È
una parola con un’ampia diffusione nella lingua, che a partire dalla sua
etimologia, il latino refugere,
implica un moto di ritrazione, un andare all’indietro, e all’interno, verso una meta che
sappiamo sicura per fuggire immediati pericoli e altre minacce che mettano a
rischio la nostra integrità. Di rifugio si parla in molti contesti, tra loro
anche lontani, e ciò basta a farne un vocabolo ponte che unisce aree differenti
dell’operare umano e del pensiero che vi trae origine. Riparo per chi fugge da
una tormenta o da una tempesta, per chi vinto dalla stanchezza ha smarrito la
via, esiste il rifugio di montagna e il porto di rifugio. Nel medioevo erano
gli ospizi dei monaci che rifocillavano i viandanti, strappandoli alle insidie
delle bufere e delle notti sui valichi. Quindi
sono divenute le strutture, prima assai spartane, tanto in qualche caso da
farli preferire “la bella stella”, poi accessoriate e tecnologiche, per i
temerari delle cime. In epoca di più o meno forzate economie e
crisi ricorrenti si fa un gran parlare di “beni rifugio”, anche questi ormai
desolatamente ai più fuori portata. In gergo militare si definisce così una
struttura sotterranea attrezzata per resistere agli attacchi del nemico. E
infine nelle litanie lauretane l’espressione “refugium peccatorum” risulta
essere uno degli epiteti della madonna.
Col suo librino per escursionisti
e curiosi Enrico Camanni offre un compendio utile
sia ai cultori che ai profani della montagna, e lo fa con la sua scrittura
agile e accattivante che io ho imparato ad apprezzare attraverso le pagine
intensissime di Il fuoco e il gelo, poetico
incrocio di storia e letteratura, per me una delle pietre miliari nella
narrativa contemporanea. Giornalista torinese, alpinista, autore raffinato, profondo
studioso e conoscitore della montagna, sua la consulenza per l’allestimento del
Museo delle Alpi a Forte di Bard che ho avuto modo di visitare in tempi recenti,
nonché curatore dei progetti per il Museo del Forte di Vinadio e il Museo della
Montagna di Torino. Camanni sa avvicinare alla montagna senza clamore né
sovrabbondanti mitizzazioni. Racconta storie col piglio del montanaro esperto
che non ha bisogno di abbellire né di cucire fronzoli a quanto descritto,
perché si nutre della cosa più preziosa, l’esperienza del luogo, la
pazienza della sua coperta.
Quell’andare
lento per cose lente, che occorrerebbe rimettere al centro delle nostre
abitudini, nei rapporti quotidiani che intratteniamo con le persone ma pure con gli oggetti, come
anche quando ci distacchiamo da questi per coltivare insolite lontananze in
cerca d’altre conferme. Precisamente da qui scaturisce l’incanto di Enrico
Camanni, che già in virtù di un simile atteggiamento ci introduce al più bello
dei rifugi, quello in cui sostare per il tempo necessario a ritrovarci. Il
rifugio, è bene averlo presente e l’autore non manca occasione di ribadirlo, ha
infatti per chi lo raggiunge una natura transitoria. Guai pensare di abitarlo,
guai portarvi le abitudini e i difetti dell’abitare. Quell’illusione di
stabilità finirebbe col rivoltarsi contro di noi. Solo nella sua dimensione di
passaggio in grado di soccorrere, anche di salvare la vita in casi estremi, o più
in generale di offrire quel che serve per procedere oltre con maggior forza e
convinzione, solo così il rifugio assolve correttamente il proprio compito.
Questo
“piccolo elogio della notte in montagna” – è il sottotitolo del libro – potrebbe
dunque leggersi come una guida filosofica del camminare e del fermarsi in attesa quali svolte
essenziali nella conoscenza del sé, un po’ in scia alle solitarie passeggiate
di Rousseau.
C’è
spazio nelle belle pagine di Camanni per le imprese memorabili dell’alpinismo,
da Balmat a Gervasutti, ma anche per aneddoti e riflessioni più profonde sui
cambiamenti climatici e la conservazione dell’ambiente. Emblematico e di grande
impatto descrittivo il crollo del seracco pensile del Monviso, vissuto in presa
diretta da due scalatori miracolati, rimasti incolumi. E poi ancora, miti e
leggende alpine, le voci dei tanti che la montagna l’hanno salita e discesa coi
loro sogni, le loro sfide e, cosa più che umana, le loro paure. Perché
avvicinare la montagna equivale a una liturgia. Bisogna sentirlo profondamente
questo rito e averne rispetto nel compierlo. Camanni parla infatti di “momento
liturgico” del rifugio, associandolo al ritorno dall’ascensione. Quasi stato di
grazia, perché la mente è sgombra, le tensioni andate e tutti i pensieri son
disponibili a godersi quel senso assolutamente particolare di ospitalità e accoglienza
che appartiene solo a spazi simili. Non è una cosa che si può spiegare.
Quando si arriva, anche dopo una lunga camminata sulla neve fresca, immersi nei
silenzi della montagna addormentata, e fa già quasi buio e alla fine del
sentiero trovare una porta aperta, magari una stufa accesa e forse qualcuno che
ti serve un tè caldo. Un momento così te lo porti dentro sempre, è una poesia incisa
nella cadenza infinita di una cosa troppo grande e perfetta per essere
trascritta: è la natura con cui ti sei appena riconciliato.
Questo
librino, lo si è detto, tocca e condensa ogni genere legato al racconto di
montagna, dai diari, alle cronache d’imprese memorabili, dalle biografie dei
personaggi che hanno aperto le prime vie alle fantasie di fuochi fatui e
angeli sterminatori venuti a punire l’avidità umana. Tutto vi è rappresentato
col tocco lieve e allo stesso tempo sapiente del grande scrittore esperto di uomini
e terre alte, che in punta di penna ci accompagna fin dove i nostri passi e
magari, ancor più, la nostra immaginazione, avranno voglia di spingersi.
(Di
Claudia Ciardi)
Edizione consultata:
Enrico Camanni,
Enrico Camanni,
L’incanto del rifugio. Piccolo elogio della notte in montagna,
Ediciclo Editore, 2017