    Nell'articolo, della Loggia espone buona parte delle criticità italiane e chiede al governo di raccogliere eventuali proposte per frenare il declino. Dal canto mio insisto nel dire che la mancanza di concretezza e sincera attenzione nei confronti del destino della comunità studentesca non potranno che intensificare l'emorragia.

    Università, il declino da fermare di Ernesto Galli della Loggia sul «Corriere della Sera», 30 dicembre 2015

    Essendo già intervenuta anche in materia di Erasmus e elargizione di borse di studio che siano veramente democratiche e meritorie rimando ai due commenti datati giugno 2015, pubblicati nella sezione "Marginalia"
    http://margininversi.blogspot.it/p/raccontare.html

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