È
di sicuro uno dei luoghi più poetici di Torino, non solo per gli appassionati
di montagna. Salire al Monte dei Cappuccini significa godere di una delle viste
più belle della città e, se vogliamo, anche di una prospettiva un po’ insolita.
Il punto panoramico sulla terrazza del museo permette di abbracciare l’intero
abitato, con uno degli scorci migliori sopra il Po – i Murazzi nei pressi del
ponte Vittorio Emanuele – davanti alla corona delle Alpi. Tuttavia le montagne
non si concedono facilmente. Se si va lassù in estate, come ho fatto anch’io, è
abbastanza probabile non vederle per nulla; foschia e inquinamento hanno di certo
la meglio. E mi raccontava il responsabile di questo spazio che anche d’inverno
le condizioni ottimali per un avvistamento nitido, senza velature né opacità,
sono assai rare. La foto ufficiale che campeggia all’entrata del polo
espositivo, realizzata nel 2011, ha richiesto sei mesi di appostamenti. Mentre
mi beavo di questa singolare impresa, che grazie alle qualità del mio narratore
si ammorbidiva nei toni della cullante garbatezza piemontese, immaginavo la
vita del fotografo per così tante settimane in cerca dello scatto giusto. Ad
ogni modo la resa finale è valsa sicuramente questo enorme, quasi monastico,
esercizio di pazienza.
So
bene come vanno certe cose. Anche le Apuane da Boccadarno sono piuttosto
volubili e capricciose. Talvolta si scoprono in maniera del tutto inaspettata,
cogliendo di sorpresa i loro devoti ritrattisti che non riescono a organizzarsi
in tempo per puntare gli obiettivi. Questione di poco, cambio di luce, un
po’ di foschia dal mare e addio panorama. Tanto che quando cerco di descrivere
ai forestieri l’esistenza di questo piccolo Tibet affacciato tra la foce
dell’Arno e l’incantevole Marina, mi prendono per un’invasata che, causa un
attaccamento puramente personale, tende a ingigantirne il fascino
paesaggistico. Ma chi lo ha visto, sa. Può capitare pure che nel giro di una
serata si scoprano i crinali del versante viareggino e allora, stando in piedi
al centro della piazza del paese, si veda l’alpe accesa dal tramonto navigare
letteralmente attraverso la foce e incombere sulle case. Eppure, lo ripeto,
sono perle rare. Le montagne, ne sono sempre più convinta, ti sentono e si
lasciano avvicinare solo se sai rispettarle e amarle. Questa considerazione
l’ho letta in tanti libri di alpinisti – quelli veri – e per prima l’ho
incontrata nei bei racconti di Mario Curnis, quando rivolgendosi all’Everest pronunciava
questa sorta di preghiera «Ascoltami: stavolta siamo appena in due; due
pellegrini e uno sherpa. Saremo tranquilli. Non ti disturberemo. Non
sporcheremo le tue nevi. Però tu lasciaci venire su» [Annuario 2002 del Cai di Bergamo]. Quasi un incantesimo, appunto,
che mi ha tanto commossa perché molto dice della sensibilità di chi lo ha pronunciato
e del suo modo di avvicinare la natura. È lo stesso quando cerchi di rubare
l’immagine perfetta a una cima; le montagne le vedi solo se lo meriti.
Il
museo torinese è un luogo accogliente, capace di trasmettere al visitatore il
senso dell’avventura, della conquista, della sfida ai propri limiti, pur
condotta con intelligenza e modestia, della non comune forza di volontà che
richiede lo spingersi in alto – io amo chiamarla la religione del camminare –
ma soprattutto mette al centro l’etica della montagna. L’allestimento consiste
in un bel connubio tra storia delle spedizioni, pittura e fotografia di
montagna dall’Ottocento a oggi, oltre al cospicuo lascito orientale della
collezione di Mario Piacenza, costituito da vesti, statue del Buddha, oggetti
rituali e d’uso domestico provenienti dal Ladakh, regione himalayana
inesplorata fino al suo viaggio del 1913.
Per
quanto riguarda l’excursus fotografico
hanno principalmente catturato la mia attenzione le gigantografie in seppia che
narrano la lenta inesorabile salita alle cime agli albori dell’alpinismo, con
una preferenza per quelle incentrate sulle donne, nei loro ingombranti
gonnelloni d’epoca, affacciate ai punti d’osservazione dei rifugi sul Monte
Bianco o il Cervino. Gli uomini le affiancano con assoluta naturalezza. Tutti
sono rivolti alla montagna. Sono dei pionieri è evidente; anche se non si
tratta di scalatori ma di semplici escursionisti, loro sono comunque i primi e
sanno di esserlo. Un simile sentire trapela benissimo dalle immagini, e ancor
più lo si nota nella postura delle donne, un atteggiamento che sa di orgoglio e
di forte affermazione ma che forse tradisce anche un moto di libertà, un istinto
naturale cui finalmente si è potuto dare corda.
Nato
nel 1874 come osservatorio dotato di cannocchiale annesso a uno spartano
padiglione di legno, poi trasferito nei locali limitrofi dell’ex convento dei
Cappuccini, le sale del museo hanno acquisito negli anni una fisionomia multidisciplinare
e polifunzionale, spaziando dall’ambito scientifico a quello artistico e
didattico, grazie alle mostre che vi si inaugurano nel corso di tutto l’anno e
alla presenza della biblioteca nazionale del Club Alpino Italiano – in tutto
trentaquattromila monografie e più di mille e seicento periodici a tema
montagna.
A
partire dal rilevante contributo del Duca degli Abruzzi, Luigi di Savoia, cui è
intitolato, e poi con l’Esposizione Internazionale organizzata a Torino nel
1911, il complesso è venuto arricchendosi di materiali e prestigio. Nonostante
qualche battuta d’arresto, questo luogo ha saputo traghettare ai giorni nostri
ciò che è stato il sogno di tante generazioni passate che per prime lo hanno
coltivato avvicinando l’ambiente e la cultura di montagna, e ha il merito di
contribuire all’odierno dibattito sulla salvaguardia del patrimonio naturale e
sui modi di raccontarlo attraverso la parola e l’immagine.
(Di
Claudia Ciardi)
*Presso la Biblioteca Nazionale del Club Alpino Italiano (Salita al Cai, Museo della Montagna - Torino) si trovano le copie del mio volumetto di ambito tirolese, Lou Andreas Salomé, Lungo il cammino, Via del Vento edizioni, 2016.
Il Monte dei Cappuccini dal Po
* Fotografie di Claudia Ciardi ©
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