Si
avvia alla chiusura la grande mostra sul romanticismo allestita nelle sale
delle Gallerie d’Italia a cura di Fernando Mazzocca. Duecento opere, delle
quali decine esposte qui per la prima volta, ci raccontano attraverso la
pittura di paesaggio e la ritrattistica una stagione culturale dai connotati
inquieti e oggetto finora di un interesse piuttosto superficiale sul versante
italiano.
Milano
ripercorre i passaggi storici e civili che dal 1815 all’unità d’Italia stimolarono
il suo spirito creativo, rendendola a tutti gli effetti una capitale moderna in
grado di fare scuola nei diversi campi del sapere. Una sorta di zona franca e
di comune dell’arte dove le contrapposizioni politiche tra tedeschi e italiani
restavano fuori dalle mura delle accademie. Tratto che si ravvisa anche nella
seconda metà dell’Ottocento quando gli italiani non si facevano problemi a
frequentare le scuole austriache o tedesche di pittura né gli artisti di quei
paesi disdegnavano di soggiornare in Italia. Emblematico di questo ininterrotto
travaso spirituale, dopo la tempesta romantica, può dirsi il simbolismo che sovrappose
i variegati spunti di matrice francese dai Nabis a Gauguin alle personali
interpretazioni di ascendenza italiana e germanica, una contaminazione indirizzata
alla ricerca di linguaggi che traghettassero l’arte al di là dell’impressionismo.
In
un tale stratificarsi di culture e ispirazioni Milano si è posta
indiscutibilmente come polo attrattivo, rinnovando nei decenni la propria
offerta e la capacità di riunire attorno a sé gli ingegni più promettenti che hanno
lasciato una traccia durevole della propria attività. Del romanticismo italiano
poco si è parlato in ambito specialistico e in generale nell’analisi delle
nostre tendenze artistiche d’inizio Ottocento, ed è mancata ad oggi una sua
rappresentazione pubblica, lacuna che questa mostra ha voluto colmare.
Connotato come un fenomeno del nord Europa, si è teso a minimizzare il
contributo del nostro paese che invece scopriamo vitale e trasversale, in senso
geografico, perché ha coinvolto artisti di provenienze regionali diverse, tutti
accomunati da un’idea profondamente emotiva attraverso cui leggere la natura, i
caratteri umani e perfino la quotidianità urbana. Le finestre degli studi d’artista
aperte su strade e piazze si trasformano in occhi che non solo ci restituiscono
un’istantanea di vita appartenente a un luogo, ma perforano la realtà,
scomponendola in geometrie sentimentali, vedute e ritratti scaturiti dal caleidoscopio
dell’anima.
La
rassegna prende non a caso le mosse da Giacomo Leopardi, che ha saputo rendere
in poesia il più bel panorama dell’infinito, sonetto con cui s’inaugura una sensibilità
nuova affidata ai versi e di cui ricorrono quest’anno i duecento anni. Il più
romantico dei nostri poeti, seppure siano da includere nella temperie le
pennellate foscoliane di Alla sera e
l’intimismo gotico, sulla scia dei Canti di Ossian del Cesarotti, germogliato nei Sepolcri, non poteva che inaugurare il percorso milanese accanto a
una grande tela di Caspar David Friedrich, Luna
nascente sul mare (1821), in prestito dall’Ermitage di San Pietroburgo, e
due suoi disegni di stupefacente modernità a grafite e seppia. Il romanticismo
italiano trova inoltre i suoi iniziatori nell’opera dei grandi maestri dei
paesaggi piemontesi, De Gubernatis, Bagetti, entrambi topografi per l’esercito
sabaudo, e poi ancora Reviglio, D’Azeglio migrati dalla Gam di Torino nelle
sale milanesi. Il loro sguardo affascinato sulle Alpi, gli acquerelli dedicati
a ignote contrade silvane, talvolta d’invenzione, architetture che sembrano il
frutto di un incantesimo come la Sacra di San Michele sospesa tra cielo e terra
in un vortice immaginifico. E l’inevitabile accostamento con Turner, che alle
comodità di un lungo soggiorno a Parigi preferì i contrafforti alpini,
catturando l’eterno della luce sulle vette. La sua resa dell’esercito di
Annibale perso nella nebulosa di neve e vento richiama l’invasione napoleonica
ma più che descrivere le contingenze della storia aspira a immortalare il senso
di inadeguatezza se non di disagio dell’essere umano a confronto con gli
elementi naturali.
Una
cospicua sezione è quindi dedicata alle campagne lombarde, laziali e a tutta la
scuola del vedutismo meridionale. Anche qui non senza incursioni e saggi dei
medesimi temi per mano dei maestri europei; su tutti La cascata delle Marmore di Corot con le sue vivide campiture di
colore che trasmettono frontalmente all’osservatore il moto vorticoso dell’acqua
e la vertigine del salto.
Spettacolare
proprio lo studio delle rifrazioni della luce sul mare o i lungofiumi o negli
specchi lagunari soprattutto in condizioni atmosferiche difficili – Venezia è un centro elettivo per cimentarsi, la pietra scolpita dall’acqua e la laguna come spazio
aperto e selvaggio in contrasto ma anche spettacolare armonia con le
architetture della città. Qui è nato il capolavoro di Ippolito Caffi, mai esposto prima di questa occasione, che ha letteralmente
ipnotizzato i visitatori, Eclisse di sole
alle Fondamenta Nuove, 1842.
C’è
qualcosa nella devozione di tali artisti verso i soggetti da loro prescelti che
sa di fatale trascendenza. Se ci si sofferma sulla vicenda biografica dello
stesso Caffi, morto nella battaglia di Lissa per documentare il mare sconvolto
dalla guerra, o di Giovanni Carnovali, detto il Piccio, morto annegato nel Po
mentre cercava misteriosi scorci da dipingere, si resta attoniti. Di rimando ci
sovviene il destino che ghermì Shelley sorpreso da un fortunale sulla sua
piccola imbarcazione a largo della Versilia. Artisti morti per la volontà d’immergersi
completamente nella bellezza di una natura sconvolta, per quella tensione simpatetica
che li ha gettati tra le braccia del sublime fino al più tragico epilogo. Di
tutte le riscoperte innescate dal romanticismo, dall’omaggio alle rovine
gotiche su cui s’innesta quel mirabolante gioco di mimesi e ripresa che è il
neogotico, dal ritratto di persone e cose non più celebrativo ma introspettivo,
al canto del paesaggio nei suoi accenti contesi fra umana operosità e assalti
di natura, è forse lo studio dei cieli, l’osservazione di quei repentini
cambiamenti di luce, colore e forma delle nubi, ad influenzare in maggior
misura l’immaginario d’inizio Ottocento.
Questo
evento milanese ci riavvicina a una sensibilità troppo spesso liquidata come
accessoria, se non avulsa dal tessuto culturale nostrano, mentre qui se ne
riscopre l’originalità autoctona, la forza commovente e l’indiscussa eredità
che è andata riverberandosi in tante espressioni novecentesche.
(Di
Claudia Ciardi)
* Le prese sono state autorizzate dal personale della mostra.
* Le prese sono state autorizzate dal personale della mostra.
Giuseppe Pietro Bagetti, Notturno con nubi.
Il gotico ad Altacomba - Sepolcri dei Savoia
Altacomba - dettaglio
Angelo Inganni, Veduta sulla Piazza del Duomo, 1838
Ippolito Caffi, Eclisse di sole alle Fondamenta Nuove, 1842
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